John Carter
Il giovane Edgar Rice
Burroughs viene convocato a casa dello zio John Carter, scomparso di
recente. L'uomo gli ha lasciato in eredità il suo patrimonio e gli
ha affidato un diario nel quale gli racconta storie incredibili di un
suo viaggio su Marte, dove si era innamorato della principessa Deja
Thoris, promessa al tiranno del regno rivale degli uomini rossi. La
diversa gravità del pianeta permetteva a Carter di sfoggiare
capacità superumane, che ben presto lo rendono una pedina importante
nel gioco fra le parti.
C'è un momento in John
Carter, in cui si intravede una tempesta di sabbia sul paesaggio
riarso del pianeta Marte: una scena breve, fuggevole, che non ha
particolari conseguenze sulla trama e che si rischia quasi di
tralasciare e dimenticare, al punto che persino il ricordo è blando,
sovrastato dalle tanti visioni che il film veicola. E' dunque
piacevole pensare che quell'inserto rappresenti una sorta di
strizzatina d'occhio, di colpo di gomito che Stanton scambia in
maniera complice con il collega Brad Bird, che in Mission
Impossible: Protocollo fantasma mette pure in scena – e in
modo decisamente più rilevante rispetto alla trama – una tempesta
dello stesso tipo.
Al di là delle
fantasticherie o delle speranze cinefile, resta comunque il fatto che
gli ultimi due mesi hanno visto due grandi nomi della Pixar debuttare
nel Live Action, confermando come la factory disneyana sia di per sé
una perfetta incubatrice di talenti narrativi di cui il cinema “dal
vero” sempre più abbisogna, ma anche di come fortunatamente gli
steccati siano caduti, complice il fatto che il moderno cinema
digitale è sempre più un qualcosa che utilizza l'animazione anche
quando la sua parvenza è di volgere al realistico (la differenza è
tutta concettuale, prima ancora che pratica).
Nel caso di John
Carter, poi, entra in scena una dinamica tutta interna al film,
un delizioso pastiche che mescola gli stilemi più classici
dell'avventura ai moderni ritrovati tecnologici, fra grandeur
e ingenuità: il riferimento non è tanto alla filiazione dagli
antichi testi di Burroughs, quanto il fatto che lo stesso autore sia
chiamato in causa esattamente come avveniva con il Kipling di L'uomo
che volle farsi re, così magistralmente trasposto
da John Huston. Il risultato generale non si limita dunque a
trasporre semplicemente un testo altrui, ma a fare dello stesso una
cartina di tornasole di una concezione cinefila basata sulla
scomposizione e ricomposizione di un sistema di riferimenti
trasversale a diverse forme espressive. Pura lezione Pixar, insomma,
la stessa che rende i loro cartoon espressioni così straordinarie di
un cinema “pieno” e capace di andare al di là dell'emozione
veicolata nella singola storia, perché emblema di un cinema che
conosce perfettamente i moduli narrativi del passato e del presente,
e sa dunque ricombinarli e reinventarli.
Così, Stanton e Bird
davvero dividono un'idea di spettacolo profondamente addentro alle
dinamiche del presente, con quelle creature digitali curate e quei
totali che inquadrano realtà ciclopiche che devono sovrastare la
fantasia dello spettatore imponendosi con la loro forza; ma, allo
stesso tempo, si tratta di uno spettacolo profondamente retrò,
avventura d'antan mascherata di nuovo, dove è possibile scatenare la
risata all'interno di una situazione più seria, dove la leggerezza
di tono si fa strada fra l'ossessione perfezionista dell'effetto e
dove i generi di riferimento (la spy story di Mission: Impossible
e l'avventura o il fantasy di John Carter) si rivelano nella
loro essenza più intima: grandi contenitori di idee del passato,
format dinamici, liquidi, capaci di assorbire i maggiori scossoni e
di apparire sempre diversi pur essendo sempre uguali.
Certo, non va negato che
in questo caso il gioco funziona bene ma non perfettamente, a causa
di una storia che fatica a rientrare nella pur lunga durata e che
perciò costringe a compressioni e esemplificazioni in alcuni punti,
ma in ogni caso resta forte l'idea di un processo creativo che è
pura assimilazione della tradizione. Pertanto, il film deve trovare
il suo baricentro all'interno del complesso sistema di riferimenti
codificato dai generi a cui guarda, esattamente come Carter deve
reimparare letteralmente a vivere: il suo arrivo su Marte diventa
così un'autentica dichiarazione d'intenti per Stanton, che mette il
suo eroe nella condizione di dover ricalibrare il modo in cui
cammina, lo spinge a assimilare una nuova lingua e ben presto
affonderà nel suo passato spingendolo a abbandonare il sogno tutto
materiale di una miniera d'oro (pretesto cardine dell'avventura
d'annata) per comprendere e combattere i demoni interiori legati alla
morte dei congiunti.
Una volta compiuta questa
rinascita, il film può finalmente permettersi di mettere in scena
cliché e rimandi con l'entusiasmo della prima volta: una frontiera
da conquistare in puro stile western, un passato e un presente di
guerre come in un film bellico, l'incipt “vittoriano” alla
Sherlock Holmes, mondi degni di Star Wars, una
principessa in pericolo come nelle fiabe, una tribù che guarda ai
Na'vi di Avatar
e un simpatico cucciolone alieno che è pura filiazione degli
irresistibili comprimari di matrice disneyana. Tutto crea assonanze e
risonanze con l'immaginario da cui John Carter è generato e che a
sua volta (come antico testo letterario) ha finito inevitabilmente
per produrre e che ora richiama a sé.
L'unico elemento davvero
anomalo sembra rappresentato dalla casta para-sacerdotale dei
manipolatori, che riverberano un disegno più cosmico e finiscono per
incarnare tutto sommato lo spirito di sintesi di queste avventure,
grazie alla natura proteiforme e cangiante che permette di giocare
con le aspettative dei personaggi e persino dello spettatore.
L'intera storia, in fondo, non è che il frutto delle loro azioni,
sono loro a determinare l'arrivo di Carter su Marte, sono sempre loro
a veicolare le azioni belliche dei popoli in guerra e non a caso sono
ancora loro a non patire un'autentica sconfitta finale, perché
l'utilizzo e il rovesciamento dei cliché deve sempre avvenire
all'interno di coordinate narrative che guardino al genere nella sua
integralità e purezza.
John Carter
(id.)
Regia: Andrew Stanton
Sceneggiatura: Andrew
Stanton, Mark Andrews, Michael Chabon (basato sui romanzi di Edgar
Rice Burroughs)
Origine: Usa, 2012
Durata: 132'
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