Wolf Creek
1999. Ben Mitchell
parte con due amiche inglesi, Liz Hunter e Christy Earl, da Broome,
nell'Ovest dell'Australia, per una vacanza nell'Outback, fino al
cratere di Wolfe Creek. Il viaggio rappresenta per il ragazzo anche
l'occasione per cementare la storia d'amore che sta nascendo con la
stessa Liz. I tre trascorrono momenti molto divertenti, interrotti
soltanto da un breve alterco con alcuni uomini in un bar, e arrivano
infine a destinazione. Giunto il tempo di ripartire, però, l'auto
non si accende più, costringendo i ragazzi a trascorrere la nottata
nel mezzo del nulla. In loro soccorso, comunque, interviene Mick
Taylor, un classico uomo della provincia australiana, che li porta
alla sua officina per riparare il guasto. Tutto sembra andare per il
meglio, ma ben presto i tre scoprono a loro spese che Mick è un
manico omicida e che ha intenzione di torturarli e ucciderli...
La fase moderna
dell'Ozploitation inizia nel 2005 con questo celebrato horror di Greg
McLean, ex pittore con esperienze nella regia teatrale al fianco di
gente come Baz Luhrmann: un background importante per capire la forte
impronta visiva impressa a una vicenda che, altrimenti, sembrerebbe
un tardo epigono dei survival movie americani stile Non
aprite quella porta e che ha riscosso un tale consenso da
infondere nuova linfa alla produzione di cinema di genere
australiano, rompendo la stasi in cui lo stesso era precipitato alla
fine degli anni Ottanta.
Effettivamente, nel suo
porsi come nuovo apripista, Wolf Creek rappresenta un
compendio di suggestioni Ozploitation, rilette attraverso uno sguardo
che possiamo anche definire critico: sostanzialmente, infatti, si
tratta di un racconto (re)iniziatico, attraverso il quale due ragazze
provenienti dalla madrepatria inglese e un ragazzo di Sidney
percorrono un cammino a ritroso verso le origini di quella lontana
terra, riverberando il rapporto problematico fra la parte
“occidentalizzata” dell'Australia e l'Outback. Il tutto è
filtrato da una prospettiva che è puramente cinematografica e che,
in più occasioni, chiama in causa la rappresentazione, sia essa
pittorica o filmica. La cifra estetizzante impressa al film da McLean
e dal suo operatore (l'eccellente Will Gibson), ribadisce così la
particolarità di un paesaggio che è alieno, onirico, e che poggia
su stereotipi sedimentati dalla cultura pop, destinati a trovare
incarnazione nella figura di Mick Taylor.
Il personaggio, infatti,
è il classico “Ocker” alla Barry McKenzie o, più propriamente, alla Mr.
Crocodile Dundee: film,
quest'ultimo, che gli stessi ragazzi chiamano direttamente in causa
quando si riferiscono a quel campagnolo rozzo e apparentemente
sempliciotto. E Taylor non si fa pregare quando, rivelando la sua
natura brutale, ripete puntualmente la gag del coltello resa celebre
da Paul Hogan. È un segnale forte, attraverso il quale McLean
rovescia lo stereotipo ridanciano dell'Ocker in una figura negativa.
Non lo fa soltanto per ribaltare le certezze e cogliere così di
sorpresa lo spettatore: al contrario, è come se ribadisse che al di
là degli stereotipi c'è una realtà (una terra) che questi
personaggi vivono senza comprenderne l'essenza più autentica. Il
percorso iniziatico dei ragazzi, insomma, è di tipo traumatico e non
può che sfociare nella distruzione totale, pervasa da un nichilismo
tale da richiedere una messinscena documentaristica nelle scene più
feroci (il film è girato in formato HDCAM). Le cronache dell'epoca,
non a caso, riferiscono di critici infuriati per l'intensità delle
scene e di autentici svenimenti in sala durante la proiezione al
Festival di Cannes: il che ribadisce il doppio passo di uno stile
visivo capace di essere sì espressionista nel senso più suggestivo
del termine, ma allo stesso tempo anche brutale e realistico.
McLean, dunque, paga
pegno a una tradizione e all'immaginario che da essa si è generato,
chiama in causa le strade nel nulla di Roadgames
e certi scorci mozzafiato alla Long Weekend, ma evita le
genuflessioni cinefile da “bravo apprendista”, opponendo anzi
all'industria del passato una formula indipendente e una crew
di giovani collaboratori. Conseguentemente, alla spregiudicatezza
narrativa dei classici e alla loro inventiva sfrenata, il regista
preferisce una linearità narrativa di tipo americano, con tanto di
vaghe ispirazioni da fatti reali (i casi di cronaca dei Backpacker
Murders e di Bradley John Murdoch, per cui si rimanda ai link in
calce): in questo modo Wolf Creek riesce a creare una perfetta
sovrapposizione fra l'Ozploitation e il New Horror anni Settanta,
ribadendo sia la sua caratura di “nuovo inizio”, sia il fatto che
il rapporto di conflittualità con il proprio entroterra sia radicato
nelle culture anglosassoni e assuma pertanto caratteristiche più
ampie del singolo fatto narrato.
Non a caso,
nell'illustrare le imprese di Mick Taylor, il film accenna a forze
più grandi, chiama addirittura in causa gli Ufo e i meteoriti caduti
dallo spazio che hanno formato il cratere di Wolfe Creek (lo scarto
fra il vero nome del luogo e il titolo del film è misurato soltanto
da quella singola “e”). Nel finale, poi, l'uomo letteralmente
“scompare”, fondendosi con quel paesaggio di cui è una diretta
germinazione. In effetti, se inquadrato con attenzione, Mick Taylor è
una figura fantasmatica, priva di segni identitari propri: la sua
potente fisicità è spesso annullata nella silhouette in penombra,
che lo porta a comparire dal nulla, non ha una storia alle spalle che
non sia riconducibile ai tipici tratti caratteriali del cattivo
cinematografico (si fa riferimento a un'esperienza da soldato in
Vietnam, dove pare abbia imparato a torturare la gente) e i filmati
delle videocamere confiscate alle sue vittime lo vedono recitare
sempre le stesse battute come stesse, per l'appunto, ripetendo un
copione.
Una figura dalla natura
“teorica”, insomma, che perde il controllo quando si attenta
all'integrità del suo veicolo come un bullie di Mad Max;
ma soprattutto un'icona che da sola vuole esprimere il rapporto
dialettico fra l'opera di McLean e il cinema australiano del passato.
A interpretarlo, infatti, c'è il veterano John Jarratt, che
trent'anni prima aveva recitato in Picnic a Hanging Rock, film
seminale nella definizione di quel rapporto conflittuale fra il
cinema d'autore aussie e quello di genere: alla fine si torna
sempre alla dialettica del doppio registro, e anche per questo Wolf
Creek merita l'importanza storica che gli compete. Restiamo in
attesa del sequel, attualmente in lavorazione.
Wolf Creek
(id.)
Regia e sceneggiatura:
Greg McLean
Origine: Australia,
2003
Durata: 99' (esiste
una Director's Cut da 104 minuti, inedita in Italia)
1 commento:
me lo sono rivisto proprio l'altra notte su rai 2, gran bel film, con scene davvero disturbanti e un villain sadico e disgustoso al punto giusto.
So che McLean deve girare il sequel, speriamo che la cosa vada in porto perchè mi piacerebbe rivedere il perfido Mick in azione.
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