Interceptor (Mad Max)
In un vicino futuro,
le strade sono diventate il territorio di conquista di biker
spietati. A fronteggiarli c'è la Main Force Patrol, il cui campione
è Max Rockatansky, con la sua Ford Interceptor. Quando Max affronta
ed elimina il criminale Night Rider, i suoi compagni, guidati da
Toecutter, accorrono in massa per vendicarlo: a farne le spese è Jim
Goose, amico e collega di Max, che quindi decide di abbandonare il
volante prima di superare quel limite che lo renderebbe
indistinguibile dai criminali. Il nostro cerca dunque di trascorrere
un periodo di pace con la famiglia, ma l'imprevedibilità del caso
vuole che la moglie e il figlio si imbattano proprio nei bikers di
Toecutter, e vengano uccisi. Accecato dal dolore, Max torna sulle
strade, in cerca di vendetta.
Sotto molti aspetti, il
primo Max Mad è il Per un pugno di dollari
australiano: non tanto per la capacità di produrre degli epigoni (da
questo versante sarà molto più fecondo il seguito), quanto per il
modo con cui è riuscito a riassumere i vari influssi che lo hanno
preceduto, determinando la temperie dell'epoca e una svolta in seno
all'Ozploitation. Un punto fermo, insomma, che può essere collegato
al classico leoniano anche per ragioni prettamente estetiche: George
Miller, infatti, pensa in senso mitico e esalta i dettagli, creando
un linguaggio visivo che non vuole affidarsi alle parole per
esprimere i concetti. Al contrario, laddove si serve del dialogo
appare goffo e fuori contesto, tanto da fare subito marcia indietro
(Fifi che liquida i suoi pensieri filosofici sul concetto di “eroe”
con una battuta). Si lavora pertanto sull'iconografia, con una
stilizzazione un po' da fumetto (gli occhi che schizzano dalle
orbite) e sottolineando gli elementi topici del genere di riferimento
(il western in Leone, qui il road movie): tutto diventa così bigger
than life, gli spazi aperti dell'Outback australiano, la
ieraticità dei movimenti con cui Max indossa i suoi guanti
preparandosi alla corsa, i grandangoli che conferiscono alle auto un
aspetto a un tempo mostruoso e potente, mentre la scelta delle
inquadrature è sempre dentro l'azione, accarezza le
carrozzerie e predilige punti di vista anomali, dal basso, a fil di
strada.
Oggi la cosa non dovrebbe
stupirci, considerando anche la cifra estetizzante sempre presente
nel cinema australiano, eppure le cronache dell'epoca riferiscono di
scontri con la produzione, proprio in virtù dell'innovativo metodo
di ripresa prediletto da Miller: l'autore proveniva infatti dai corti
sperimentali e aveva compreso perfettamente come il modo migliore per
entrare nelle sfide proposte dalla storia fosse quello di
puntualizzare quell'elemento di fascinazione che lega l'uomo al suo
veicolo nella cultura anglosassone. D'altra parte è interessante
notare come il punto di partenza fosse diametralmente opposto:
all'epoca, infatti, Miller lavorava come medico in un Pronto Soccorso
di Victoria, nel Sud Est dell'Australia. Questa attività gli aveva
permesso di entrare in contatto con i numerosi feriti prodotti dagli
incidenti stradali, facendogli notare come i morti sulle strade
superassero in numero quelli degli omicidi. In Italia magari ne
avrebbero tratto una pubblicità progresso, nella terra dei canguri
il pretesto è stato elaborato nella forma di un film che riprende il
tema del confronto con la propria parte oscura e, in particolare, con
la contro-cultura punk dei bikers, rielaborati nella figura dei
bullies, poi diventati un'autentica icona dell'Ozploitation
(Quentin Tarantino giustamente sottolinea come nel cinema aussie
“questi tipi spuntino sempre” a prescindere dal genere cui il
film di turno fa riferimento).
