Sudamerica. Paulina è sopravvissuta alle torture del regime appena caduto e oggi è la compagna dell’avvocato Gerardo Escobar, cui sta per essere affidato il compito di dirigere i lavori di una commissione che faccia luce sui crimini perpetrati dalle precedenti autorità. Una notte però, la donna riconosce nel dottor Roberto Miranda, che ha offerto un passaggio a Gerardo dopo un temporale, il suo carnefice e perciò lo cattura per vendicarsi. E’ l’inizio di un serrato confronto a tre che vede in campo la forza della ragione contro quella dell’istinto, mentre Mirando continua a proclamarsi innocente.
Realizzato nel 1994, La morte e la fanciulla costituisce il tassello finale di un percorso profondamente lucido e amaro che Roman Polanski ha portato avanti a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, con il quale ha descritto la progressiva disgregazione dei legami affettivi all’interno dei nuclei che compongono la società contemporanea, ormai priva di reali punti di riferimento. Nel 1987, con lo splendido Frantic, fulcro del racconto era un uomo che si vedeva improvvisamente calato all’interno di una realtà impazzita dove nuclei di potere tra loro contrapposti gli negavano il ruolo di marito all’interno di un rapporto di coppia rodato; successivamente il lacerante Luna di fiele (del 1990) scendeva all’interno dei sentimenti che agitano il rapporto fra i sessi dando vita a una straziante parabola dove l’amore deve cedere inesorabilmente il passo a un impeto distruttivo che dimostra la pochezza dei sentimenti stessi.
Con La morte e la fanciulla si compie un ulteriore passo in avanti, attraverso una struttura da kammerspiel, dove tre protagonisti mettono definitivamente in crisi i concetti assoluti di fiducia e verità facendo ondeggiare il racconto in un limbo di ambiguità dove nessuno è quel che sembra e lo spettatore è continuamente portato a chiedersi quali siano i reali termini del problema, partecipando emotivamente al dramma che si va consumando.
Ciò che dunque importa non è soltanto il dilemma morale che costringe a interrogarsi sulla liceità del comportamento di Paulina, ma soprattutto la sorpresa di fronte a un cambiamento continuo delle prospettive, che vede di volta in volta la donna nel ruolo di vittima e di carnefice: comportamenti fra loro opposti e che si rispecchiano a loro volta nell’enigmatica figura del dottor Miranda, accusato di crimini contro la persona, ma stoico nel rivendicare la sua innocenza.
L’andamento adottato da Polanski per il racconto è quindi quello di una progressiva discesa nella degradazione umana, dove il rimosso torna prepotentemente a galla costringendo ogni singolo personaggio a fare i conti con il passato e a sottostare a una serie di umiliazioni psicologiche (quand’anche non fisiche) nella speranza di trovare un punto fermo che aiuti a dirimere la questione.
Polanski sembra quasi suggerire che la questione morale sia un orpello ormai inutile di fronte a un dramma che si è già consumato: quello che in fondo noi vediamo non è altro che il dietro le quinte di una tragedia sviluppatasi in passato e che adesso necessita di essere elaborata e ineluttabilmente messa in scena. Ecco dunque che il racconto rivendica una messinscena di stampo teatrale che il testo si preoccupa di esplicitare attraverso una cornice che vede i personaggi assistere a teatro a un concerto di musica classica dove si suona la composizione di Franz Schubert che dà il titolo al film e che costituisce anche la chiave per comprendere la posta in gioco e i trascorsi del rapporto fra Paulina e Roberto Miranda. Il tutto è poi a sua volta un preludio per la vera rappresentazione, lo spettacolo della ripristinata legalità, ovvero la commissione che Escobar andrà a presiedere per mondare i crimini della terra in cui abita, ottenendo in questo mondo anche un grande prestigio.
Il resoconto che Polanski fa del film è dunque spietato e non teme di portare alla luce le ipocrisie di un sistema sociale che si preoccupa di mantenere la facciata di rispettabilità, censurando comportamenti mostruosi perché congeniti all’animo umano, come ribadisce la confessione finale dello stesso Miranda, ancora più terribile poiché esposta lucidamente, con il piglio di chi deve raccontare l’ineludibile verità di un vuoto dell’anima che ha caratteristiche universali.
La disgregazione familiare diventa quindi il primo tassello per una lacerazione più ampia, che interessa la società nelle sue figure di maggiore prestigio (un avvocato, un medico) all’interno di una nazione volutamente non definita (l’indicazione di uno stato sudamericano è utilizzata a livello esclusivamente archetipico) e porta linfa a un dramma a tinte forti condotto senza cedimenti, mantenendo sempre molto alta la carica emotiva, tanto da costituire un autentico tour de force per lo spettatore. Merito anche di una profonda empatia che il regista dimostra con i suoi attori: in primis un Ben Kingsley che riesce a sfruttare il suo consueto personaggio inerme rovesciandolo abilmente di segno, e soprattutto una magistrale Sigourney Weaver, che si concede con trasporto al ruolo disegnando una Paulina Escobar al contempo furente e tenera, perfettamente in equlibrio sul doppio registro del desiderio di vendetta e della dolente frustrazione di chi sa che i conti con il passato non possono essere risolti facilmente.
La morte e la fanciulla
(Death and the Maiden)
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Ariel Dorfman e Rafael Iglesias, dalla pièce teatrale di Ariel Dorfman
Origine: Usa/Uk/Francia, 1994
Durata: 103’
Articolo su La morte e la fanciulla di Franz Schubert
Sito dedicato a Roman Polanski (in francese e inglese)
1 commento:
Interessantissima analisi che mi riporta alla mente il fatto che tempo fa stavo per vederlo e poi mi resi conto di non essere proprio nel "mood" adatto ad affrontare determinate visioni. Prima o poi comunque lo riprenderò tra le mani, sicuramente.
Ale55andra
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