Lecce 2012: Day 1
Partiamo dal tempo:
quello fra una proiezione e l'altra, quando spesso si decide “in
corsa” cosa vedere, anche perché si ha la fortuna di non dover
sottostare all'estenuante rito della sbigliettatura (perché una cosa
che non cambia mai è il tempo d'attesa infinito alle casse). Ma
anche il tempo che di solito si cerca di ritagliare qua e là per
poter buttare giù due righe come in questo caso. Per fortuna a Lecce
di tempo ce n'è abbastanza, non è uno di quei festival bulimici
dove rincorri i film con il fiatone. Il tempo poi è quello
atmosferico, pazzo, incontrollabile, quello per cui un giorno apri
l'ombrello e quello dopo soffochi per il sole, ma la sera devi
nuovamente indossare abiti pesanti, perché probabilmente nemmeno lui
– il tempo – ha capito che l'inverno è passato. Vi state
domandando come mai queste riflessioni? Perché la natura
imprevedibile e “umorale” del tempo è quella che meglio
restituisce le emozioni di questo primo giorno di festival, dove le
visioni non sono state necessariamente incentrate sul tema, ma si
sono in ogni caso dimostrate variegate e pazzerelle come le nuvole
che si addensano e spariscono nel cielo di questo strano aprile.
Si parte alle 9 di
mattina con il norvegese Oslo, August 31st, di Joachim Trier,
che inaugura il concorso lungometraggi: storia di un ragazzo in
libera uscita dalla comunità per tossicodipendenti per sostenere un colloquio di lavoro in città. L'occasione viene presto
sprecata e così il nostro vaga per la capitale incontrando i
compagni di un tempo, un percorso che si rivelerà distruttivo o,
comunque, di autocoscienza rispetto a una vita che si percepisce
ormai perduta. Il regista aveva vinto una delle precedenti edizioni
del festival e riesce a mantenere uno sguardo allo stesso tempo
sobrio e empatico nei confronti del personaggio, però manca il
guizzo, quello che permetta alla storia di non suscitare la
spiacevole sensazione che tutto andrà nel modo in cui ci si aspetta.
Sulla carta il film
successivo - sempre in concorso – Daddy è l'esatto opposto,
gioca a confondere lo spettatore immaginando due sorelle e il
fidanzato di una di loro che si recano a fare visita al padre,
isolato in una casa nelle montagne della Croazia. Quindi dramma
familiare? No, film horror: e articolato su più livelli per giunta,
perché non solo la presenza minacciosa di questo padre-mostro
favorisce il racconto di tensione, ma poi ci si mette anche il
triangolo amoroso fra le due sorelle e il ragazzo, che complica la gamma di relazioni alla base del racconto. Lo spunto è molto
interessante, però il film sembra aver timore dell'etichetta di
genere e quindi alla fine non riesce a sfruttare i twist della storia
molto bene, depotenziando anche molte intuizioni della fotografia
naturalistica. La folgorazione, insomma, non abita ancora qui.
Meglio dunque
abbandonarsi ai classici del pomeriggio, con i primi titoli degli
omaggi a Emir Kusturica e Ken Russell: del primo ritroviamo il
malinconico e sensibile Ti ricordi di Dolly Bell?, del 1981.
Ma la vera scoperta è I diavoli
(1971), non perché sia un film sconosciuto (tutt'altro), ma
perché di certo è inaspettata la bella copia italiana d'epoca in
versione assolutamente integrale, che dunque permette a questo
capolavoro magniloquente e iconoclasta di deflagrare in tutta la sua
scandalosa potenza, regalando uno spettacolo lussureggiante e per
nulla datato. Il buongiorno si vede dalla sera insomma, mentre fuori
impazza il vento e il tempo in sala non è mai stato così ben speso.
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