Con tutta probabilità, fra dieci o vent’anni, quando si vorranno tracciare le coordinate dell’horror di inizio millennio, una saga come quella di Saw verrà ricordata come una delle più significative di questi anni, a prescindere dal reale valore artistico delle singole pellicole: ci troviamo infatti di fronte a una serie che come poche altre ha saputo assurgere dalle pratiche basse (in senso figurativo, narrativo e soprattutto economico) agli allori del grande pubblico, reinventando al contempo un filone e codificando un’estetica che ha fatto scuola, tanto da creare un sottogenere denominato icasticamente “torture porn”: qualcosa in più del semplice splatter movie, insomma, dove la dimensione della carne martoriata assume una connotazione differente rispetto a quella delle grandi saghe anni Ottanta come Nightmare o Re-animator, più vicina alle efferatezze del reale, aliena dall’afflato fabulistico che rendeva grandi i boogeyman come un Michael Myers o un Fred Krueger o dal lirismo epico dell’Hellraiser di Clive Barker. Quello che si palesa all’occhio dello spettatore (parte in causa nella vicenda, come suggerisce il sibillino titolo che ammicca al verbo “to see”, “vedere”) è un orrore ammantato di normalità, dove il killer di turno (interpretato dall’ottimo caratterista Tobin Bell) è un malato terminale di cancro, dedito a una malsana crociata contro l’ignavia del presente, di chi non dà alla vita il giusto peso.
Una questione di prospettive dunque, per una vita da alcuni rifiutata e trattata con sufficienza e da altri anelata come un dono prossimo a sfuggire: ma è una prospettiva non filosofica, quanto estetica e teorica. Perché in sé la saga finisce naturalmente per diventare un polo attrattore di pulsioni malsane che sono quelle di una realtà attraversata da orrori quotidianamente elargiti al pubblico, che costringono il cinema ad espandere ancora una volta le frontiere del visibile - e ciascuno scelga i possibili riferimenti, dalle guerre, alle torture nelle carceri militari, alle violenze consumate con rassegnata inevitabilità nei contesti più disparati. Il quadro risulta per questo più oscuro e lercio, il dolore è tangibile e fisico, le luci diventano acide e le tinte sono incupite: più che il rosso del sangue dominano il verde e il nero, i colori degli umori corporei di un mondo incancrenito. Prospettiva estetica, appunto.
Ma allo stesso tempo entra in gioco una dimensione che è quella di genere, del meccanismo thriller che nelle mani dei due registi al momento transitati dietro la macchina da presa (James Wan e Darren Lynn Bousman) diventa una sorta di prolungamento dei sadici rituali tipici dei Reality Show (più volte tirati in ballo nelle sceneggiature), ovviamente amplificati all’ennesima potenza. La prova da superare, la trappola pronta a far scattare il suo inesorabile meccanismo di morte, sono il riflesso di un sentire la vita come proscenio dove ogni gerarchia è bandita e tutti sono potenziali giocatori che devono mettere in palio le proprie inibizioni, i propri sentimenti, definiti attraverso le azioni del passato e le scelte del presente per potersi garantire un futuro.
Il meccanismo di genere si presta poi a interessanti elaborazioni che coinvolgono ancora una volta il punto di vista, attraverso l’uso del classico “twist ending”, il finale a sorpresa che rivela quasi sempre come la prospettiva da cui andava inquadrata la storia fosse tutt’altra rispetto a quella enunciata in apertura di gara, di come la verità spesso si annidi nei piccoli indizi e nelle parole sussurrate dal killer/giudice. Un demiurgo a sua volta sottoposto a inevitabili processi di revisione del proprio ruolo, un po’ carnefice, un po’ vittima, il cui passato è svelato progressivamente per arricchire e stratificare la già complessa macchina di relazioni con le vittime e i discepoli di turno. Prospettiva teorica quindi.
Inquadrando poi la saga nella storia dell’horror recente, ci si rende conto delle sue filiazioni più o meno riuscite (dagli Hostel di Eli Roth, agli esperimenti isolati come Captivity), ma soprattutto di come sia fra i pochi franchise a vantare un sequel realizzato con cadenza annuale, con una progressiva logica di delirante accumulo delle trappole e una continua impennata nella classifica delle efferatezze su schermo: a ripensare oggi ai postulati teorizzati da Wes Craven e Kevin Williamson con la saga di Scream (il sequel è più spettacolare e con più morti, il terzo capitolo è quello che fa il punto della situazione) vien da pensare come Wan e Bousman abbiano applicato la regola in modo quasi certosino, da bravi scolari del sadismo.
E in fondo è proprio qui il cuore di tutto: la capacità di osservare una perfetta pianificazione, attraverso una narrazione stratificata e conscia dei linguaggi, delle derive passate e presenti del genere e degli immaginari dai quali attingere, senza abbandonare una deriva più marcatamente sgangherata, exploitation, tale da far credere che si sia di fronte a un prodotto febbricitante di una qualche malsana energia. Di sicuro in sintonia con i gusti del pubblico attuale, come dimostra il costante successo di una storia che, giunta momentaneamente al quarto capitolo e nonostante la dipartita del protagonista, non accenna a volersi fermare.
(Per un inquadramento storico-critico del “torture porn” e della saga di Saw si consiglia la lettura del Nocturno Dossier n.67 “The Incredibile Torture Show”)
Sito dei fans: Officialsaw.com (in inglese)
Sito di Tobin Bell (in inglese)
Sito italiano di Saw IV
1 commento:
Sinceramente il primo mi aveva colpito e poi colta da curiosità per l'uscita di tutti questi sequel ho deciso di vedere anche gli altri per arrivare a quest'ultimo capitolo. Solo che dopo la visione del secondo, sono rimasta talmente delusa da abbandonare questi buoni propositi. Comunque sia la curiosità per il terzo e quarto capitolo rimane ancora. Chissà, non si sa mai...
Ale55andra
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