Il biochimico Mark Whitacre lavora come manager per la ADM, una multinazionale dell’industria agro-alimentare. Nella speranza di scalare i vertici dell'azienda, Mark decide di rivelare all’FBI i traffici fraudolenti che vendono la stessa ADM e tutte le altre industrie del settore fare cartello per controllare illecitamente i prezzi di mercato. Ma quello che nessuno può sospettare è che Mark è un bugiardo matricolato e che ogni rivelazione nasconde segreti altrettanto compromettenti sulle sue tangenti intascate di nascosto. Una volta emerse, le sue colpe rischiano di minare alle fondamenta non solo la sua reputazione ma anche la stessa indagine dell’FBI.
Il cinema è una questione di bugie: narrare è in fondo mentire, anche quando, per un magnifico paradosso, si mette in scena una verità. Chi da tempo riflette sulle implicazioni sociali della menzogna è sicuramente George Clooney, che sta descrivendo con coerenza registica e produttiva un percorso sulla rappresentazione come elemento rivelatorio della bugia e sulla realtà che da essa scaturisce. Una sorta di parabola sulla perdita del senso delle cose in un mondo che preferisce rivoltare i principi in modo opportunista. Steven Soderbergh fa lo stesso, ma con un piglio differente, più scanzonato, tipico di chi, pur consapevole del perimetro che va a delimitare, si bea dell’artificio che gli permette di farlo e ciò rende il suo cinema più teorico, ma anche capace di trasmettere un divertimento più palpabile.
Non è un caso se l’incredibile vicenda di Mark Whitacre finisce così per assomigliare alle iperboliche truffe della banda di Ocean: stesso piglio glamour e un’attenzione a personaggi e interni che rende luoghi e volti elementi qualificanti della reale bugia che si mette in scena. L’operazione di The Informant! d’altra parte è mimetica, perché il film gioca con le aspettative dello spettatore secondo una dinamica che è quella del thriller, anche se poi il tono è quello della commedia dell’assurdo e il vero “cattivo” della storia è anche quello che attira le maggiori simpatie per una sorta di innocenza che lo porta ad autoconvincersi della sincerità delle proprie bugie.
Allo stesso tempo è palese l’intento di uno spazio scenico che rimanda a momenti storici differenti: l’acconciatura di Ginger (la moglie di Whitacre) e alcuni design sembrano infatti provenire più da un arco temporale che potremmo datare fra gli anni Sessanta e Ottanta, che dai Novanta in cui la storia effettivamente si colloca. L’intento dunque non è quello della verità, ma della verosimiglianza, perché l’operazione di mimesi ponga in primo piano l’empatia delle singole situazioni piuttosto che la precisione della ricostruzione.
D’altronde un altro possibile referente per il film è lo Steven Spielberg di Prova a prendermi, altra storie di truffe che descrivono i particolari umori di un arco storico della società americana: stavolta però l’inquietudine che pure pervadeva Frank Abbagnale viene estroflessa, non è riconducibile unicamente alla prospettiva filiale tanto cara a Spielberg. Certo la dinamica familiare è sempre importante, considerando che in fondo è proprio Ginger a spingere Mark a confessare la prima delle sue tante verità all’FBI e a proteggerlo dagli attacchi di chi è stato raggirato, ma la sensazione è maggiormente panica, poiché più evidente è il gioco al massacro nei confronti di una realtà tutta. Una realtà, per l’appunto, costruita sulla menzogna.
La narrazione si costringe pertanto in uno spazio che è totalmente e felicemente cinematografico: la vicenda di spionaggio industriale viene perciò vista da Mark come una parafrasi degli eventi raccontati nei romanzi di Michael Crichton (viene citato esplicitamente Sol Levante) o in film come Il socio di Sidney Pollack. Il personaggio si ispira a queste opere di finzione per perpetrare i suoi inganni, ma allo stesso tempo per costruire testardamente una versione alternativa della realtà, in cui si vede come l’eroe “dal cappello bianco”, opposto alle nefande dinamiche del sistema capitalista di cui pure si giova (arricchendosi sottobanco). Non a caso si definisce scherzosamente “agente 0014”, come ovvia moltiplicazione dell’iconico 007: una definizione che peraltro già palesa la sua consapevolezza di essere un formidabile doppiogiochista.
E quindi di questa realtà Mark risulta inizialmente il narratore attraverso un uso straniante della voce fuori campo, usata palesemente per piegare le svolte narrative alla sua logica contorta, quasi a contraddire ciò che le immagini raccontano, smontando e rimontando i fatti fino a farli coincidere con i suoi desideri e intenti. E’ lui l’artefice della rappresentazione, dispone in campo gli oggetti (sposta la sedia che copre la telecamera nascosta dall’FBI), sceglie le stanze dei meeting e cerca di estorcere la parola giusta per far chiudere l’indagine. Con levità Soderbergh compone così uno straordinario affresco sul senso delle cose in una realtà che rinnega se stessa e lentamente conduce Mark verso una discesa umana e professionale nella tragedia in cui il fiero manovratore si scoprirà attore in crisi.
La buona fede non basterà a salvarlo, ma comunque gli regalerà infine un insperato lieto fine, perché di fronte a una realtà che ha perso la sua verità anche il peggiore dei bugiardi finisce insperatamente per diventare un eroe.
The Informant!
(id.)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Scott Z. Burns (dal libro di Kurt Eichenwald)
Origine: Usa, 2009
Durata: 108’
Steven Soderbergh e Matt Damon alla Mostra di Venezia
Sito italiano di The Informant!
Sito ufficiale americano di The Informant!
Sito ufficiale di Mark Whitacre
1 commento:
Questo non sono riuscita a vederlo in sala...però mi incuriosice la regia di Soderbergh e l'interpretazione di Damon. Vedrò di recuperarlo appena possibile.
Ale55andra
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