"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 23 novembre 2009

Torino 27: il ritorno

Torino 27: il ritorno

E’ andata bene, ed è un sollievo scriverlo. Gianni Amelio e la sua squadra hanno fatto un buon lavoro cercando non di cambiare quanto di riequilibrare. A festival terminato si può infatti considerare la 27a edizione del TFF un interessante work-in-progress verso una forma al passo non tanto con i tempi (che sono quelli che sono…), ma soprattutto con la storia e la tradizione di questo fondamentale appuntamento cinefilo.

Sembra che finalmente, insomma, ci si sia posto il problema di non personalizzare la manifestazione sulle idiosincrasie del direttore di turno, che ha invece lavorato di concerto con la sua squadra come un filtro, attraverso il quale far passare un sentire variegato, in modo da dare espressione alle più diverse manifestazioni cinematografiche.

In questo senso facciamo nostre le parole di Dario Zonta, che, nel commentare il premio andato al bravo Pietro Marcello per il suo La bocca del lupo, ha giustamente rimarcato l’importanza di inserire nella selezione ufficiale un titolo così distante dai formati canonici: un atipico ritratto della città di Genova, fra filmati di repertorio e contemporaneità, visto attraverso i racconti di vita di due personaggi borderline, Enzo e Mary, innamoratisi in carcere. Un lavoro caratterizzato da una forma di lirismo capace di farsi immediatamente narrazione empatica e quindi emotiva, antitetica ai canoni del genere documentario in cui pure l’opera si può ricondurre. E tutto questo peraltro in soli 67 minuti di durata (impossibile pensare a un eventuale passaggio televisivo…)! Un film che sarà distribuito anche nelle sale italiane da BIM.

Lasciamo quindi da parte i (per fortuna pochi) piagnistei di chi invocava più glamour, e anche gli inopportuni trionfalismi incentrati principalmente sulle cifre dei “tutto esaurito”, ma anche le seriosità di chi invece rivendicava il rigore come cifra fondamentale della kermesse: Torino è qualcosa di più, e meno male. E’ la possibilità di pensare che il cinema possa ancora costituire un polo attrattivo a prescindere dal nome e dai pruriti del politico di turno: questa attitudine è l’unica capace di rendere un evento culturale importante e bello da seguire, prezioso anche quando finisca per mancare il capolavoro. Ecco dunque che il concorso ha ritrovato una centralità altrimenti dimenticata, grazie a una intelligente razionalizzazione del programma, in passato sparso in una struttura a ragnatela che creava soltanto confusione.

Certo, non eccediamo in trionfalismi: c’è ancora del lavoro da fare per trovare il giusto equilibrio fra visibilità e offerta. La sezione Festa Mobile, pure pregna di titoli interessanti, ha riunito molti degli spazi collaterali del passato (fuori concorso, omaggi ai maestri), ma è apparsa come un corpo-monstre all’interno del Festival e ha un po’ fagocitato il resto. Il riferimento non è tanto alle retrospettive che, storicamente, costituiscono una piccola “riserva” dai contorni ben delimitati e che il pubblico sa riconoscere e amare facilmente, ma alle sezioni Onde e Figli e amanti. La prima, dedicata al cinema sperimentale, nonostante un programma di altissima qualità è apparsa infatti sacrificata da una programmazione poco penetrante, con orari non sempre agevoli, spesso in contrapposizione ad eventi di larga portata: spiace ad esempio che un gioiello come Un sourir malicieux, di Christelle Lheureux, eccezionale rilettura/ripensamento de Gli uccelli di Sir Alfred Hitchcock sia stato lanciato contro la serata-evento che ha visto il sommo Francis Ford Coppola presentare la versione restaurata di Scarpette rosse. E che in generale la bellissima idea dell’Hitchcock Day non abbia avuto la centralità che meritava. Ed è solo un esempio.