Alle spalle di Mad Max
si situa dunque Stone, forse il primo (o comunque il
principale) titolo che
illustra il confronto difficile fra società e bullies:
Miller ne riprende tre interpreti, Roger Ward (più tardi secondino
folle in Turkey Shoot),
Vincent Gil e Hugh Keays-Byrne, cui affianca il novizio Mel Gibson,
che da qui avvierà una fortunata carriera (fatti salvi gli
accadimenti degli anni a noi più vicini). E per il resto semina
quanto anche altri generi raccoglieranno: lo scontro in strada fra
l'auto e la roulotte, infatti, sembra fornire più di uno spunto a
quello fra il camion e il rimorchio con motoscafo in Roadgames,
mentre l'iconografia del personaggio anticipa altri celebri anti eroi
come lo Snake “Jena” Plissken di 1997: Fuga da New York
o il Rick Deckard di Blade Runner.
Azione
e ambizioni alte si mescolano dunque in un rapporto paritario, dove
gli incredibili stunt automobilistici sono importanti sia a scopi
eminentemente commerciali che per determinare un'estetica che faccia
da contraltare all'estrema austerità degli interni e alla sconfinata
indeterminatezza dell'Outback, con le sue strade infinite. Si torna
in questo senso al dualismo cui si accennava in precedenza, per
effetto del quale l'intento “sociologico” e di denuncia della
pericolosità delle strade viene modulato nel senso di un racconto
che pure si serve dell'esaltazione del rapporto uomo-veicolo. Miller,
giustamente, parla di un film “produttivamente di serie B, ma con
ambizioni da serie A” e la sua storia diventa il racconto di una
zona intermedia in cui i ruoli ben determinati finiscono per sfumare
gli uni negli altri: il codice del branco portato avanti da Toecutter
(nel doppiaggio italiano diventato inspiegabilmente “Teocotter”,
sic!) si rispecchia nel sentimento fraterno che unisce i poliziotti,
mentre le scorribande su strada dei bullies
trovano un adeguato contraltare nelle auto truccate dei tutori della
legge.
La
figura di Max si pone esattamente al centro di queste contraddizioni
e sfumature, per la sua bravura, per il suo essere un buon padre di
famiglia, che però teme il confronto con una parte oscura e bestiale
che sente premere dal suo interno e che lo porterà alla follia
enunciata dal titolo (Mad Max, ovvero “Max il matto”). Anche in
questo caso il rapporto dialettico fra personaggi e ambiente è
articolato sulle coordinate geografiche dell'Outback, che diventa
zona tentacolare, e alterna la serenità delle spiagge ai chiaroscuri
delle aree boschive: se la strada è insomma assimilabile alla via
principale in cui si consumano i duelli e dove i bullies
sfasciano gli arti di Max pestandoli con le ruote (in una scena che
ricorda anche il Django
di Sergio Corbucci), il resto dell'entroterra, con la sua varietà,
rappresenta quell'insieme di luoghi che determina i vari stati
d'animo di una comunità ed esplora le varie derive emozionali del
racconto.
Tutto
l'insieme costituisce perciò un'efficace mappatura dei dualismi
interni alla società australiana, sebbene l'ambientazione futurista,
la stilizzazione scenografica e la recitazione un po' impostata non
calchino la mano sulla specificità aussie
del racconto: dopotutto siamo già in un'epoca in cui non si esclude
la possibile esportazione dei prodotti ed è divertente notare come
in fondo sarà proprio l'estero ad attingere maggiormente dalla saga
di Mad Max, dal
Giappone di Ken il guerriero
ai vari postatomici italiani. L'ambizione di serie A voluta da
Miller, insomma, passa anche per l'universalità dei temi veicolati
da una basica storia di vendetta.
Interceptor
(Mad
Max)
Regia:
George Miller
Sceneggiatura:
George Miller, Byron Kennedy, James McCausland
Origine:
Australia, 1979
Durata:
93'
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