"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 14 marzo 2012

John Carter

John Carter

Il giovane Edgar Rice Burroughs viene convocato a casa dello zio John Carter, scomparso di recente. L'uomo gli ha lasciato in eredità il suo patrimonio e gli ha affidato un diario nel quale gli racconta storie incredibili di un suo viaggio su Marte, dove si era innamorato della principessa Deja Thoris, promessa al tiranno del regno rivale degli uomini rossi. La diversa gravità del pianeta permetteva a Carter di sfoggiare capacità superumane, che ben presto lo rendono una pedina importante nel gioco fra le parti.


C'è un momento in John Carter, in cui si intravede una tempesta di sabbia sul paesaggio riarso del pianeta Marte: una scena breve, fuggevole, che non ha particolari conseguenze sulla trama e che si rischia quasi di tralasciare e dimenticare, al punto che persino il ricordo è blando, sovrastato dalle tanti visioni che il film veicola. E' dunque piacevole pensare che quell'inserto rappresenti una sorta di strizzatina d'occhio, di colpo di gomito che Stanton scambia in maniera complice con il collega Brad Bird, che in Mission Impossible: Protocollo fantasma mette pure in scena – e in modo decisamente più rilevante rispetto alla trama – una tempesta dello stesso tipo.

Al di là delle fantasticherie o delle speranze cinefile, resta comunque il fatto che gli ultimi due mesi hanno visto due grandi nomi della Pixar debuttare nel Live Action, confermando come la factory disneyana sia di per sé una perfetta incubatrice di talenti narrativi di cui il cinema “dal vero” sempre più abbisogna, ma anche di come fortunatamente gli steccati siano caduti, complice il fatto che il moderno cinema digitale è sempre più un qualcosa che utilizza l'animazione anche quando la sua parvenza è di volgere al realistico (la differenza è tutta concettuale, prima ancora che pratica).

Nel caso di John Carter, poi, entra in scena una dinamica tutta interna al film, un delizioso pastiche che mescola gli stilemi più classici dell'avventura ai moderni ritrovati tecnologici, fra grandeur e ingenuità: il riferimento non è tanto alla filiazione dagli antichi testi di Burroughs, quanto il fatto che lo stesso autore sia chiamato in causa esattamente come avveniva con il Kipling di L'uomo che volle farsi re, così magistralmente trasposto da John Huston. Il risultato generale non si limita dunque a trasporre semplicemente un testo altrui, ma a fare dello stesso una cartina di tornasole di una concezione cinefila basata sulla scomposizione e ricomposizione di un sistema di riferimenti trasversale a diverse forme espressive. Pura lezione Pixar, insomma, la stessa che rende i loro cartoon espressioni così straordinarie di un cinema “pieno” e capace di andare al di là dell'emozione veicolata nella singola storia, perché emblema di un cinema che conosce perfettamente i moduli narrativi del passato e del presente, e sa dunque ricombinarli e reinventarli.

Così, Stanton e Bird davvero dividono un'idea di spettacolo profondamente addentro alle dinamiche del presente, con quelle creature digitali curate e quei totali che inquadrano realtà ciclopiche che devono sovrastare la fantasia dello spettatore imponendosi con la loro forza; ma, allo stesso tempo, si tratta di uno spettacolo profondamente retrò, avventura d'antan mascherata di nuovo, dove è possibile scatenare la risata all'interno di una situazione più seria, dove la leggerezza di tono si fa strada fra l'ossessione perfezionista dell'effetto e dove i generi di riferimento (la spy story di Mission: Impossible e l'avventura o il fantasy di John Carter) si rivelano nella loro essenza più intima: grandi contenitori di idee del passato, format dinamici, liquidi, capaci di assorbire i maggiori scossoni e di apparire sempre diversi pur essendo sempre uguali.

Certo, non va negato che in questo caso il gioco funziona bene ma non perfettamente, a causa di una storia che fatica a rientrare nella pur lunga durata e che perciò costringe a compressioni e esemplificazioni in alcuni punti, ma in ogni caso resta forte l'idea di un processo creativo che è pura assimilazione della tradizione. Pertanto, il film deve trovare il suo baricentro all'interno del complesso sistema di riferimenti codificato dai generi a cui guarda, esattamente come Carter deve reimparare letteralmente a vivere: il suo arrivo su Marte diventa così un'autentica dichiarazione d'intenti per Stanton, che mette il suo eroe nella condizione di dover ricalibrare il modo in cui cammina, lo spinge a assimilare una nuova lingua e ben presto affonderà nel suo passato spingendolo a abbandonare il sogno tutto materiale di una miniera d'oro (pretesto cardine dell'avventura d'annata) per comprendere e combattere i demoni interiori legati alla morte dei congiunti.

Una volta compiuta questa rinascita, il film può finalmente permettersi di mettere in scena cliché e rimandi con l'entusiasmo della prima volta: una frontiera da conquistare in puro stile western, un passato e un presente di guerre come in un film bellico, l'incipt “vittoriano” alla Sherlock Holmes, mondi degni di Star Wars, una principessa in pericolo come nelle fiabe, una tribù che guarda ai Na'vi di Avatar e un simpatico cucciolone alieno che è pura filiazione degli irresistibili comprimari di matrice disneyana. Tutto crea assonanze e risonanze con l'immaginario da cui John Carter è generato e che a sua volta (come antico testo letterario) ha finito inevitabilmente per produrre e che ora richiama a sé.

L'unico elemento davvero anomalo sembra rappresentato dalla casta para-sacerdotale dei manipolatori, che riverberano un disegno più cosmico e finiscono per incarnare tutto sommato lo spirito di sintesi di queste avventure, grazie alla natura proteiforme e cangiante che permette di giocare con le aspettative dei personaggi e persino dello spettatore. L'intera storia, in fondo, non è che il frutto delle loro azioni, sono loro a determinare l'arrivo di Carter su Marte, sono sempre loro a veicolare le azioni belliche dei popoli in guerra e non a caso sono ancora loro a non patire un'autentica sconfitta finale, perché l'utilizzo e il rovesciamento dei cliché deve sempre avvenire all'interno di coordinate narrative che guardino al genere nella sua integralità e purezza.


John Carter
(id.)
Regia: Andrew Stanton
Sceneggiatura: Andrew Stanton, Mark Andrews, Michael Chabon (basato sui romanzi di Edgar Rice Burroughs)
Origine: Usa, 2012
Durata: 132'

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