I titoli culto dei registi italiani, protagonisti della sezione Figli e amanti, sono anche apparsi sacrificati, smorzando l’interessante ripensamento di quella che l’anno scorso era (seppur con una formula diversa) una delle proposte più esaltanti del festival.

Comunque la direzione tracciata è quella giusta, meno scanzonata e più ragionata rispetto a una decina d’anni fa, e in cerca di un baricentro che possiamo fiduciosamente sperare verrà trovato nei prossimi anni. Intanto ci portiamo dentro il piacere dell’aggregazione che genera il culto (ad esempio per l’esaltante personale di Nicolas Winding Refn), ma soprattutto della scoperta, con una serie di titoli che troveranno spazio nei prossimi articoli del Nido. C’è tanto buon cinema in giro e appuntamenti come questo servono a ricordarcelo, mentre il mondo “di fuori” dedica troppa attenzione a prodotti che non lo meriterebbero. La cinefilia, in fondo, è militanza e diventa in sé atto critico che porta a far conoscere e amare il cinema: è stato proprio Torino a enunciarlo anni fa (allora il direttore era Stefano Della Casa) e oggi siamo lieti che sia stato ancora Torino a ricordarcelo.

Torino 27 – I film che trovano distribuzione

mercoledì 11 novembre 2009

Torino 2009

Torino 2009

Il video postato questa settimana (e che rimarrà anche la prossima) nello spazio Visioni dalla Rete è stato realizzato in occasione dei giochi olimpici invernali 2006, ma si adatta bene anche al nostro caso, poiché dal 13 al 21 novembre Torino ridiventerà davvero il centro del mondo! Lo sarà per tutti gli appassionati di cinema, ovviamente, e quindi per chi, come noi, ha incentrato i suoi interessi sulla settima arte: una nuova edizione del Torino Film Festival va a cominciare e stavolta le premesse sono oltremodo allettanti!

Finita la grigia e seriosa era morettiana che tanta fortuna commerciale aveva portato, ma che aveva anche rischiato di compromettere l’informalità e quella particolare eterogeneità, anche bulimica, dell’offerta, il festival già sulla carta sembra essersi liberato. A scorrere i titoli del programma-monstre messo insieme dal nuovo direttore Gianni Amelio insieme ai suoi collaboratori, sembra infatti di essere tornati ai tempi in cui il festival era nelle mani di Stefano Della Casa, Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto… quando i disagi erano sicuramente tanti a causa di un parterre di titoli fra i quali la scelta era davvero improba, ma che permetteva allo stesso tempo di immergersi nello spazio amico di registi tanto amati e anche di fare nuove e incredibili scoperte!

E su questo punto Amelio la sua differenza l’ha già marcata, quando ha spiegato che rispetto a Moretti “Sono un po’ più aperto verso quello che non mi piace, non faccio il direttore di Festival come se facessi il regista di un mio film” e ribadendo la necessità di una “generosità dello sguardo” di cui il festival sentiva il bisogno.

Spazio dunque a due formidabili retrospettive dedicate al grande classico del cinema americano Nicholas Ray e al maestro del cinema giapponese Nagisa Oshima. In mezzo piccoli omaggi ad autori come Kusturica e al Sommo Francis Ford Coppola, ma anche al talento emergente dell’ottimo Nicholas Winding Refn. E poi il concorso lungometraggi dal quale si spera arrivino le novità, mentre la sezione La Zona viene ribattezzata “Onde”, ma ha sempre in Massimo Causo l’uomo guida per la scoperta delle tendenze del cinema sperimentale: da qui arrivano proposte ghiottissime come i Ga-nime, ovvero la nuova “invenzione” della Toei Animation sul formato del cortometraggio, e l’Hitchcock Day!

Appuntamento sotto la Mole insomma, con un rinnovato entusiasmo che speriamo trovi il suo naturale appagamento nella visione!

