"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 6 settembre 2012

Wolf Creek

Wolf Creek

1999. Ben Mitchell parte con due amiche inglesi, Liz Hunter e Christy Earl, da Broome, nell'Ovest dell'Australia, per una vacanza nell'Outback, fino al cratere di Wolfe Creek. Il viaggio rappresenta per il ragazzo anche l'occasione per cementare la storia d'amore che sta nascendo con la stessa Liz. I tre trascorrono momenti molto divertenti, interrotti soltanto da un breve alterco con alcuni uomini in un bar, e arrivano infine a destinazione. Giunto il tempo di ripartire, però, l'auto non si accende più, costringendo i ragazzi a trascorrere la nottata nel mezzo del nulla. In loro soccorso, comunque, interviene Mick Taylor, un classico uomo della provincia australiana, che li porta alla sua officina per riparare il guasto. Tutto sembra andare per il meglio, ma ben presto i tre scoprono a loro spese che Mick è un manico omicida e che ha intenzione di torturarli e ucciderli...


La fase moderna dell'Ozploitation inizia nel 2005 con questo celebrato horror di Greg McLean, ex pittore con esperienze nella regia teatrale al fianco di gente come Baz Luhrmann: un background importante per capire la forte impronta visiva impressa a una vicenda che, altrimenti, sembrerebbe un tardo epigono dei survival movie americani stile Non aprite quella porta e che ha riscosso un tale consenso da infondere nuova linfa alla produzione di cinema di genere australiano, rompendo la stasi in cui lo stesso era precipitato alla fine degli anni Ottanta.

Effettivamente, nel suo porsi come nuovo apripista, Wolf Creek rappresenta un compendio di suggestioni Ozploitation, rilette attraverso uno sguardo che possiamo anche definire critico: sostanzialmente, infatti, si tratta di un racconto (re)iniziatico, attraverso il quale due ragazze provenienti dalla madrepatria inglese e un ragazzo di Sidney percorrono un cammino a ritroso verso le origini di quella lontana terra, riverberando il rapporto problematico fra la parte “occidentalizzata” dell'Australia e l'Outback. Il tutto è filtrato da una prospettiva che è puramente cinematografica e che, in più occasioni, chiama in causa la rappresentazione, sia essa pittorica o filmica. La cifra estetizzante impressa al film da McLean e dal suo operatore (l'eccellente Will Gibson), ribadisce così la particolarità di un paesaggio che è alieno, onirico, e che poggia su stereotipi sedimentati dalla cultura pop, destinati a trovare incarnazione nella figura di Mick Taylor.

Il personaggio, infatti, è il classico “Ocker” alla Barry McKenzie o, più propriamente, alla Mr. Crocodile Dundee: film, quest'ultimo, che gli stessi ragazzi chiamano direttamente in causa quando si riferiscono a quel campagnolo rozzo e apparentemente sempliciotto. E Taylor non si fa pregare quando, rivelando la sua natura brutale, ripete puntualmente la gag del coltello resa celebre da Paul Hogan. È un segnale forte, attraverso il quale McLean rovescia lo stereotipo ridanciano dell'Ocker in una figura negativa. Non lo fa soltanto per ribaltare le certezze e cogliere così di sorpresa lo spettatore: al contrario, è come se ribadisse che al di là degli stereotipi c'è una realtà (una terra) che questi personaggi vivono senza comprenderne l'essenza più autentica. Il percorso iniziatico dei ragazzi, insomma, è di tipo traumatico e non può che sfociare nella distruzione totale, pervasa da un nichilismo tale da richiedere una messinscena documentaristica nelle scene più feroci (il film è girato in formato HDCAM). Le cronache dell'epoca, non a caso, riferiscono di critici infuriati per l'intensità delle scene e di autentici svenimenti in sala durante la proiezione al Festival di Cannes: il che ribadisce il doppio passo di uno stile visivo capace di essere sì espressionista nel senso più suggestivo del termine, ma allo stesso tempo anche brutale e realistico.

McLean, dunque, paga pegno a una tradizione e all'immaginario che da essa si è generato, chiama in causa le strade nel nulla di Roadgames e certi scorci mozzafiato alla Long Weekend, ma evita le genuflessioni cinefile da “bravo apprendista”, opponendo anzi all'industria del passato una formula indipendente e una crew di giovani collaboratori. Conseguentemente, alla spregiudicatezza narrativa dei classici e alla loro inventiva sfrenata, il regista preferisce una linearità narrativa di tipo americano, con tanto di vaghe ispirazioni da fatti reali (i casi di cronaca dei Backpacker Murders e di Bradley John Murdoch, per cui si rimanda ai link in calce): in questo modo Wolf Creek riesce a creare una perfetta sovrapposizione fra l'Ozploitation e il New Horror anni Settanta, ribadendo sia la sua caratura di “nuovo inizio”, sia il fatto che il rapporto di conflittualità con il proprio entroterra sia radicato nelle culture anglosassoni e assuma pertanto caratteristiche più ampie del singolo fatto narrato.

Non a caso, nell'illustrare le imprese di Mick Taylor, il film accenna a forze più grandi, chiama addirittura in causa gli Ufo e i meteoriti caduti dallo spazio che hanno formato il cratere di Wolfe Creek (lo scarto fra il vero nome del luogo e il titolo del film è misurato soltanto da quella singola “e”). Nel finale, poi, l'uomo letteralmente “scompare”, fondendosi con quel paesaggio di cui è una diretta germinazione. In effetti, se inquadrato con attenzione, Mick Taylor è una figura fantasmatica, priva di segni identitari propri: la sua potente fisicità è spesso annullata nella silhouette in penombra, che lo porta a comparire dal nulla, non ha una storia alle spalle che non sia riconducibile ai tipici tratti caratteriali del cattivo cinematografico (si fa riferimento a un'esperienza da soldato in Vietnam, dove pare abbia imparato a torturare la gente) e i filmati delle videocamere confiscate alle sue vittime lo vedono recitare sempre le stesse battute come stesse, per l'appunto, ripetendo un copione.

Una figura dalla natura “teorica”, insomma, che perde il controllo quando si attenta all'integrità del suo veicolo come un bullie di Mad Max; ma soprattutto un'icona che da sola vuole esprimere il rapporto dialettico fra l'opera di McLean e il cinema australiano del passato. A interpretarlo, infatti, c'è il veterano John Jarratt, che trent'anni prima aveva recitato in Picnic a Hanging Rock, film seminale nella definizione di quel rapporto conflittuale fra il cinema d'autore aussie e quello di genere: alla fine si torna sempre alla dialettica del doppio registro, e anche per questo Wolf Creek merita l'importanza storica che gli compete. Restiamo in attesa del sequel, attualmente in lavorazione.


Wolf Creek
(id.)
Regia e sceneggiatura: Greg McLean
Origine: Australia, 2003
Durata: 99' (esiste una Director's Cut da 104 minuti, inedita in Italia)

1 commento:

fabio ha detto...

me lo sono rivisto proprio l'altra notte su rai 2, gran bel film, con scene davvero disturbanti e un villain sadico e disgustoso al punto giusto.
So che McLean deve girare il sequel, speriamo che la cosa vada in porto perchè mi piacerebbe rivedere il perfido Mick in azione.