Primi del Novecento: Ida Dalser conosce un giovane socialista di nome Benito Mussolini e se ne innamora perdutamente, lo aiuta a fondare il suo giornale, segue con trepidazione le sue vicissitudini durante la Grande Guerra e ne asseconda l’escalation politica. I due hanno anche un figlio, ma con l’andare del tempo quell’amore extra-coniugale (Mussolini è sposato a Rachele Guidi) rischia di diventare fonte di imbarazzo per il futuro Duce. Ida viene così rinchiusa in manicomio e suo figlio Benito è affidato a delle suore perché si occupino della sua educazione. Nel tempo, nonostante nessun documento provi ufficialmente la sua unione con il Duce, Ida continua a gridare la sua verità.
Che la vicenda di Ida Dalser, così magistralmente raccontata dal nuovo, vibrante, capolavoro di Marco Bellocchio, sia davvero accaduta non è in fondo importante: dopotutto il regista emiliano adotta una prospettiva degna di un Polanski, iniettando nella vicenda elementi di ambiguità che, pur non lasciando dubbi sul complotto che investe la sventurata protagonista, suscita domande sulla veridicità dei fatti, sul fatto che parte degli eventi possano essere frutto di una sua interpretazione, forse addirittura una visione.
Per fare questo Bellocchio attacca direttamente la materia filmica, abbattendo le regole codificate fra il dramma storico (che in sé presupporrebbe un rigore tale da rendere la narrazione lineare in maniera quasi asettica) e l’opera sperimentale, che ragiona sulla forma del racconto oltre che sul suo contenuto. In questo modo Vincere diventa una riflessione sulle strategie della narrazione visiva, e mira non solo a raccontare una storia, ma a utilizzare la stessa come paradigma di un’estetica e di un’epoca, elevandosi a un livello universale tale da riflettersi anche nel presente. Non è un caso se l’impressione che si ricava dalla visione è quella di un’opera estremamente moderna: i riferimenti culturali (il futurismo) e transmediali (i titoli dei giornali e il rifarsi anche ai cartelli di cinegiornali e trailer d’epoca), i continui andirivieni tra passato e presente (a iniziare dalla circolarità che iscrive il film nei pochi minuti utilizzati da Mussolini per dimostrare teatralmente che “Dio non esiste”), le verità e le visioni servono a descrivere il perimetro di una ricerca estetica che tenta di riprodurre non solo i colori e i sapori di un’epoca, ma anche il senso di euforia e la confusione dominante in una civiltà che è già schiava dell’immagine e della propaganda.
Pertanto non stupisce notare la trasmutazione che il corpo di Filippo Timi subisce annullandosi nell’icona mediatica del Duce: la presenza dell’attore è limitata alla prima parte, mentre nella seconda subentra il personaggio pubblico, ripescato da filmati di repertorio dove i suoi vezzi, quei tic che oggi appaiono così involontariamente caricaturali, dicono di un uomo felicemente consapevole di essere immagine che si offre al suo pubblico dal proscenio del palco comiziale o dal celebre balcone romano di Piazza Venezia. Non a caso, quando è il figlio Benito a farne l’imitazione, essa diviene grottesca in maniera davvero eccessiva, poiché necessita di essere caricata fino al parossismo per emergere in quanto “copia”, essendo l’originale già di per sé così direttamente finzionale.
Il senso del racconto è quindi palese: restituire la forza di un universo mediato dall’immagine e abituato a confondere la verità con il falso, annullando l’esistenza di una persona che riesce a restare coerente rispetto a se stessa unicamente attraverso la discesa nella follia, condannandosi a una vita in prigione.
Ma tutto questo avviene senza dimenticare la carne e il dolore di una donna condannata a patire tormenti laceranti, che prova a diventare essa stessa immagine (in una scena la vediamo truccata come un’attrice d’epoca – una sorta di Louise Brooks – per attirare l’attenzione del Duce) ma è costretta invece a “recitare” la parte della ripudiata, della pazza: Giovanna Mezzogiorno offre una performance straordinaria, che si accorda perfettamente all’intensità e alla fisicità soverchiante, prepotente di un Filippo Timi che la domina sessualmente (mentre il suo sguardo è rivolto altrove), relegandola nel ruolo della subalterna, fragile e dipendente dall’uomo. Ma è in fuggevoli inquadrature, nella fierezza di alcuni sguardi che emerge invece l’essenza di una protagonista che da vittima sa diventare anche fiera combattente, dotata di fascino e sensualità, pronta a difendere ciò in cui crede con tale ardore da compiere un miracolo.
D’altronde Bellocchio è figlio di una concezione della realtà non materialista, ma capace di aprirsi a slanci quasi fantastici, non è afflitto da complessi di inferiorità rispetto alla Storia e al reale, come già aveva dimostranto nel lirico finale di Buongiorno notte, quando aveva immaginato una impossibile fuga di Aldo Moro dalla sua prigionia. Sono momento anch’essi brevi, fuggevoli, che rivendicano la propria natura illusoria e utopistica: Ida dunque fugge, tenta di ricongiungersi ai suoi cari e al figlio che non vede da anni. E’ solo un attimo prima della resa finale al destino già scritto nella Storia, ma ha un grande significato perché ci ricorda la necessità di sognare, di sperare in differenti possibilità in un mondo così soverchiato dal falso da sembrare inevitabilmente preordinato.
Vincere
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio e Daniela Ceselli
Origine: Italia, 2009
Durata: 128’
Intervista a Marco Bellocchio
Ida Dalser su Wikipedia
Video: Bellocchio a Cannes 2009
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