Il sito del Torino Film Festival

Collegati:
Torino 2008
Torino Film Festival: The Day After

martedì 10 novembre 2009

L’uomo che fissa le capre

L’uomo che fissa le capre

Il giornalista Bob Wilton decide di andare in Iraq dopo essere stato mollato dalla moglie e in questo modo conosce Lyn Cassidy, ultimo esponente dell’ormai smobilitato Esercito Nuova Terra, formato da soldati addestrati all’uso dei poteri psichici, con cui cambiare il corso degli eventi bellici in modo non violento. Ora Cassidy sta tentando di ritrovare Bill Django, fondatore dell’innovativo corpo speciale dell’esercito, e Bob, curioso rispetto agli eventi, lo accompagna, ritrovandosi così coinvolto in una girandola di situazioni surreali.

“Ora più che mai c’è bisogno dei Jedi!”. La frase ha un effetto immediato per come riesce a contestualizzare la doppia direttrice su cui si muove il film, ovvero quella più squisitamente cinefila, ma anche quella che permette alla forza (la Forza) benefica del cinema di affondare nei malesseri di una realtà che ha bisogno di punti di riferimento. Facile dunque vedere L’uomo che fissa le capre come una sorta di moderna rivisitazione della cifra grottesca che aveva reso grande un M.A.S.H. e che dunque punta all’irrisione della guerra attraverso la messa in evidenza della sua assurdità: materiale in questo senso non manca, con in testa i militari americani che si sparano addosso l’un l’altro poiché convinti di essere sotto attacco nemico!

D’altronde se davanti e dietro la macchina da presa c’è un autentico liberal come George Clooney (attore e produttore insieme al socio Grant Heslov, che qui debutta come regista) il sospetto di una voglia di rinnovare il cinema di genere più impegnato è ben legittima: ma soprattutto è importante tenere presente la figura dell’attore americano per permettere alla materia di scivolare dentro e fuori i riferimenti più problematici, dando al tutto una natura ondivaga che ne impedisca il facile imbrigliamento in schemi poco opportuni. Se, infatti, Clooney è anche un corpo coeniano, tanto da rimandare alla bizzarria dei registi di Fratello dove sei?, il film rifugge fortunatamente quel macchiettismo spesso autoreferenziale dei due autori citati, per non perdere mai di vista una dimensione morale che riconduce sempre tutto alla Storia e alla società dell’America (tema, questo sì, squisitamente ascrivibile a tanto cinema di Clooney regista, produttore e interprete).

Pertanto, il viaggio di Bob e Lyn è anche un viaggio nell’evoluzione di un modo di guardare il mondo che dal pacifismo dei Settanta è infine giunto all’aberrazione della dottrina guerrafondaia di George Bush: l’esercito Nuova Terra, dunque, diventa non soltanto un tentativo di ridere della guerra per mostrarne la fragilità concettuale, ma anche, e soprattutto, l’espressione di una volontà coraggiosa che intende fondare una nuova mitologia del soldato, refrattario alla violenza e disposto a operare per il Bene comune. Ciò che dunque il film ci racconta è il tentativo, post Vietnam, realmente portato avanti dall’America (una parte almeno...), di reinventarsi come forza non belligerante ma intenta a cercare nuove strade, salvo poi ripiombare improvvisamente (e senza l’alibi del terrorismo, che nel film è pressoché assente) nella follia della violenza. Perché l’unica autentica rivoluzione che il pacifismo può ancora combattere è unicamente quella culturale: il parallelo con i Jedi è dunque fondante se consideriamo che l’ordine guerriero lucasiano è formato da Custodi della Pace e non da soldati. Il conflitto fra il Lato Chiaro e quello Oscuro è pertanto quello sul confine che porta la difesa della Pace a diventare strumento di guerra e la persuasione psichica votata alla non violenza a mutare in arma assassina che uccide le creature inermi.

