Il detective Dwight Faraday ha visto la sua carriera distrutta per la morte di un collega, causata dalla sua imprudenza, e ora è stato destinato a risolvere casi di semplici aggressioni di animali. Un giorno però si imbatte nell’inspiegabile omicidio di un camionista pestato a morte da quello che gli indizi fanno pensare sia un cervo, sebbene i testimoni parlino di una donna sulla scena del crimine. Nei giorni successivi nuovi e ugualmente brutali omicidi spingono il capo della polizia ad affidare completamente il caso al tenace Faraday, che indaga insieme al collega Reed. La soluzione del mistero si annida in un’antica leggenda indiana, che racconta l’esistenza di una donna cervo tanto bella quanto crudele.
Per sua stessa ammissione, John Landis non pensava di doversi considerare un “Master of Horror”, essendo i suoi trascorsi assidui soprattutto nel genere della commedia, ma l’impronta lasciata dal suo Lupo mannaro americano a Londra nell’immaginario globale lo annette sicuramente tra le figure più significative del genere. Consapevole e grato a quel lontano exploit, Landis ne fa il punto di partenza della sua prima incursione nella serie, con il settimo episodio della stagione uno, irresistibile mix di commedia e orrore: nel riprendere l’idea dell’horror comedy a tema mutante (lì un uomo lupo, qui una donna cervo), Landis rovescia però completamente i presupposti dell’idea, mantenendo allo stesso tempo una formidabile coerenza con i principali nuclei tematici della sua filmografia.
Dietro al gusto per il nonsense e all’umorismo demenziale, infatti, il regista americano ha sempre celato una profonda e sensibile capacità di illustrare il senso di disagio degli outsider come indice degli umori della società statunitense. Una sorta di rivendicazione culturale che parte dalle figure “a margine”, e che intende in questo modo tastare il polso di quell’umanità composita che forma la nazione americana. Un lupo mannaro americano a Londra, pervaso com’era da un forte pessimismo mascherato d’ironia, utilizzava quindi la figura dello studente trapiantato giocoforza in Inghilterra per prendere atto del fallimento in atto nell’America post-Settanta attraverso il confronto con la tradizione della vecchia Europa. Ora invece lo spaesamento rappresentato dal personaggio di Faraday, ennesimo reietto e outsider della filmografia di Landis, gioca la sua partita nel cuore stesso delle tradizioni americane, confrontandosi direttamente con il Mito, qui incarnato dalla figura della donna cervo, proveniente dai racconti dei nativi.
Si viene in questo modo a scindere la coesistenza uomo-mostro che connotava il precedente film (che la sceneggiatura richiama direttamente in causa mettendo in relazione il caso specifico con uno “accaduto a Londra nel 1981”) per dare vita a una dicotomia che faccia di Faraday il paladino della minaccia insorgente, il punto di riferimento per un’umanità che ha sbagliato e si è privato degli affetti (il protagonista infatti ha ucciso un collega, ha fatto naufragare il suo matrimonio e non ha più amici) e ora lotta per risalire la china, opponendosi alla stupidità imperante di chi invece considera il rapporto uomo-donna come semplice soddisfacimento di appetiti sessuali. Ciò che quindi emerge dalle pieghe di un racconto apparentemente spiritoso e “leggero” (lo stesso regista lo ha definito con modestia “silly”, “sciocco”) è una riflessione antropologica sul tessuto connettivo alla base della società, che anticipa di poco il devastante ritratto di The Screwfly Solution, l’episodio diretto da Joe Dante per la seconda stagione della serie. Faraday diviene quindi la cartina di tornasole utile a Landis per portare avanti le sue istanze e la donna-cervo (interpretata dalla splendida modella brasiliana Cinthia Moura) viene trattata unicamente come il mostro di turno, che ritorce il male contro la stessa umanità che sogna di possederla, in ossequio alla capacità di sintesi del cinema di genere, ma senza ricadere in facili dinamiche misogine: in fondo, ci viene detto, “perché cercare un significato a tutti i costi? E’ solo una leggenda!”
Ecco dunque che ritroviamo il gusto tipico per dei personaggi sgraziati e in perenne competizione tra loro, tutti destinati a cadere sotto i colpi della donna cervo, tranne l’unico “eroe” che con i suoi problemi comportamentali è in grado di inserirsi sulla lunghezza d’onda del mostro e di fermarlo.
Landis compie la sua incursione nel genere affidandosi al volto splendidamente plumbeo di Brian Benben, con il quale aveva già collaborato nella serie tv Dream On: l’attore si fa dunque incarnazione di un autentico viaggio che il regista compie all’interno della sua produzione e della tradizione di genere, riverberata attraverso alcune gustose citazioni (prima fra tutte quella della celebre “passeggiata” de Il bacio della pantera). Nulla di cui stupirsi, peraltro, essendo abbastanza palese la natura anche autocelebrativa del progetto Masters of Horror. Landis però non è tipo da festeggiare baldanzosamente la conquista del suo scranno nel pantheon dell’horror e l’ironia demistificatoria è lì a ribadirlo: basti considerare il sogno a occhi aperti con il “mostro incappucciato” che rapisce la ragazza e si ritaglia anche il tempo per rimettere a posto la portiera del camion che aveva in precedenza divelto con foga. Un momento gustosissimo, che testimonia, come sempre, che Landis più che per l’orrore, vuole essere ricordato per la sua capacità di scardinare le regole.
Masters of Horror: Leggenda assassina
(Masters of Horror: Deer Woman)
Regia: John Landis
Sceneggiatura: Max e John Landis
Durata: 55’
Origine: Usa, 2005
2 commenti:
Sono d'accordo. Uno degli episodi migliori della prima serie. Una vera e propria deliziosa comedy-horror.
Ale55andra
A me francamente non aveva entusiasmato. Pur riconoscendo le capacità ironiche di Landis (e la strepitosa sensualità della protagonista) l'avevo trovato uno degli episodi meno succulenti della prima serie. Dopo questa tua attenta disamina forse però Deer Woman merita una revisione...
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