E’ un film che vive di ossimori questo Shine a Light e inevitabilmente suscita reazioni composite nonostante la linearità della sua struttura narrativa: già di per sé l’idea del film-concerto (non originale ma sempre più rara tra i film in distribuzione ufficiale) unisce alla fissità della fruizione in sala la partecipazione emotiva a un evento musicale che naturalmente scatena un’energia liberatoria, una voglia di dimenarsi sulla poltrona per accompagnare fisicamente le performance delle “pietre rotolanti”. D’altra parte la caratura leggendaria della band inglese è amplificata proprio dalle caratteristiche tipiche della loro carriera, che ci dicono molto sia sui cambiamenti avvenuti in seno alla società occidentale negli ultimi cinquant’anni, sia all’interno della stessa industria dello spettacolo.
In questo senso Shine a Light più che un semplice tributo diventa un film sulla memoria e si comprende bene come Martin Scorsese sia rimasto affascinato dalla possibilità di mettere in scena l’evento e il mito degli Stones, creando un’opera nella sostanza non dissimile dalle sue celebri epopee gangsteristiche capaci di riflettere metaforicamente sulla Storia dell’America. L’accostamento delle performance odierne con i materiali di repertorio produce inevitabilmente degli scarti all’interno dei quali si innesta il pensiero d’autore, mai esplicitato ma alquanto evidente: da simbolo di trasgressione, perseguiti dai tribunali di giustizia, elementi destabilizzanti che inneggiano al Diavolo come personaggio per il quale avere Simpathy (comprensione), gli Stones si ritrovano oggi ad abbracciare un pubblico transgenerazionale, al cui interno si trova anche l’ex Presidente americano Bill Clinton (che ottiene anche l’onore di aprire l’evento dal palco ricordando le sue battaglie civili per i cambiamenti del clima), come a sancire una loro istituzionalizzazione, una loro integrazione all’industria che è al contempo il simbolo di una società scesa a patti con la loro energia.
La performance stessa evoca poi altri ossimori, che sono quelli di una musica le cui sonorità volgono naturalmente al passato, affondano le loro radici in generi dalla storia radicata come il blues, il rock’n roll e il country, ma non risultano per questo datate e anzi sono capaci di aprirsi a figure della scena pop contemporanea (come Christina Aguilera, fra gli ospiti sul palco). L’energia stessa dell’esibizione (addirittura incandescente nella figura di Jagger) non assume il sapore di un artificio, di una forzatura, sebbene si scontri inevitabilmente con le rughe che segnano i corpi invecchiati degli artisti, fatto amplificato dal confronto diretto con le immagini di repertorio che mostrano gli Stones più giovani.
La sensazione è che in fondo sia la realtà esterna a porre attenzione allo scorrere del tempo, che invece gli Stones decidono semplicemente di ignorare, di considerare un argomento non inerente i loro interessi, il loro lavoro e la loro visione delle cose: non a caso Jagger rivela che la domanda che gli viene posta più spesso è proprio quella riguardante l’età in cui smetterà di cantare, ma che lui fin dai primi anni di carriera non si è mai posto un obiettivo, è andato avanti per quello che Keith Richards definisce il piacere di fare quello che gli Stones fanno. In questo senso è chiaro come il gruppo sia qualcosa in più di un insieme di sopravvissuti al tempo, sia semplicemente un classico, fuori da ogni tempo, mosso da una concezione della vita basata sul qui e ora, che non guarda al passato né al futuro (e non stupisce per questo che lo stesso Jagger rivedendo Shine a Light l’abbia poi definito un film “noioso”, che inevitabilmente lo ha costretto per un paio d’ore a fare i conti con una performance già archiviata nella sua mente).
In questo scenario Scorsese è la guida, ma anche lo spettatore, e il prologo lo mostra pertanto cercare una direttrice da seguire per il lavoro di regia sul concerto: decisione difficile di fronte alla naturale imprendibilità degli Stones, e quindi, per una volta, il regista italoamericano, grande pianificatore del set, attento a una composizione sempre artistica dell’inquadratura, deve a tratti lasciare semplicemente che l’evento prenda il sopravvento sulla forma. Lo vediamo quindi ordinare un totale senza preoccuparsi “che si vedano le gru”, e la sua regia allo stesso tempo istiga gli artisti (impagabile lo sbuffare affaticato di Charlie Watts al termine di uno dei brani) ma non invade il loro campo, conscio com’è che il mondo nel quale è entrato non è il suo ma è quello degli Stones, come il piano sequenza virtuale che chiude il film ribadisce.
(id.)
Regia: Martin Scorsese
Origine: Usa, 2007
Durata: 122’
Intervista ai Rolling Stones
Blog italiano
Sito ufficiale americano
Rolling Stones Official Fan Club
1 commento:
Emozionante l'esecuzione di "Champagne and Reefer" insieme a Buddy Guy e gran pezzo di cinema l'intenso primo piano di Buddy Guy, Keith Richards visibilmente colpito regala (sul palco) la sua chitarra all'artista. Superlativo il fatto che quando è entrata sul palcoscenico la Aguilera, Keith Richards si è lasciato sfuggire un "e questa chi è?".
Scorsese ha creato un film sul mito e nei futuri decenni rimarrà come meravigliosa testimonianza, bello affiancare questo film a
"Cocksucker Blues" di Robert Frank, che svela il dietro le quinte...
Posta un commento