Il tutto trova la sua forma attraverso una classica dicotomia fra due personaggi stralunati che incarnano una gioiosa follia, ma anche una curiosità comune per eventi straordinari in grado di ridefinire il rapporto con la speranza: il film, in questo senso, non scioglie l’ambiguità circa la possibile veridicità dell’esercito Nuova Terra fino all’ultima inquadratura, lasciando alla narrazione il compito di affastellare eventi attraverso una serie di flashback che rivelano la storia del corpo speciale. La figura iconica del sempre grandissimo Jeff Bridges unisce così la tensione spirituale dello Starman carpenteriano con l’ironia lisergica del Grande Lebowski, mentre la presenza di Ewan McGregor costituisce il tramite ideale con la saga di Star Wars. Tutti segni cinefili indispensabili per tracciare il percorso lungo cui muovere la storia.

La natura ondivaga del progetto permette quindi alla vicenda narrata di unire insieme una grande forza d’animo, capace di veicolare un messaggio costruttivo, ma anche una forte dose di malinconia per le speranze deluse che hanno lasciato il campo a un nichilismo più disperato. Il percorso, in fondo, è davvero quello di un Jedi che deve combattere la sua battaglia, ignorando la paura e perseguendo il proprio obiettivo. In questo senso L’uomo che fissa le capre è un film che merita di essere amato e seguito, come un monito, ma anche come un raro barlume di speranza in un’epoca che sembra aver perso il senso delle cose e ha persino deprivato i vecchi feticci di ogni carica ancestrale. E’ dunque un film che rimette in circolo idee, ricordi, emozioni e, naturalmente, tanto cinema! Sta a noi portarlo meritatamente in trionfo.

L’uomo che fissa le capre
(The Man Who Stare at Goats)
Regia: Grant Heslow
Sceneggiatura: Peter Straughan, dal romanzo "Capre di guerra", di Jon Ronson
Origine: Usa, 2009
Durata: 93’

Grant Heslov, George Clooney e Ewan McGregor sul film
Sito ufficiale americano
Sito in italiano

mercoledì 4 novembre 2009

The Human Centipede (First Sequence)

The Human Centipede (First Sequence)
 
Due ragazze americane, Lindsey e Jenny, sono in vacanza in Germania dove restano in panne con l’auto. In cerca di soccorso, si ritrovano nella casa dell’austero Dr. Heiter, che, alla prima occasione, le immobilizza per farne le cavie del suo nuovo esperimento. L’uomo, infatti, è un chirurgo specializzato nella separazione dei gemelli siamesi, ma ora intende dare seguito a una nuova creatura che unisca invece di dividere. Dopo aver catturato anche un giovane ragazzo giapponese, Heiter dà quindi il via all’operazione per creare un “millepiedi umano”, attraverso l’unione chirurgica dei corpi lungo la direttrice bocca-orifizio anale.

La visione di Human Centipede, meritato vincitore del Ravenna Nightmare Film Fest 2009, arriva come ultimo atto di un processo preparatorio che aveva visto il film assurgere preventivamente all’olimpo del culto. Atteso e invocato per la bizzarria estrema della sua idea, il film spunta come un corpo apparentemente anomalo nel curriculum del regista Tom Six, proveniente dalla televisione e già director dell’originale Grande Fratello olandese. Non si potrebbe pensare, dunque, a una persona più integrata con il sistema audiovisivo mainstream di questo folle mitteleuropeo che invece stupisce tutti dando fondo alla sua insospettabile passione per il cinema di Takashi Miike, mettendo in scena un’idea nata dichiaratamente come scherzo durante una discussione tra amici.

