"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 20 dicembre 2010

Tron

Tron

Il programmatore di computer Kevin Flynn tenta di espugnare il Master Control Program della ditta Encom, per vendicarsi del suo amministratore delegato Dillinger, che ha rubato le sue ricerche. Il Master Control però sta gradatamente evolvendosi e rischia di inglobare l’intero sistema informatico mondiale, fino a diventare una autentica minaccia. Flynn trova aiuto nei colleghi Lora e Alan: quest’ultimo ha anche inventato un nuovo programma, battezzato “Tron”, per entrare all’interno del sistema e abbatterlo. Flynn però viene colpito dal raggio di un laser sperimentale allo studio della Encom e in questo modo si ritrova all’interno dell’universo virtuale: qui deve lottare al fianco di Tron per sconfiggere la tirannia del Master Control.

Ora che il sequel sta per invadere le sale cinematografiche, viene giustamente da chiedersi che senso abbia recuperare un autentico oggetto d’avanguardia sepolto dalla polvere del passato come Tron, che rischia (come è successo, si veda il primo link in calce) di non essere capito dalle nuove generazioni di spettatori, ormai abituate a ben altre meraviglie tecnologiche. Un prodotto datato, dunque, ma che in realtà ha ancora qualcosa da insegnare, nella misura in cui sia contestualizzato nel momento in cui venne prodotto e nei fermenti che lo agitavano.

Può infatti apparire ancor oggi sorprendente l’idea che uno Studio come la Disney abbia confezionato quello che appare come un prodotto settario e tarato sulla lunghezza d’onda di una gioventù informatizzata: a differenza dei titoli odierni in cui non si può mai recedere dallo spiegare per bene i termini e le coordinate dell’universo messo in scena, Tron non si preoccupa particolarmente di questi aspetti e sembra a tratti parlare una lingua che è per pochi. Chiaramente al fondo soggiace una struttura avventurosa abbastanza classica, con il gruppo di ribelli che deve sconfiggere l’oppressore di turno, ma nel complesso l’insieme è sfuggente e poco incline all’universalismo del cinema blockbuster.

Tron, in fondo, nasce in quel particolare momento storico in cui la Nuova Hollywood sta ricostruendo l’immaginario, portando alla ribalta linguaggi nascosti e realtà altrimenti considerate marginali ed è chiaramente figlio del positivismo lucasiano e del successo di Guerre stellari. A posteriori è comunque più interessante notare lo scambio reciproco d’influenze che il film di Steven Lisberger ha intrattenuto con la saga degli Skywalker perché, se è vero che l’idea di base è una autentica parafrasi della lotta dell’Alleanza Ribelle contro l’Impero Galattico, nei fatti ci sono alcune trovate visive che lo stesso Lucas riprenderà nella più recente “nuova trilogia” stellare, in particolare per l’idea del veliero galattico e per il design delle città (dove si nota la spinta avanguardista e ben poco classica impressa dagli artisti concettuali Syd Mead e Moebius).

Proprio l’iconografia peraltro è l’autentico terreno di scontro sul quale Tron gioca la sua partita, nel passato e nel presente: infatti, rivisto oggi, il film colpisce non per quanto datati siano gli effetti, ma perché il mondo che pone in essere non ha alcuna ambizione di definirsi reale, anzi segna uno scarto voluto e marcato con l’universo “di fuori”. E’ ancora troppo presto per i confronti, ma dalle immagini finora lasciate trapelare sembra che proprio questo scarto si sia ridotto nel sequel (dal quale peraltro qui ci si aspettano grandi cose, la critica non è affatto preventiva), figlio naturalmente di una concezione dell’effetto speciale come elemento fotorealistico e pertanto credibile, pur nella sua inverosimiglianza.

Anche in questo caso Tron poggia su basi preesistenti, che sono quelle della cultura psichedelica: il mondo virtuale non è un universo alternativo che intende essere credibile, ma al contrario un alveo fantastico che riscrive continuamente se stesso secondo logiche difficilmente definibili e che sfociano nel puro esercizio della visione. Come il trip finale di 2001: Odissea nello spazio, piegato a una logica per l’appunto lucasiana, l’altrodove di Flynn è un autentico “viaggio” sensoriale che basta a se stesso in quanto ragione d’essere del racconto. E che pertanto ossequia quel sense of wonder che la moderna logica dell’effetto speciale ha sovente perduto in nome dell’ossessione fotorealistica.

Lo scarto che dunque passa fra logiche matematiche dei “programmi” e dei codici necessari a porre in essere l’universo virtuale, e lo spazio immateriale e autenticamente fantastico che da questo si genera è l’autentico punto di fuga che permette al film di superare la propria inattualità: Tron, insomma, non è il frutto di un ingegno e di una tecnica ormai superate, ma al contrario di scelte stilistiche ben precise e non più replicabili. Oltre che di un’epoca in cui la fantasia intendeva ancora porsi al potere e rovesciare i sistemi basati sul controllo della materia e dell’immaginario.

Non è un caso che il Flynn di Jeff Bridges (scelta di casting intelligentissima e terribilmente stimolante alla luce di futuri exploit dell’attore come Starman e Il grande Lebowski) appaia come un perenne alieno, fuori schema sia nel mondo reale (dove è un outsider) che in quello virtuale (unico “creativo” fra tanti programmi): non a lui è infatti dedicato il titolo, che lo relega invece nel ruolo dell’interfaccia per lo spettatore, lungo il viaggio che porterà la realtà a latere a diventare centrale nel nuovo immaginario.

In fondo è questo che Tron vuole: essere recuperato e compreso nella sua essenza, al di là delle facili apparenze e degli schemi precostituiti.


Tron
(id.)
Regia e sceneggiatura: Steven Lisberger (storia di Steven Lisberger e Bonnie MacBird)
Origine: Usa, 1982
Durata: 96’

I manifesti di Eric Tan

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