Solo Dio perdona
Julian è americano,
ma è fuggito dal suo paese dopo aver commesso un crimine e si è
rifatto una vita a Bangkok, dove si dedica allo spaccio di droga, sfruttando come copertura un club di boxe che gestisce con il
fratello maggiore Billy. Questi, però, un giorno uccide una
prostituta e viene a sua volta eliminato dal suo protettore. La madre
dei due fratelli, Jenna, giunge così in Thailandia per recuperare il
corpo del primogenito e per assicurarsi che il suo assassinio sia
vendicato. Julian però non vuole e non può portare avanti quella
vendetta, tante sono le emozioni che lo agitano e che lo costringono
a fare i conti con il proprio codice etico e con i tormenti che
affondano nella sua storia personale.
Non ce ne eravamo
accorti, ma probabilmente il western italiano ha rappresentato
davvero quel momento di liberazione dei codici espressivi, quella
nouvelle vague “dal basso”, all'insegna della
sperimentazione e del lavoro sui codici espressivi che ricordava
Marco Giusti ai
tempi della retrospettiva di Venezia 2007. Non si spiegherebbe
altrimenti come mai, nella stessa stagione, sia Quentin Tarantino con
il “suo” Django,
che Nicolas Winding Refn si rifacciano nominalmente al genere dei
pistoleri d'Almeria. Certo, nel caso di Solo Dio perdona la
citazione è quasi tutta concentrata nel titolo, in ossequio alla
libertà espressiva di cui sopra, per cui il western è più un luogo
dell'anima, un coacervo espressivo che trova la sua compiutezza solo
allontanandosi dagli elementi più appariscenti del genere. Per il
resto siamo infatti totalmente addentro all'universo tematico e al
percorso espressivo che il regista danese ha già intrapreso da
tempo, attraverso le opere della sua filmografia più recente.
Da questo versante, Solo
Dio perdona è un esempio purissimo di cinema portato avanti con
coerenza e in barba alle mode: troppo facile, infatti, chiedere un
altro Drive
a un regista che, pur nella natura apparentemente “chiusa” e
concentrazionaria dei propri stilemi è per il resto assolutamente
apolide e trasversale rispetto alle possibili influenze. Così, dopo
il Nord Europa vichingo di Valhalla Rising, l'Inghilterra di
Bronson e l'america del sopracitato Drive, stavolta il
territorio in cui collocare il proprio idealissimo western è la
Thailandia, set reinventato e traslato in una ipotetica terra di
nessuno in cui finiscono per confluire combattimenti clandestini di
Muay Thai, poliziotti samurai inflessibili e spietati, pulsioni
edipiche e vendette incrociate.
Refn costruisce il suo
arazzo affondando tutta la storia in un tono ieratico e solenne che
trasporta ogni gesto direttamente nei territori del mito (e in questo
si vede la sua particolare assimilazione del western nostrano), ma
allo stesso tempo crea un tessuto narrativo che è totalmente
onirico: utilizza giustapposizioni di montaggio che danno forma a
impossibili dinamiche di campo/controcampo, innesta inserti visionari
in cui i protagonisti sembrano predire il loro futuro e sfrutta
consapevolmente una vicenda ridotta ai minimi termini, lasciando
spazio al sangue e a una violenza che ha un sapore rituale e per
questo necessario. Un tempo lo si sarebbe definito un cinema
“monade”, ridotto, per l'appunto, ai propri elementi essenziali,
in cui si rispecchia l'intero universo osservato: un cinema dunque
che è puro piacere della visione, ma anche un'autentica danza di
ombre.
Non a caso, le dinamiche
in campo sono affidate più al gioco dei corpi attoriali, che ai
dialoghi e alle svolte narrative vere e proprie: in un cinema così
assolutamente “assorto”, il ruolo del protagonista è affidato a
un Ryan Gosling la cui ricercata monoespressività gli permette di
essere terreno di coltura per pulsioni fra loro contraddittorie e ben
incarnate dal rimpallo fra i due principali antagonisti. Da un lato
la madre, una strepitosa Kristin Scott Thomas, l'unico corpo inquieto
del film, capace di essere realmente se stessa, di portare sul set
tutto il suo bagaglio di consumata interprete della scuola
britannica, istintiva, nervosa, creatura di carne anche passionale,
grazie all'evidente contraddizione fra il suo personaggio e il canone
codificato dalle sue precedenti (e consuete) interpretazioni, che ce
l'avevano sempre consegnata come figura eterea e un po' snob. Sembra
in questo caso che Refn si sia ricordato dell'irrequietezza espressa
dall'attrice già ai tempi dello splendido Luna di fiele (e
certamente solo lui poteva usare la Thomas per creare un ponte con
Polasnski).
