"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

martedì 4 settembre 2012

Interceptor (Mad Max)

Interceptor (Mad Max)

In un vicino futuro, le strade sono diventate il territorio di conquista di biker spietati. A fronteggiarli c'è la Main Force Patrol, il cui campione è Max Rockatansky, con la sua Ford Interceptor. Quando Max affronta ed elimina il criminale Night Rider, i suoi compagni, guidati da Toecutter, accorrono in massa per vendicarlo: a farne le spese è Jim Goose, amico e collega di Max, che quindi decide di abbandonare il volante prima di superare quel limite che lo renderebbe indistinguibile dai criminali. Il nostro cerca dunque di trascorrere un periodo di pace con la famiglia, ma l'imprevedibilità del caso vuole che la moglie e il figlio si imbattano proprio nei bikers di Toecutter, e vengano uccisi. Accecato dal dolore, Max torna sulle strade, in cerca di vendetta.


Sotto molti aspetti, il primo Max Mad è il Per un pugno di dollari australiano: non tanto per la capacità di produrre degli epigoni (da questo versante sarà molto più fecondo il seguito), quanto per il modo con cui è riuscito a riassumere i vari influssi che lo hanno preceduto, determinando la temperie dell'epoca e una svolta in seno all'Ozploitation. Un punto fermo, insomma, che può essere collegato al classico leoniano anche per ragioni prettamente estetiche: George Miller, infatti, pensa in senso mitico e esalta i dettagli, creando un linguaggio visivo che non vuole affidarsi alle parole per esprimere i concetti. Al contrario, laddove si serve del dialogo appare goffo e fuori contesto, tanto da fare subito marcia indietro (Fifi che liquida i suoi pensieri filosofici sul concetto di “eroe” con una battuta). Si lavora pertanto sull'iconografia, con una stilizzazione un po' da fumetto (gli occhi che schizzano dalle orbite) e sottolineando gli elementi topici del genere di riferimento (il western in Leone, qui il road movie): tutto diventa così bigger than life, gli spazi aperti dell'Outback australiano, la ieraticità dei movimenti con cui Max indossa i suoi guanti preparandosi alla corsa, i grandangoli che conferiscono alle auto un aspetto a un tempo mostruoso e potente, mentre la scelta delle inquadrature è sempre dentro l'azione, accarezza le carrozzerie e predilige punti di vista anomali, dal basso, a fil di strada.

Oggi la cosa non dovrebbe stupirci, considerando anche la cifra estetizzante sempre presente nel cinema australiano, eppure le cronache dell'epoca riferiscono di scontri con la produzione, proprio in virtù dell'innovativo metodo di ripresa prediletto da Miller: l'autore proveniva infatti dai corti sperimentali e aveva compreso perfettamente come il modo migliore per entrare nelle sfide proposte dalla storia fosse quello di puntualizzare quell'elemento di fascinazione che lega l'uomo al suo veicolo nella cultura anglosassone. D'altra parte è interessante notare come il punto di partenza fosse diametralmente opposto: all'epoca, infatti, Miller lavorava come medico in un Pronto Soccorso di Victoria, nel Sud Est dell'Australia. Questa attività gli aveva permesso di entrare in contatto con i numerosi feriti prodotti dagli incidenti stradali, facendogli notare come i morti sulle strade superassero in numero quelli degli omicidi. In Italia magari ne avrebbero tratto una pubblicità progresso, nella terra dei canguri il pretesto è stato elaborato nella forma di un film che riprende il tema del confronto con la propria parte oscura e, in particolare, con la contro-cultura punk dei bikers, rielaborati nella figura dei bullies, poi diventati un'autentica icona dell'Ozploitation (Quentin Tarantino giustamente sottolinea come nel cinema aussie “questi tipi spuntino sempre” a prescindere dal genere cui il film di turno fa riferimento).

Alle spalle di Mad Max si situa dunque Stone, forse il primo (o comunque il principale) titolo che illustra il confronto difficile fra società e bullies: Miller ne riprende tre interpreti, Roger Ward (più tardi secondino folle in Turkey Shoot), Vincent Gil e Hugh Keays-Byrne, cui affianca il novizio Mel Gibson, che da qui avvierà una fortunata carriera (fatti salvi gli accadimenti degli anni a noi più vicini). E per il resto semina quanto anche altri generi raccoglieranno: lo scontro in strada fra l'auto e la roulotte, infatti, sembra fornire più di uno spunto a quello fra il camion e il rimorchio con motoscafo in Roadgames, mentre l'iconografia del personaggio anticipa altri celebri anti eroi come lo Snake “Jena” Plissken di 1997: Fuga da New York o il Rick Deckard di Blade Runner.

Azione e ambizioni alte si mescolano dunque in un rapporto paritario, dove gli incredibili stunt automobilistici sono importanti sia a scopi eminentemente commerciali che per determinare un'estetica che faccia da contraltare all'estrema austerità degli interni e alla sconfinata indeterminatezza dell'Outback, con le sue strade infinite. Si torna in questo senso al dualismo cui si accennava in precedenza, per effetto del quale l'intento “sociologico” e di denuncia della pericolosità delle strade viene modulato nel senso di un racconto che pure si serve dell'esaltazione del rapporto uomo-veicolo. Miller, giustamente, parla di un film “produttivamente di serie B, ma con ambizioni da serie A” e la sua storia diventa il racconto di una zona intermedia in cui i ruoli ben determinati finiscono per sfumare gli uni negli altri: il codice del branco portato avanti da Toecutter (nel doppiaggio italiano diventato inspiegabilmente “Teocotter”, sic!) si rispecchia nel sentimento fraterno che unisce i poliziotti, mentre le scorribande su strada dei bullies trovano un adeguato contraltare nelle auto truccate dei tutori della legge.

La figura di Max si pone esattamente al centro di queste contraddizioni e sfumature, per la sua bravura, per il suo essere un buon padre di famiglia, che però teme il confronto con una parte oscura e bestiale che sente premere dal suo interno e che lo porterà alla follia enunciata dal titolo (Mad Max, ovvero “Max il matto”). Anche in questo caso il rapporto dialettico fra personaggi e ambiente è articolato sulle coordinate geografiche dell'Outback, che diventa zona tentacolare, e alterna la serenità delle spiagge ai chiaroscuri delle aree boschive: se la strada è insomma assimilabile alla via principale in cui si consumano i duelli e dove i bullies sfasciano gli arti di Max pestandoli con le ruote (in una scena che ricorda anche il Django di Sergio Corbucci), il resto dell'entroterra, con la sua varietà, rappresenta quell'insieme di luoghi che determina i vari stati d'animo di una comunità ed esplora le varie derive emozionali del racconto.

Tutto l'insieme costituisce perciò un'efficace mappatura dei dualismi interni alla società australiana, sebbene l'ambientazione futurista, la stilizzazione scenografica e la recitazione un po' impostata non calchino la mano sulla specificità aussie del racconto: dopotutto siamo già in un'epoca in cui non si esclude la possibile esportazione dei prodotti ed è divertente notare come in fondo sarà proprio l'estero ad attingere maggiormente dalla saga di Mad Max, dal Giappone di Ken il guerriero ai vari postatomici italiani. L'ambizione di serie A voluta da Miller, insomma, passa anche per l'universalità dei temi veicolati da una basica storia di vendetta.


Interceptor
(Mad Max)
Regia: George Miller
Sceneggiatura: George Miller, Byron Kennedy, James McCausland
Origine: Australia, 1979
Durata: 93'

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