Questo aspetto istantaneo si riverbera inevitabilmente in una storia che, sul versante narrativo, si esaurisce unicamente nella messinscena dell’idea, secondo una dinamica che in altre mani aveva in passato prodotto risultati modesti (basti pensare all’Eli Roth del primo Hostel), ma che qui si rivela straordinariamente funzionale agli intenti. Il film, infatti, si concentra sul dolore dei malcapitati protagonisti, costretti a subire l’umiliante tortura dell’operazione ideata dal folle dr. Heiter: lo scienziato domina al contempo la scena attraverso la felice caratterizzazione fornita dall’attore Dieter Laser, sorta di moderno epigono spettrale del Caligari di Conrad Veidt, ibridato con il gigionismo del Christopher Walken più cattivo. D’altronde che il film riverberi la sua sostanza cinefila è indubbio, anche se poi cerca un approdo nel reale, sia attraverso una (forse anche pretestuosa considerando che l’operazione avviene in fuori campo) “accuratezza chirurgica”, sia attraverso un discorso più complesso sul tema dell’incomunicabilità.

Ecco, l’aspetto più interessante del film non sta soltanto nella natura scioccante di una storia che indugia in una perversione di rara forza emotiva, ma nel modo in cui la stessa si eleva a livello metaforico, riuscendo nel contempo anche a diventare filtro di storie già raccontate: ci sono echi di Frankenstein, dell’espressionismo tedesco e, per l’appunto, del body horror giapponese (oltre a quello cronenberghiano), che rimandano inevitabilmente agli orrori del nazismo, agli esperimenti di Mengele e, in generale, a tutto il sottofilone della provincia che diventa nido di insospettabili orrori.

Il collante fra questi aspetti tra loro apparentemente difformi sta tutto nella metafora dell’incomunicabilità che il film riverbera sin dal principio attraverso la compresenza di personaggi provenienti da differenti realtà (America, Germania, Giappone). Già quando le ragazze restano in panne le vediamo subire le molestie di un passante senza che loro inizialmente ne capiscano le intenzioni perché distratte da una lingua che non comprendono. Allo stesso tempo l’unico dei tre malcapitati che non vede la sua bocca unita chirurgicamente alle terga del compagno è il ragazzo giapponese, che si ritrova in testa e che però non parla la stessa lingua di Heiter. E anche quando la sua confessione finale lo porterà a invocare il perdono per le sue colpe, la sua resterà una considerazione non compresa, destinata a perdersi. 

Il film dà quindi forma a una cacofonia di suoni con i lamenti di dolore delle vittime che divengono autentico leit-motiv sonoro della storia, in opposizione alle risate mefistofeliche dello scienziato e questa contrapposizione fra l’insostenibilità della tortura e la cifra assolutamente grottesca dell’esperimento permette al film di viaggiare sul doppio binario del drammatico e del comico. Non a caso lo stesso Six ha rivelato a Ravenna che il film suscita reazioni opposte a seconda del tipo di pubblico cui viene mostrato, è divertente per alcuni e rappresenta un autentico pugno nello stomaco per altri (fra i quali il sottoscritto).

Ad ogni modo l’unione fisica fra i protagonisti diventa metaforico contrappasso all’incomunicabilità del loro status di stranieri in terra straniera e, ovviamente, di personaggi egoisti che subiscono per questo la loro simbolica punizione. La surrettizia unione corporale diventa quindi l’unico modo possibile per una comunicazione che ormai, smarrito ogni precetto morale, è diventata esclusivamente fisica, con le feci che si volgono a nutrimento in una sorta di assurda rivisitazione della teoria dei vasi comunicanti. Un unico apparato digerente distribuito su tre corpi, dunque, che dice molto su come il corpo sia ancora il campo di battaglia prediletto dall’horror dopo i fasti splatter degli anni Ottanta. In ogni caso, di splatter qui ce n’è poco, Six preferisce suggerire più che mostrare, ma l’esito è ugualmente scioccante. D’altra parte è molto interessante anche la possibilità di spostare il precipitato teorico inquadrando anche l’unione dei corpi come critica all’autofagia di un genere che si nutre sempre di se stesso. 

Del film è anche in lavorazione un seguito che dovrebbe portare alla creazione di un millepiedi “completo” (Full Sequence) e che promette di essere molto più esplicito sul piano della violenza.

