Frutto di una coproduzione italo-svizzera e girato nella nostra lingua, Fuori dalle corde è un interessante esempio di come sia possibile raccontare una storia, anche già vista, in modo appassionante se dietro la macchina da presa c’è un regista capace di mantenere la focalizzazione sugli eventi, dimostrando al contempo una ricerca stilistica e un controllo dei mezzi non comune. Uno dei grandi mali della nostra attuale cinematografia è infatti da ricercarsi nell’eccessiva adesione ai canoni estetici e ritmici imposti dalla fiction televisiva, che rende pertanto difficile distinguere un prodotto pensato per il grande schermo, da uno girato per il piccolo.
Fulvio Bernasconi, che proprio dalla fiction proviene, avendo girato nel 2003 il poco noto La diga, dimostra in questo senso di essere una voce fuori dal coro, ama gli argomenti poco esplorati e ha uno sguardo curioso ma non alieno rispetto alla produzione attuale: indaga il sottobosco degli incontri di boxe clandestini, ma allo stesso tempo ossequia una certa tradizione di cinema civile che usa le storie per radiografare una realtà difficile, fatta di fatiche e privazioni, ancora più rilevanti se consideriamo come lo sfondo sia quello del Nord-Est italiano, da più parti indicato come l’autentico “polmone produttivo” del Paese. Probabilmente bisognerà un giorno iniziare a riflettere sul percorso che pellicole come questa, o Riparo di Marco Simon Puccioni o La sconosciuta di Giuseppe Tornatore (giusto per citare due esempi recenti), al di là dei difformi esiti artistici, stanno descrivendo in questa realtà fino a poco tempo fa non considerata o comunque lasciata sullo sfondo rispetto a una regionalizzazione che ha sempre prediletto altre aree della nazione.
Fuori dalle corde è quindi un film di conflitti, sociali e familiari, ma anche di contrasti ambientali ed emotivi: la ricchezza del Nord-Est è messa a confronto con l’estrema precarietà in cui si muovono i protagonisti, costretti a vivere in case sul perenne orlo del pignoramento o occupando appartamenti concessi da altri; la nobiltà dello sport è rovesciata di segno in un continuo gioco di sopravvivenze che spinge a combattere in ring sordidi o, a volte, allestendo macabri spettacoli per spettatori lucrosi e compiacenti e dove l’amicizia è bandita in favore della perenne rivalità. Scenari e storie che pensavamo relegati ad altre epoche, realtà e cinematografie, ma che ora tornano a bussare alla porta dello spettatore.
Certo, la caratterizzazione generale non manca di seguire a tratti strade consolidate, facendo riferimento a facili cliché, che rendono prevedibile più di un passaggio: conviene a questo punto soffermarsi sullo stile, cupo e nervoso, scelto dal regista. Bernasconi gira quasi tutto il film con la macchina a mano, sta addosso ai protagonisti, riesce a creare tensione con poco e utilizza una fotografia poco contrastata, dove spiccano le tinte più scure, quasi a conferire un look noir al suo film, oppressivo e teso. E si affida alla fisicità del suo protagonista principale, Michele Venitucci, attore finora distintosi per ruoli in commedie e, per l’appunto, serie televisive, che opera una radicale trasformazione del suo personaggio-tipo, lavorando sulle sfumature: ne viene fuori un personaggio nervoso, istintivo, sofferente, la cui caparbietà si intreccia con la fragilità interiore di chi è in parte responsabile di quanto gli sta accadendo e in parte vittima degli eventi. Una performance non a caso premiata con il Leopardo d’Argento come miglior attore al Festival del cinema di Locarno 2007
I comprimari non gli sono da meno, e alcune scelte in questo senso sono a dir poco inusuali, rinnovando la capacità del regista di sperimentare soluzioni inedite: basti pensare alla scelta quasi paradossale di affidare a un volto noto della tv più commerciale quale è il presentatore/showman Mauro Serio il ruolo del manager che procura a Mike gli incontri. Il rischio del ridicolo involontario era in agguato, ma l’attore fa il suo dovere senza strafare e riesce a risultare credibile nel ruolo.
Paradossalmente chi convince meno è invece proprio il nome più affermato, ovvero quello della pur brava Maya Sansa, che nel ruolo di Anna appare una scelta poco indovinata, peraltro svilita da un tono grave nella recitazione che in molti passaggi risulta artificioso. Il suo personaggio viene inoltre estromesso dalla scena con troppa facilità, nel momento in cui la parte finale del film decide di concentrarsi unicamente sul protagonista.
A parte questi difetti, che ci auguriamo Bernasconi sappia analizzare per migliorare la forza narrativa dei suoi lavori successivi, siamo di fronte a un prodotto non privo d’interesse e che ci auguriamo possa trovare quanto prima una distribuzione in sala, essendo il film attualmente circolato soltanto in ambiti festivalieri.
Regia: Fulvio Bernasconi
Sceneggiatura: Vincenza Consoli, Fulvio Bernasconi
Origine: Svizzera/Italia, 2007
Durata: 86’
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