Venezia 2010: i volti del cinema (2/2)
Superato dunque lo scoglio delle premiazioni e dei commenti, mi piace dare ancora spazio alla Mostra di Venezia 2010 con una serie di volti-simbolo, che a mio parere hanno sintetizzato bene lo spirito composito di un programma interessante e che restano come memorie visive dell’edizione.
Inizio naturalmente con il gesto “irriverente” di Isabella Ragonese, che collego e contrappongo idealmente a quello, ormai noto e ben più esplicito, usato da Quentin Tarantino nella conferenza stampa finale. La madrina della Mostra è stato il volto-simbolo della Mostra, una scelta altamente condivisibile per come riesce a veicolare una immagine lieve e sbarazzina del cinema italiano, da contrapporre idealmente alla “pesantezza” scenica e recitativa di troppe interpreti nostrane.
Ma è il cinema visto in sala quello che deve soprattutto figurare: ecco dunque Natalie Portman, strepitosa interprete del film inaugurale, Black Swan, nuova folgorazione firmata Darren Aronofsky. Un volto capace di reggere interamente l’architrave di un intero film costruito sul tema del doppio e che per questo riesce a essere allo stesso tempo dolcissimo e oscuro.
A lei si affianca il granitico Danny Trejo di Machete, sintesi di cinema alto (ha esordito con Konchalovskij e Michael Mann) e basso (per la sua immota aria di perenne villain collaterale, destinato a rapidi fuori scena), star di un autentico film meticcio in bilico fra generi, tendenze e differenti mercati (e anche in questo caso non stupiscono i bassi incassi in patria).
Si prosegue con Tsuyoshi Ihara, il volto più simbolico dei 13 Assassins di Takashi Miike, fra i capolavori del festival. Un viso gelido, fermo, ma la cui nervosità scorre sottotraccia, vibrante come la violenza dei colpi sferrati dal personaggio con la katana: pura esaltazione della virulenza cinematografica del jidai geki nipponico!
Torniamo invece ad atmosfere più poetiche con Elle Fanning, la sorellina della più celebre Dakota, che costituisce il punto di fuga di Somewhere: a lei, più che al pur ottimo e “stropicciato” Stephen Dorff è bene affidare il ricordo del film, qui sintetizzato dalla poetica scena in piscina, la migliore.
Attimo di esaltazione invece davanti a un colossale Fabrice Luchini, che sebbene costituisca uno dei personaggi di contorno di Potiche, l’ultimo lavoro di Francois Ozon, è senz’altro quello che resta più impresso per la sua figura di padrone/marito tiranno e nevrotico, che infiamma l’inquadratura ad ogni apparizione. Un concentrato di umanità in bilico fra enormi difetti e invisibili pregi: semplicemente irresistibile!
E’ invece un non-volto quello di Vincent Gallo, autentico spirito fuggente del festival, in continuo rimbalzo fra pellicole dirette o interpretate e inafferrabile ospite che si è nascosto per tutta la durata della manifestazione (si mormora andasse in giro per il Lido coperto da un passamontagna…) e che ha disertato anche la cerimonia finale: emblema di un cinema che vuole sfidare lo spettatore come alcuni sostengono o di una tendenza a costruire il proprio personaggio al di là (e al di qua) dello schermo? Certo interessante pensare a un confronto a distanza con il suo talebano in fuga in Essential Killing di Jerzy Skolimowski.
Dall’Italia invece merita di essere nuovamente elevato ai fasti che gli competono il grandissimo Kim Rossi Stuart di Vallanzasca, autentico corpo che si fa cinema e si appropria totalmente di un progetto che l’autore Michele Placido dirige con polso energico, ma senza la necessaria lucidità, lasciando dietro di sé più ombre che luci. Se nel festival è esistita un’interpretazione capace da sola di fare letteralmente il film è questa.
Che dire invece di Abhishek Bachchan, il bandito gentiluomo di Raavan/Raavanan (due titoli per due differenti edizioni, in hindi e in tamil), che rapisce l’iconica Aishwarya Ray? L’agire scomposto e surreale di questo capobanda esaltato rappresenta la sintesi più perfetta di un autentico e folgorante kolossal in bilico fra azione, musical, avventura e sentimento, pieno di colori, coreografie e invenzioni. Un esempio fra i più precisi di quanto bel cinema venga costantemente negato agli spettatori occidentali.
Torniamo invece ancora a Takashi Miike perché è impossibile non citare l’eroico Zebraman, protagonista di un dittico realizzato fra il 2004 e il presente, omaggio alla fantascienza televisiva nipponica, ma anche emblema di quel legame sempre più soffocante fra cultura pop e realtà, che, con l’arma dell’ironia, il regista giapponese sembra ossequiare per mettere soprattutto alla berlina. Naturalmente il volto è quello dell’interprete, il favoloso Show Aikawa, attore feticcio del regista.
Quindi la splendida Shannyn Sossamon, volto e luce simbolica dell’ultimo Monte Hellman, musa e causa di disperazione per il protagonista. Probabilmente l’unico segno di realtà in un film completamente basato sull’inganno della visione, che conferma la predilezione dell’attrice per ruoli e titoli poco convenzionali (la si ricorda infatti ne Il destino di un cavaliere e Le regole dell’attrazione).
Altro volto femminile capace di sprigionare fascino, dolcezza e una certa inquietudine è quello di Kalki Koechlin, protagonista di un’altra folgorazione come That Girl in Yellow Boots, dolente storia di una giovane inglese alla ricerca del padre in una Mumbay ritratta con piglio espressionista!
Infine le maschere, quelle dei clown di Balata triste de trompeta di Alex De La Iglesia (plauso alla giuria che lo ha premiato, anche in questo caso consacrando un talento off che merita visibilità), sorta di dolente trasfigurazione di certi villain da fumetto (il Pinguino e il Joker sono i riferimenti più immediati) in una cornice sinfonica che mescola Storia e diverse suggestioni, da Fellini a Tod Browing, con il collante della cifra grottesca e pulp che va da sempre risconosciuta al regista spagnolo. Li attendiamo nei cinema italiani.
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1 commento:
Bel articolo.
"13 Assassins" e "Balada triste de trompeta" già mi gasano...
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