The Human Centipede (First Sequence)
Regia e Sceneggiatura: Tom Six
Origine: Olanda/Uk, 2009
Durata: 90’

mercoledì 28 ottobre 2009

Ravenna 2009

Ravenna 2009

E’ iniziata invece martedì, 27 ottobre, la settima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, che centra ancora una volta l’appuntamento di Halloween (si concluderà infatti proprio il 31 ottobre) per regalare un prezioso spaccato dell’horror cinematografico contemporaneo. Certo, a fronte dell’interesse che circonda il genere e che gli fa guadagnare persino ampi spazi sui maggiori quotidiani, va registrato quest’anno la contrazione più forte che l’offerta del festival abbia mai ricevuto: il programma, infatti, si incentra esclusivamente sul concorso lungometraggi e nei primi giorni l’appuntamento con le proiezioni è riservato unicamente alla sera, salvo poi esplodere nell'abbuffata del weekend (con ben 9 titoli su 13 totali). Niente cortometraggi e retrospettive, che pure erano fra gli spazi più gustosi del festival e questo spiace parecchio.

A tentare un coraggioso controbilanciamento c’è il fatto che tutti i film presentati sono in prima visione nazionale e fra i nomi coinvolti c’è persino Catherine Breillat con il suo Barbe Bleue. Ma sulla carta sembrano molto interessanti anche l’olandese The Human Centipede, di Tom Six e, sebbene si presti a molte critiche preventive per l’ardore di tentare una prosecuzione a un titolo che doveva restare unico, sicuramente suscita curiosità anche il Descent 2 di Jon Harris, seguito dell’ottimo capostipite di Neil Marshall. Peccato non aver recuperato a questo punto anche l’altro attesissimo sequel, ovvero il REC 2 della coppia Balaguerò/Plaza, nonostante il passaggio veneziano.

Speriamo insomma che valga la regola del “pochi ma buoni”, di sicuro l’appuntamento resta uno dei più interessanti, a fronte anche del numero sempre più ristretto di festival dedicati all’horror in Italia (quest’anno siamo rimasti orfani anche del PesarHorrorFest) e quindi merita di continuare a essere seguito con affetto e costanza.

Sito del Ravenna Nightmare Film Fest

Collegato:
Ravenna 2008

Lucca 2009

Lucca 2009

Inizia domani, 29 ottobre, l’edizione 2009 di Lucca Comics and Games, fiera del fumetto e dell’animazione: un anno fa la cittadina toscana teatro dell’evento fu letteralmente invasa da un impressionante afflusso di visitatori, creando non pochi problemi di vivibilità. Nel maggio del 2009 una cosa del genere si è ripetuta anche al Napoli Comicon. Il che, da un lato, è un segno evidente di come, a fronte della crisi che colpisce in modo progressivo e inesorabile il settore del cartaceo, appuntamenti come quello di Lucca siano sempre circondati da interesse e dalla forte sensazione che il pubblico ha di uno spazio ormai percepito come parte integrante della propria passione. Un evento che dunque si lega all’immaginario codificato dal fumetto e dall’animazione ma a sua volta se ne distanzia, come fatto autonomo e vivibile di per sé, come unicum destinato a chi presenzia sul posto.

Dall’altro lato, però, questo congestione rappresenta un problema che ormai si palesa e non va sottovalutato, a fronte di una città comunque troppo piccola e mal collegata per contenere un evento diventato ormai il principale in Italia per chi segue fumetto e animazione. Ci sono margini per migliorare la gestione di un appuntamento la cui portata non sembra essere ancora stata compresa da chi lo porta avanti?

