"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 19 gennaio 2009

Un eroe borghese

Un eroe borghese

1974. L’avvocato Giorgio Ambrosoli viene nominato dalla Banca d’Italia Liquidatore Unico della Banca Privata, oberata dai debiti accumulati dal suo presidente, l’avvocato Michele Sindona, fuggito a New York per evitare l’arresto. Uomo di solidi principi e per nulla incline al compromesso, Ambrosoli rifiuta di piegarsi alle pressioni dell’agglomerato politico-economico che ruota intorno alle società di Sindona e trova nel Maresciallo della Finanza Silvio Novembre un partner onesto e un amico che lo aiuta a portare avanti il suo compito.

La trappola insita nel cinema civile sta tutta nel credere che la forza del soggetto e l’importanza pedagogica insita nella ricostruzione di un evento bastino da sole a decretare la riuscita di un film (basti pensare a molte, mediocri, opere di Giuseppe Ferrara). Fortunatamente, in alcuni casi il regista è ben conscio di dover elaborare in senso cinematografico il racconto per elevarlo a paradigma di temi e situazioni che nel fatto si rispecchiano, in modo da potersi rivolgere a pubblici trasversali e a epoche differenti, dando vita a un’opera universale. Un eroe borghese è uno di questi film, diretto con lucidità da un ispirato Michele Placido che, nel raccontare la drammatica vicenda dell’avvocato Ambrosoli, compie una riflessione molto arguta sull’importanza della parola come strumento di relazione e di confronto con la realtà.

La distanza che infatti esiste tra il significato astratto della parola e l’oggetto che la stessa invece realmente indica, determina quell’intervallo all’interno del quale è possibile provocare confusione e permettere alla bugia di diventare verità, e alla verità di apparire come fatto velleitario. E’ quell’intervallo a permettere a personaggi come Michele Sindona di prosperare, e a un sistema corrotto, che vede i governanti di una nazione pienamente implicati, di perseguire interessi privati in luogo del socratico Bene universale.

Giorgio Ambrosoli (e Placido con lui) in questo senso compie un’operazione volta a eliminare quell’intervallo per far combaciare il significato con il significante, allontanando la componente astratta, per far emergere la verità. Il suo compito di liquidatore diventa un’indagine che, a ritroso, ricostruisce i passi della scalata al potere di Sindona per metterne in evidenza la natura criminosa, utile soltanto a una ristretta oligarchia di affaristi e politici corrotti, in perfetto contrasto con l’immagine di uomo brillante e capace che il banchiere è invece riuscito a costruirsi e a promulgare.

I dialoghi in questo senso costituiscono una fortissima architrave sulla quale il personaggio stesso di Ambrosoli è costruito: la recitazione di Fabrizio Bentivoglio, infatti, opta per una fisicità minimale, una figura quasi insignificante, il cui aspetto curato appare dettato più da metodicità che da reale dedizione alla propria immagine. I suoi gesti sono essenziali e il fumare ossessivo diventa l’unico segno distintivo in grado di far trasparire un’umanità per il resto relegata a pochi momenti disseminati lungo l’intero arco narrativo. Ma le frasi che l’uomo pronuncia sono ferme, precise e svelano costantemente l’inganno insito dietro l’applicazione astratta dei concetti: lo Stato quindi è da considerarsi l’insieme delle persone che lo formano e non una entità inafferrabile dove possono agire interessi di parte. E la divisa non è un lasciapassare per la corruzione, ma un simbolo che ha valore soltanto se a indossarla è un individuo onesto.

Nel pragmatismo di Ambrosoli emerge dunque un idealismo che riguarda i temi della morale e dell’etica (tutt’oggi molto attuali, sebbene sbandierati con sconcertante pressappochismo) e che ci dicono di come la coincidenza tra significante e significato può avvenire soltanto se a determinarla è l’applicazione di un principio che tenda al Bene dell’intera comunità. Quella comunità che invece il fittizio piano di risanamento economico vuole punire facendo ricadere il debito sui cittadini.

La distanza tra il principio e la realtà, però, costituisce anche lo spazio che rende eroico un avvocato che intende esclusivamente svolgere il suo compito poiché lo porta a contrapporsi contro il sistema corrotto che, di fatto, costituisce lo Stato. Ambrosoli in fondo ha ragione, lo Stato è chi lo costituisce, ma non gli uomini di buona volontà come lui, bensì il sistema corrotto che è penetrato in profondità nei gangli della società e del governo, e tutto questo condurrà inevitabilmente a un tragico finale. L’eroismo, in ultima analisi, finisce quindi per ritrovarsi nella consapevolezza del destino che attende il protagonista, fatto che ammanta la sua figura di un’aura vagamente cristologica, chiamata in causa con levità attraverso la gag della benedizione che l’uomo impartisce per gioco ai figli.

Su questa struttura fortemente incentrata sul dialogo, Placido imbastisce poi un gioco di espedienti che ossequiano le regole del noir e del western: quello tra Ambrosoli e Sindona è infatti un autentico duello condotto a distanza (i due sono vicini solo in una scena, senza che peraltro Sindona se ne avveda) fra due campioni nel campo legale e finanziario, guidati però da interessi contrapposti. La lotta di Ambrosoli è poi maggiormente epica, viene sottolineata da un incedere della vicenda molto incalzante, e soprattutto dalla dicotomia tra una realtà esterna solare e rassicurante, e una interna invece pervasa da un buio quasi espressionista, che la fotografia di Luca Bigazzi sa manovrare con grande forza. Il buio è dunque l’elemento oscuro che pervade metaforicamente la struttura malata di un’Italia preda di disordini sociali, retate della polizia e che corrompe gli animi: non a caso, quando Annalori (la moglie di Ambrosoli) ascolta la registrazione di una telefonata minacciosa ricevuta dal marito, per istinto accende tutte le luci in casa, come per reagire al buio che pervade gli ambienti.

Su tutto domina comunque la forza della parola e quindi, di fronte alla tragedia conclusiva, il film si permette l’intelligente scelta di un calibrato piano sequenza a salire accompagnato da una mancanza di sonoro mai come in questo caso davvero assordante. Il resto, in fondo, è ancora una volta silenzio.

Un eroe borghese
Regia: Michele Placido
Soggetto: dal libro omonimo di Corrado Stajano
Sceneggiatura: Graziano Diana, Angelo Pasquini
Origine: Italia, 1995
Durata: 92’

Intervista a Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio
Galleria fotografica di Un eroe borghese

1 commento:

Anonimo ha detto...

sono capitata per caso qui, complimenti per l'interessantissima lettura
iulikravitz@hotmail.com