Iraq. Il team EOD è una squadra di sminatori dell’esercito americano, impegnata in missioni rischiose per neutralizzare gli ordigni nascosti nel terreno o fra i rottami dai nemici. Nonostante l’equipaggiamento di alto livello è sempre necessaria una grande dose di sangue freddo e di intuito, ma non sempre le cose vanno come dovrebbero e infatti in una delle prime missioni cui assistiamo il Sergente Thompson perde la vita, lasciando i suoi compagni senza una guida carismatica. Il suo posto viene rilevato dal Sergente William James che, a differenza del predecessore, è animato da un istinto più incosciente e distruttivo, cerca le situazioni pericolose e costringe la squadra a confrontarsi con lo spettro della morte in guerra. Il film segue il periodo di ferma dell’intero team, le loro missioni e i confronti interni.
Il ritorno di Kathryn Bigelow avviene nel segno di un cinema ancora una volta performativo e incentrato su un’ossessione, ma – e la cosa ha spiazzato più d’uno – anche lontano dalle lusinghe del più scontato film bellico di denuncia. La situazione tracciata dalla regista è cioè archetipica, la guerra è quella “sporca” irachena, ma la sua scelta è puramente strumentale, potrebbe anche essere il Vietnam o, ancora meglio, la Seconda Guerra Mondiale perché la focalizzazione è del tutto interna al gruppo dei soldati e non si sofferma sulle cause del conflitto, non si preoccupa di denunciare le manovre politiche che hanno portato quei “ragazzi” in quella situazione. La scelta è ponderata e coraggiosa, perché in questo modo può permettersi di assumere un tono oppressivo e che ancora una volta dimostra la natura eminentemente fisica di un cinema concepito come immersione in un atto estremo (sia esso la prigionia in un sommergibile, la convivenza con un gruppo di vampiri, la caccia a dei rapinatori surfisti e via citando).
Inoltre la scelta della regista permette al film di esplorare un concetto non troppo spesso evidenziato dal cinema bellico che, essendo per l’appunto spesso sopravanzato dal bisogno di cercare la causa del conflitto, tende a ignorare come esistano personaggi per i quali l’azione sul campo di battaglia è una sorta di estasi. La citazione iniziale del giornalista Chris Edgar, che ricorda come la guerra sia anche una droga, serve proprio a focalizzare immediatamente la prospettiva attraverso la quale sarà inquadrato tutto il film, e serve a dare una necessaria contestualizzazione (e nello stesso tempo a esprimere una critica) a quell’indole guerriera tipica del war-movie americano (a sua volta mutuata dagli archetipi del western) focalizzata sul senso della vendetta. L’eroe americano, cioè, è sostanzialmente un vendicatore (un “punitore” verrebbe da pensare, e in questo senso incuriosirebbe vedere la Bigelow alle prese con il personaggio Marvel, magari in una trasposizione del seminale Punisher: Born che in fondo racconta una storia vicina a questa), una figura che combatte sul campo per vendicare i compagni uccisi e si isola in questo modo in una spirale di ritorsioni incrociate che finisce essenzialmente per cancellare ruoli e colpe e per giustificare la violenza per la violenza (può essere illuminante a questo proposito un parallelo con Black Hawk Down di Ridley Scott, che illustra proprio questo tema assecondandone però la filosofia).
The Hurt Locker in questo senso è un film che viaggia su due registri, quello, appunto, performativo che ne fa una pellicola robusta, potente e ansiogena, girata con mano sicuro e grande senso del ritmo, che immerge lo spettatore in uno stato di stress e di tensione continua, diventando esperienza fisica da vivere sensorialmente; e poi quello più “filosofico” che esplora la dipendenza dal conflitto, tema che rimanda alla filmografia della regista. Si può quindi paragonare questa dipendenza a una sorta di “Squid bellico”, con ovvio riferimento alla droga virtuale di Strange Days: la tecnica di ripresa adottata peraltro è molto simile, con ampio uso della soggettiva e della steadycam.
Ovviamente si può pensare che il personaggio di Thompson sia il fulcro della narrazione, quello che, con la sua alienazione e il suo cinico e incosciente gettarsi nell’azione detti i tempi e le regole alla vicenda: questo è senz’altro vero e la performance di Jeremy Renner è straordinaria in questo senso, ma l’aspetto più interessante in realtà non sta tanto nel modo in cui viene “spiegato” questo stato dell’essere dipendenti dal conflitto, ma nei piccoli dettagli che progressivamente lo mettono in crisi e ne denunciano il ripiegamento nella follia, lasciando emergere le prime crepe nello schema ossessivo del racconto. Da questo punto di vista il personaggio fulcro è quello del sergente Sanborn, compagno di squadra di Thompson che attraverso il confronto con il collega matura progressivamente la cognizione dell’importanza del vivere e inizia a desiderare di tornare da quella moglie nei cui confronti non nutriva alcun senso di responsabilità, dimostrando tutta la fatica del dover diventare uomini in quello che era sempre stato affrontato come un’esperienza a metà strada fra il semplice dovere e il gioco più assurdo. Nello scegliere di affidare a un comprimario la voce critica rispetto alla direttrice incarnata dal protagonista, la Bigelow dimostra di aver compreso la lezione del miglior cinema americano e in questo, più che nell’impianto generale, va ricercato un possibile legame con i numi tutelari invocati prepotentemente in più recensioni (da John Ford a Samuel Fuller).
Il resto è un intelligente e anche divertito (per le apparizioni cameo degli attori famosi, spesso destinati a uscire di scena violentemente lasciando spazio ai protagonisti semi-sconosciuti) gioco con lo spettatore, fino alla magnifica provocazione del finale, che ovviamente va scoperto nel buio della sala.
(id.)
Regia: Kathryn Bigelow
Sceneggiatura: Mark Boal
Origine: Usa, 2008
Durata: 127’
1 commento:
Ammiro molto la Bigelow, e mi rinfranca quanto dici: sarà sicuramente un film interessante.
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