In attesa che i fatti diano una risposta, l’edizione 2009 offre fra le tante, la presenza di due ospiti di altissimo rilievo come il grande disegnatore spagnolo Luis Royo (presso lo stand Rizzoli Lizard) e l’illustratrice giapponese Akemi Takada, character designer per serie animate come L’incantevole Creamy, Orange Road e Lamù (presso lo stand Yamato Video). E ancora Vittorio Giardino, i 40 anni di Alan Ford (e i 50 di carriera di Max Bunker), le mostre dedicate, fra gli altri, al gruppo giapponese delle CLAMP e all’illustratore fantasy Donato Granicola e l’evento su Ken il guerriero con la replica italiana del funerale di Raoul, pensato per il lancio del film La leggenda di Raoul, sequel de la Leggenda di Hokuto.

In chiusura segnalo i due esclusivi poster realizzati dagli artisti Rick Berry e Phil Hale, che tornano a lavorare insieme dieci anni dopo e che saranno anche fra gli ospiti della manifestazione. Uno lo potete vedere in questa pagina, per il secondo rimando al sito ufficiale della fiera con il calendario degli eventi.

Sito di Lucca Comics and Games

Collegato:
Lucca 2008

lunedì 26 ottobre 2009

L’invincibile Dendoh

L’invincibile Dendoh
 
La Terra, attaccata dall’impero meccanico dei Gulfer, è protetta dall’organizzazione Gear. Ad affrontare le bestie nemiche è Dendoh, un robot che sceglie come suoi piloti due ragazzini, Hokuto Kusanagi e Ginga Izumo. Il loro compito, oltre ad affrontare le varie battaglie, è anche quello di impadronirsi delle Armi Elettroniche, in grado di diventare le armi di Dendoh. Ben presto la battaglia apre inedite rivelazioni su Vega, vicecomandante della Gear, dietro la cui maschera si nasconde la madre di Hokuto. Non è tutto: la donna è infatti una delle poche superstiti del pianeta Alktos, assoggettato da Gulfer. Dallo stesso mondo proviene anche Arthea, fratello di Vega che l’impero meccanico ha condizionato spingendolo ad affrontare Dendoh con il robot gemello Ogre. I legami affettivi e il rapporto fra la Terra, Gulfer e Alktos diventeranno la posta in gioco e il segreto da comprendere per sconfiggere i nemici.

 
La fissità dei canoni che regolano il genere robotico nell’animazione giapponese sembra permettere una scarsa permeabilità del filone a influenze esterne, ma nell’ultimo decennio stiamo assistendo a interessanti tentativi di ibridazione tra format e storie tra loro differenti. Se ad esempio il remake di Gaiking mostra alcuni riferimenti precisi al clamoroso successo di Dragon Ball, una serie come L’invincibile Dendoh tenta di far proprio il tema delle creature digitali derivate dal filone portato al successo da serie come Pokémon o Digimon.
 
Tale scelta ha provocato alcuni snobismi nei confronti di quest’ottimo prodotto targato Sunrise, ma a una visione priva di pregiudizi il risultato si rivela convincente e geniale per come riesce a governare un elemento apparentemente fuori contesto senza snaturare eccessivamente il genere principale che, anzi, risulta guadagnarne e mostrare così evidenti segni di progressione. La fusione di elementi tra loro difformi avviene nel segno della coesistenza di opposti già rintracciabile nei caratteri dei due protagonisti: Hokuto Kusanagi, calmo e riflessivo, capace di ponderare ogni scelta anche con la giusta dose di freddezza e una maturità che farebbe invidia a ogni coetaneo (ma anche a molti adulti) appare infatti totalmente diverso dall’amico Ginga Izumo, passionale, istintivo e che non a caso dimostra una spiccata predilezione per le arti marziali. Mente e braccio, intelligenza e forza, insomma, per due eroi scelti dal destino e che devono, inevitabilmente imparare a convivere alla guida del robot.
 
