Non ci sono in giro molti registi come Gus Van Sant, capaci di passare senza soluzione di continuità dal mainstream al cinema low-budget mantenendo sempre uno spirito fieramente indipendente. Un’indipendenza che non è vezzo, ma una vera e propria condizione dell’anima, capace per questo di riflettere sullo stile cinematografico, sulla sottile linea che divide il cosa raccontare dal come e che per questo porta ogni sua opera, anche la meno riuscita, a risultare in ogni caso un oggetto filmico curioso e particolare, con il quale è stimolante confrontarsi.
Paranoid Park è in questo senso un film che ha molto da dire: a un livello più immediato è un’indagine nell’apatia di una giovane generazione, che però non viene affrontata con piglio sociologico, quanto con uno sguardo curioso, ma anche partecipe, umanistico. La ricerca stilistica scompone la narrazione costruendo, nella prima parte, una struttura a puzzle, utile per restituire l’idea di un universo interiore diviso e caotico, dove la ricomposizione dei pezzi si accompagna alla progressiva presa di coscienza di Alex circa il fatto commesso. Il ragazzo ha infatti rimosso l’omicidio di cui si è reso involontario artefice, come probabilmente è abituato a fare con ogni suo sentimento e il suo immaginario è quello ritratto negli inserti a metà strada fra il sogno e il documentario, dove vediamo gli skater in azione, pedinati nei loro rituali, osservati all’altezza delle loro tavole mentre compiono quelle prodezze che li appagano, li elevano dalla massa ma allo stesso tempo li caratterizzano e li definiscono.
In questi momenti Van Sant si dimostra un regista in sintonia con i suoi personaggi, capace pertanto di emozionare con il lirismo naturalmente derivato dal comprendere e dal riuscire a trasmettere l’emozione che pervade i giovani eroi della tavola a ruote: i gesti sono amplificati dal ralenti e diventano quasi astratti, amplificando la sensazione di sogno, rendendo il tutto un po’ epico, sicuramente stupefacente.
Questa prima parte è però anche quella che stabilisce il legame con uno dei più celebri film del regista, ovvero Elephant, chiamato in causa attraverso le carrellate e i pedinamenti dei protagonisti lungo i corridoi della scuola. Van Sant si autocita come a voler rendere chiaro qual è il contesto in cui si trova ad agire, ma subito si distanzia dal precedente lavoro abbandonando la struttura a incastri per concentrarsi, nella seconda parte, sui pensieri di Alex, ricomponendo i passaggi che lo hanno portato a compiere il gesto violento e non voluto, e qui il ritmo rallenta, diventa ancora più attento alle sfumature. Liberata la struttura narrativa dai balzi temporali e da ogni artificio di sceneggiatura, quello che resta è l’essere umano nella sua complessità, ma anche nella sua lampante verità. Che rimane però un meccanismo insondabile.
La regia indugia sui primissimi piani di un protagonista enigmatico nel vuoto che riusciamo a cogliere nel suo sguardo, comunque permeato da una dolcezza non comune, che è quella delle persone indifese rispetto a un mondo che non li sa accettare e del quale a loro volta non si sentono parte. L’interrogatorio del poliziotto che tenta di “comprendere” i meccanismi e la fenomenologia della comunità di skater si risolve per questo in un momento dal sapore un po’ grottesco, si ha sempre la sensazione di un ingannarsi reciproco, di una distanza che anche nei momenti di avvicinamento sempre resta a dividere i due gruppi e i due mondi.
Alcune crepe però si aprono progressivamente nella storia di questo giovane ragazzo di Portland: il bisogno di raccontare a qualcuno quanto è successo si fa strada nella sua anima e la paura per l’errore si accompagna al bisogno di una figura di riferimento del quale forse Alex non aveva mai sentito davvero la mancanza, ma che d’improvviso diventa importante. Qui Van Sant gioca le sue carte nel modo più toccante perché evita ogni giudizio e si limita ancora una volta al ruolo di semplice osservatore, lasciando che Alex trovi nella parola scritta (come nel sottovalutato Scoprendo Forrester) la via per trovare un (possibile?) punto d’equilibrio nel suo animo.
In fondo è l’anima del protagonista la vera protagonista del film, la componente gialla viene infatti abbandonata in fretta, la risoluzione del caso resta in fuoricampo e l’attenzione ai sentimenti del giovane skater diventa il fulcro di tutto, l’elemento in grado di definire a sua volta il film e di elevarlo dalla massa, facendolo risultare emozionante e vero.
(id.)
Regia e sceneggiatura: Gus Van Sant, dal romanzo di Blake Nelson
Origine: Francia/Usa, 2007
Durata: 85’
Sito ufficiale francese
Sito ufficiale inglese
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1 commento:
Io adoro davvero questo regista. Paranoid park è davvero un grandissimo film.
Ale55andra
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