L'altro vertice del
triangolo è invece il padre, assente nei fatti, ma qui incarnato
dalla figura vicaria dello strepitoso Vithaya Pansringarm, giudice e
ideale Dio chiamato in causa dal titolo, l'autentico “cattivo”
della vicenda, l'ostacolo da battere ma anche l'ideale da raggiungere
nella traslazione finale che guarda direttamente al lirismo
sacrificale di Valhalla Rising. Non a caso Pansringarm sembra
riecheggiare proprio il sublime dualismo del One Eye di Mads
Mikkelsen per come unisce una sostanziale indeterminatezza fisica
(tanto da permettersi anche estemporanee sessioni di canto al
karaoke) con una potenza distruttiva che non conosce eguali e che
riecheggia la preferenza dell'autore per le dinamiche dell'Antico
Testamento, chiamate direttamente in causa quando il poliziotto
“punisce” il faccendiere Byron, reo di non voler vedere né
sentire, infierendo sulle sue orecchie e sugli occhi.
E' un triangolo che,
peraltro, sostiene un'impalcatura parimenti ondivaga, dove l'universo
narrativo è totalmente coniugato al maschile, con figure unificate
da legami filiali o parentali, dove le donne non possono far altro
che “chiudere gli occhi” mentre gli uomini portano avanti i loro
reciproci interessi distruttivi o vendicativi, o consumano tensioni e
rivalità che affondano nei traumi del passato. Ma, allo stesso
tempo, è una sorta di mondo che protende al femminile, per i
desideri che sottende, le pulsioni di latente incestuosità e i
legami affettivi che tenta di costruire, ma che si concretizzano più
che altro in una sorta di voyeurismo impotente, come dimostra la
visione della prostituta che si masturba davanti a un Julian al
contempo affascinato e turbato dal gesto.
Un cinema, dunque,
apparentemente calmo in superficie, ma agitato nel profondo e che per
questo riesce a creare la sintesi fra le proprie pulsioni autoriali e
le derive da tanto cinema di genere del passato: all'interno possiamo
infatti ritrovarci, oltre al western nostrano, certe suggestioni dai
b-movie action degli anni Ottanta (in particolare alcune cose della
Cannon o di registi come Mark L. Lester) e le epiche del chanbara
eiga, il tutto riletto in una chiave visiva vicina a certe
solennità kubrickiane (il direttore della fotografia Larry Smith,
non a caso, è lo stesso di Eyes Wide Shut) o del David Lynch
di Twin Peaks. L'operazione, in senso lato, non è dissimile
da quella attuata da Rob Zombie con il suo magnifico Le
streghe di Salem: entrambi sono film che partono da generi
molto precisi per poi guardare oltre. Entrambi sono film
vergini e radicali.
Solo Dio perdona
(Only God Forgives)
Regia e sceneggiatura:
Nicolas Winding Refn
Fotografia: Larry
Smith
Musiche: Cliff
Martinez
Montaggio: Matthew
Newman
Origine:
Francia/Danimarca/Thailandia/Usa/Svezia, 2013
Durata: 90'
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4 commenti:
Ottima rece, direi che hai colto nel segno quando hai detto che questo film è calmo solo sulla superficie, è la stessa sensazione che ho provato io, perchè quei lunghi momenti di silenzio e dove praticamente non accade nulla sono TUTTI preamboli di quiete prima della tempesta.
Sebbene forse mi aspettavo qualcosina di più (il Refn best of per me resta Drive) trovo cmq che Solo Dio perdona sia un film visivamente straordinario e che svela ad ogni inquadratura il talento di questo grande regista
Recensione ricca di sfaccettature, il collegamento con il film di Rob Zombie era venuto pure a me ma ho evitato di inserirlo nella mia rece, onde evitare di gettare benzina sul fuoco: il film di Refn è stato accolto malissimo, quasi ai livelli del film di Zombie.
Ed è proprio quello infatti il motivo per cui io il collegamento l'ho voluto fare assolutamente :-)
Sono entrambi dei grandissimi film ;)
In realtà ragazzi questo di Refn è stato "accolto" molto peggio di quello di Rob, quello di Rob ha si spaccato in due il pubblico, ma vanta numerossissimi estimatori, che forse,sono, seppur di poco superiori ai detrattori.
Questo di Refn, sia nei blog, siti italiani, siti stranieri, insomma un po ovunque è stato DISTRUTTO, mi sa che noi e forse qualche altro blogger ne ha parlato bene.
Ad ogni modo buttatecela la benzina sul fuoco, è questo il bello XD, se il pubblico non apprezza due film come questi (che IMHO non sono stupendi ,ma cmq sono molto interessanti e visivamente ottimi) il pubblico si merita tutta la cacca di Twilight e dei cinepanettoni ;-)
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