Questo canone, peraltro, non è distante dai molti che abbiamo visto negli anni dare forma ai vari piloti dei giganti meccanici dell’animazione giapponese. Imparare a governare una macchina di tali dimensioni per affrontare una dura battaglia è infatti un chiaro racconto di formazione: la lotta è soprattutto contro le proprie debolezze e riecheggia quella molto più concreta che ogni giovane spettatore deve imparare quotidianamente ad affrontare contro le avversità, ma qui si lega a un concetto più ampio che investe direttamente i rapporti affettivi, in particolare l’amicizia, la fratellanza, ma anche il legame fra l’uomo e la natura e, ovviamente, l’amore.
 
Il rapporto che pertanto i due protagonisti stabiliscono con le Armi Elettroniche è di tipo squisitamente empatico, con le bestie virtuali che “cercano” determinate caratteristiche nel cuore dei loro padroni. Si crea pertanto un ponte fra l’idea del legame storicamente codificato fra l’uomo e il robot (con il pilota che “sente” sulla sua pelle i danni inferti al gigante meccanico) e l’empatia fra personaggi e mostri digitali alla base di serie come Pokémon e Digimon. In un certo senso, Dendoh diventa quindi tanto una evoluzione del filone robotico, quanto di quello dei mostri virtuali, ed entrambi i generi si ritrovano sul campo, affiancati nella battaglia.
 
Il resto lo fa una struttura da soap-opera che rimanda ovviamente ai fasti di Gundam, su cui peraltro lavoreranno successivamente i due creatori, ovvero il regista Mitsuo Fukuda e sua moglie, la sceneggiatrice Chiaki Morosawa (con Gundam Seed). Proprio alla saga del Mobile Suit si rifà poi l’uso espressivo dello split-screen, con le inquadrature a “finestra” che si aprono rivelando i piloti durante le scene di battaglia. Scelta espressiva pertinente, poiché riflette la volontà di “aprire” letteralmente un varco nella fissità dei canoni codificati dal genere robotico nella sua accezione più classica, ovvero quella creata da Go Nagai, cui rimanda la storia dei fratelli di Alktos, chiaro riferimento a Ufo Robot Goldrake.
 
In virtù della già evidenziata coesione affettiva fra i personaggi, la Gear finisce quindi per assumere non soltanto il ruolo di base operativa, ma anche quello di famiglia allargata dove si creano legami, sbocciano coppie (ad esempio fra il pilota Kirakuni e l’analista di dati Aiko), nascono nuove amicizie e si rivelano inaspettati segreti che arrivano a coinvolgere fin dentro l’alveo della famiglia reale. Ciò permette ai personaggi di riscattare l’apparente semplicità della storia e di essere sfaccettati e in grado di generare grande coinvolgimento: si resta pertanto catturati dal tormentato destino di Arthea, dal fascino e dal coraggio di Vega, dal triste destino di Subaru e dalla buffa caratterizzazione dei Gulfer pasticcioni Absolute, Gourmei e Witter. Le loro azioni sono calate in un contesto sicuramente scientificamente disinvolto, ma che guarda comunque alla realtà del pubblico contemporaneo, ai problemi e alle passioni dei più giovani (la scuola, Internet, gli idoli musicali), senza eccessiva furbizia.
 
Su tutto poi domina l’azione: incalzante, barocca, in un crescendo narrativo irresistibile che si giova della riconoscibilità iconica dei momenti topici (l’installazione dell’Arma Elettronica, l’Attacco Finale) e reitera gli stessi con convinzione, intercalando molto bene il tutto allo svolgimento della narrazione. Alla fine il risultato è estremamente spettacolare e offre un enorme divertimento con le battaglie, le tecniche e i comandi nuovamente urlati a squarciagola, lasciandoci con la convinzione che una storia semplice e memore del passato è riuscita a rinnovare i furori di un genere aggiornandoli al presente. Una serie molto sottovalutata e assolutamente da recuperare.

 
L’invincibile Dendoh
(Gear Senshi Dendoh/Gear Fighter Dendoh)
Regia generale: Mitsuo Fukuda
Sceneggiatura generale: Chiaki Morosawa
Origine: Giappone, 2000
Durata: 38 episodi