E’ sempre molto bello scoprire quanto le pellicole apparentemente considerate minori nella carriera di un grande regista possano nel tempo rivelarsi delle (ri)scoperte preziose e degne di nota. Il caso della Sposa in nero è abbastanza emblematico, non solo per il suo costituire una delle possibili fonti di ispirazione per il Tarantino di Kill Bill, ma anche proprio per quanto ci dice a proposito della stratificazione tematica e teorica del cinema di Francois Truffaut, spesso comodamente inserito nella facile categoria del “cinema dei sentimenti”. Considerato al di là dei facili pre-giudizi, il film è infatti difficile da catalogare: in prima battuta è un noir, nel quale il regista francese dà sfogo alla propria passione per l’opera di Alfred Hitchcock, complici le pressanti musiche di Bernard Herrmann e l’ispirazione da un romanzo di William Irish/Cornell Woolrich, già autore del racconto alla base de La finestra sul cortile. La costruzione della vicenda non segue una trattazione lineare, le motivazioni che spingono Julie a compiere il suo percorso distruttivo sono infatti rivelate in corso d’opera, attraverso un uso del flashback molto interessante, intercalato ai fatti per svelare progressivamente sempre di più, amplificando quindi due sensazioni: spiazzamento e tensione. Lo spettatore è catapultato immediatamente nel vivo dell’azione e non capisce se parteggiare per questa strana figura femminile o esserne spaventato.
Ma il film è anche una storia di fantasmi (e qui aleggia ancora l’ombra di Hitchcock e del suo La donna che visse due volte), poiché Julie è una donna privata della vita, e dipinta perciò come un’ombra sfuggente, soprattutto nei momenti iniziali, quando ancora la sua missione non si è palesata e la fluidità dei suoi movimenti è accompagnata da un uso sapiente del sonoro e della regia, fino a creare una sensazione inebriante e favolistica. Il suo apparire all’improvviso nell’inquadratura alla festa del signor Bliss, il modo in cui riesce a sfuggire agli arresti (salvo quando non è lei infine a volere il contrario) dimostrano il suo essere situata su un piano temporale altro che la rende allo stesso tempo meravigliosa ma letale (e l’interpretazione fornita da Jeanne Moreau si rivela molto convincente per ritrarre i vari stati d’animo che attraversano e definiscono il personaggio).
Infine è anche una storia d’amore, o meglio sulla fine dell’amore in un mondo ormai tarato sull’ostilità tra i sessi. Non a caso l’evento scatenante è proprio l’omicidio di un innamorato, dal valore quasi simbolico per come lascia il mondo in preda a una classe maschile superficiale e che concepisce la donna unicamente come preda da cacciare per divertimento sessuale. Julie deve quindi imparare a essere anche lei cacciatrice (non a caso il pittore Fergous le chiede di posare vestita come la dea Artemide), per riuscire a imporre la sua volontà punitiva su un mondo maschile non tanto freddo e meschino quanto privo di reale umanità, che uccide per errore (o per gioco), non si accolla le responsabilità delle proprie azioni, e in un certo qual modo sembra meritare il suo destino. Il fatto che il film sia stato realizzato nel 1968 sembra caricarlo ulteriormente di un portato sociologico, e in questo senso Julie diventa quasi un prototipo di donna che rivendica con la forza un suo desiderio di non essere subalterna all’uomo. Il film è con lei, le è complice, la segue e racconta le sue azioni con leggerezza e senza rinunciare a una ironia velata ma presente, quasi a staccare dall’omicidio il senso della fine per dare invece l’impressione di una metamorfosi in atto nell’ordine delle cose.
Tutto questo ben stabilisce la natura anche teorica del film, il suo giocare con i significati e i linguaggi e non stupisce perciò che Tarantino lo abbia tenuto a mente (lui che non si è mai dichiarato un ammiratore di Truffaut). Ma la complessità di un film apparentemente così lineare e ordinario finisce per creare inattesi legami anche con altre personalità cinematografiche attente alla sperimentazione linguistica: è per questo che, nella scena del teatro, vediamo già in nuce alcune strategie narrative che diverranno un marchio di fabbrica di Dario Argento, per l’uso espressivo del décor e della musica, e l’attenzione ai dettagli, insieme a un utilizzo dei tempi in grado di far montare la suspence senza mostrare praticamente nulla di significativo, soltanto basandosi sulla resa emotiva che lo spazio stabilisce con i fatti raccontati.
Dimenticato per molto tempo, il film è ora in uscita in DVD e si può trovare attualmente nelle edicole, allegato alla rivista Ciak.
(La mariée etait en noir)
Regia: Francois Truffaut
Sceneggiatura: François Truffaut e Jean-Louis Richard, dal romanzo “La sposa era in nero” di William Irish/Cornell Woolrich
Origine: Francia/Italia, 1968
Durata: 104’
Pagina di Wikipedia su Cornell Woolrich
1 commento:
bel film! adoro Woolrich(per quel poco che ho letto)...non ricordavo che c'era il suo zampino dietro "la finestra sul cortile"
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