L’uomo che volle farsi re
India, 1882. Il giornalista Rudyard Kipling conosce Daniel e Peachy, due ex soldati britannici, massoni come lui, che intendono fare fortuna attraverso grandiose truffe. La loro meta definitiva è il Kafiristan, che intendono prima conquistare e poi, una volta ottenuto il potere, saccheggiare. Per un equivoco, però, Daniel viene creduto l’erede di Alessandro Magno, l’uomo che secoli prima era giunto in quel luogo e che la leggenda ha trasformato in una divinità. Investito di poteri illimitati da un paese che lo crede un dio, Daniel decide di assecondare il destino, ma i suoi sogni non avranno buon fine.
C’è una circolarità molto netta ne L’uomo che volle farsi re, che fonda la storia a partire dal rapporto con il Mito e infine torna allo stesso per rivelarne le falsità. Come in tutto il cinema di John Huston, infatti, la sostanza messa in campo è quella di due uomini che tentano di fuggire dal destino imposto dalle circostanze per trovare la realizzazione personale, seguendo regole proprie, ma che invece non potranno che andare incontro a un fallimento che ne rivelerà la sostanziale inadeguatezza rispetto al mondo. La dialettica con il Mito è interessante soprattutto in rapporto all’altra grande opera diretta dal regista nello stesso periodo, il western L’uomo dai sette capestri, dove la leggenda – fordianamente – conferisce alla Storia legittimità.
Qui al contrario i due truffatori che decidono di assecondare quel destino che ha offerto loro la carta dell’inganno, riescono nell’intento solo fino a quando mantengono la consapevolezza di vivere una finzione e sfruttano la stessa per fini puramente materiali ed egoistici. Al contrario, quando Daniel decide di abbracciare fino in fondo il suo status di divinità, finendo quindi per legittimare lo stesso di fronte alla Storia, alla politica, alla religione e alle usanze del posto, viene respinto dalle stesse. Huston compie un’azione intelligente riflettendo sul senso delle cose, allargando il sistema di riferimenti secondo una logica di cerchi concentrici: il romanzo originale diventa un racconto che chiama in causa lo stesso Rudyard Kipling come testimone, in ossequio alla logica della New Hollywood anni Settanta che mira a esplicitare il ruolo tanto del narratore quando del pubblico, per farsi riflessione sul potere della narrazione e aprire così varchi inediti alle possibilità metaforiche del racconto. Non a caso il film è giustamente visto come una satira del colonialismo, dove le battute taglienti e l’arrivismo dei due truffatori riecheggia l’opportunismo delle grandi potenze ottocentesche, che nascondevano le loro corse all’oro dietro il convincimento di portare il progresso alle nazioni conquistate (logica peraltro, tutt’altro che lontana, come dimostrano le guerre preventive del nostro secolo).
E’ però interessante soprattutto il modo in cui il film articola questi discorsi in rapporto alle aspettative del pubblico, generate dalla conoscenza degli stilemi di genere. L’uomo che volle farsi re, infatti, non si presenta mai per ciò che non è: un film avventuroso dalla matrice apparentemente classica nella misura in cui è riconducibile a una storyline diretta e lineare nelle sue istanze. Il pubblico, come accade a Daniel durante la traversata dei ghiacciai o ai monaci che attraversano il Kafiristan, è così ricondotto nel ruolo del non vedente che procede per la sua strada, seguendo i segni identitari dell’avventura: luoghi esotici, personaggi carismatici, una coppia dai caratteri opposti ma dal forte cameratismo. Il film funziona magnificamente da questo punto di vista, grazie anche allo sguardo sempre curioso del regista, che si sofferma sui volti, sulla creatività insita nel caos delle strade e riesce sempre a trarre il massimo dell’espressività da ogni inquadratura: non appare pertanto peregrino vedere in molti passaggi un modello per le future scorrerie dell’Indiana Jones spielberghiano.
Per lo stesso motivo il pubblico parteggia nettamente per Daniel, che della coppia rappresenta sicuramente la figura più romantica e incline alle fascinazioni della leggenda, facile preda delle possibilità offerte dalle lusinghe di una “scorciatoia” per il potere. In effetti, la vicenda non lo nega, Daniel è perfetto per il ruolo della divinità, dimostra anche ottime attitudini da regnante ed è giusto ed equo nelle sue sentenze, oltre che non vittima dei pregiudizi. La sua mano potrebbe forse davvero portare benessere a quel luogo e questa esca che il film offre naturalmente, porta lo spettatore a riflettere profondamente sui confini (e sulle ambiguità) fra colonialismo e civilizzazione.
Ma la vicenda è fermamente chiara nel ricondurre il punto di vista all’altezza dello sguardo di Peachy, che non a caso della stessa diventerà il narratore: il suo cinico pragmatismo, per nulla incline alle lusinghe del fato, ma sempre fermo nella sua convinzione di perpetrare l’inganno fino a quando lo stesso produrrà ricchezza individuale e non collettiva, gli permette di avere sempre salda quella trasversalità di sguardo che non gli farà commettere errori. Huston estrinseca attraverso il personaggio di Michael Caine il suo pessimismo circa la possibilità di una palingenesi, in un mondo dove solo l’individualismo può avere speranze di salvezza. Un film da riscoprire, insieme all’eccellente performance dei due attori Caine e Connery, scelti in sostituzione di Paul Newman e Robert Redford, che il regista aveva posto come sua prima preferenza.
L’uomo che volle farsi re
(The Man Who Would Be King)
Regia: John Huston
Sceneggiatura: John Huston e Gladys Hill (dal romanzo L’uomo che volle essere re di Rudyard Kipling)
Origine: Usa/GB, 1975
Durata: 123’
Collegato:
Il cinema di John Huston
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