J. Edgar
Stati Uniti d'America,
anni Trenta. John Edgar Hoover è un giovane ossessionato
dall'anticomunismo e dal rispetto dei valori che ritiene fondativi
rispetto alla sua nazione. Per questo si dedica a una seria lotta al
crimine negli anni del proibizionismo, e crea il Federal Bureau of
Investigation, con cui ottiene i primi risultati fermando gangster
come John Dilllinger. Integerrimo e deciso a tutto per la causa,
Hoover resta saldo al suo posto lungo cinque decenni di storia
americana, mentre i presidenti si avvicendano e gli eventi più
traumatici scuotono la nazione, senza mai farlo recedere dai suoi
propositi. Arrivato alla tarda età, l'uomo ripercorre la storia
della sua vita in forma di biografia, fornendo la sua versione dei
fatti, e i ricordi lo portano a ripercorrere i rapporti con le
persone che più hanno segnato la sua esistenza: sua madre, cui è
legato da un profondo affetto, e il collega Clyde Tonson, con cui
vive una storia d'amore platonico destinata a non trovare mai la sua
realizzazione.
Si parte da un conflitto,
quello fra il personaggio e la Storia: Hoover vuole, pervicacemente,
plasmare il paese secondo la propria idea, ma lo fa con la
giustificazione che questa coincide naturalmente con i valori
fondativi della nazione. La sua figura assume dunque la molteplice
natura del rivoluzionario che intende contrastare la deriva
esistente, del demiurgo che tenta di plasmare la realtà secondo una
propria idea e del conservatore che mira a proteggere i valori non
negoziabili su cui si fonda lo stato. Una struttura a maglie così
strette non ammette deroghe e per questo è lo stesso Hoover a
dettare la sua versione ai posteri, assumendosi il compito di
raccontare e elaborare criticamente quella Storia cui deve infine
rendere conto: lo fa dettando le sue memorie a vari subalterni, che
si avvicendano alla macchina da scrivere esattamente come già i
tempi e le autorità hanno fatto davanti alla sua persona.
Hoover non ha dunque
dubbi circa il suo ruolo di leader, dettato da una sorta di necessità
storica e morale, che ne giustifica la sua presenza e lo rende quindi
un'icona prima ancora che un uomo. Ne consegue che quello fra la
dimensione pubblica e quella privata è il secondo fronte di
conflitto che il film naturalmente apre: la storia personale si
intreccia infatti a quella dell'America del Novecento, di cui vengono
esposti i traumi, favorendo una lettura metaforica di una nazione che
arriva a sacrificare la propria innocenza e la propria realizzazione
personale in favore di un disegno più grande e che ritiene,
soggettivamente, più giusto.
Non che tutto sia così
didascalico, beninteso, Eastwood riesce infatti a far provare
sentimenti ambivalenti per questa figura (e questa nazione), di cui
mette in luce le debolezze e i fallimenti, ma anche il carisma e una
certa qual grandezza, e che alle contraddizioni accompagna una
singolare capacità di piegare la morale a una visione di parte, dove
la realizzazione del fine trova sempre giustificazione dei mezzi
impiegati. Il film instaura con questa stolida certezza una
dialettica molto raffinata, fino ad aprire degli inserti in cui
emergono possibili letture alternative, che rinnegano totalmente la
visione “ufficiale” cara a Hoover e che sembrano invece
evidenziare l'inganno su cui si regge la sua fama, spesso
attribuibile a meriti altrui e a una sapiente opera di propaganda.
L'approccio è
classicamente critico, simile a quello di registi come Raoul Walsh,
per come unisce la grandiosità della dimensione pubblica a una
visione privata che non è necessariamente misera, ma che di sicuro è
complessa e tragica, e che affonda nei rapporti interpersonali, nel
legame fortissimo con quella figura materna che sembra quasi una
presenza fuggevole e secondaria, ma che invece è centrale nella
formazione e nell'educazione del protagonista. Pertanto, come il
personaggio offre livelli di lettura molteplici, anche il film sfugge
a una classificazione di genere immediata, e si pone come racconto
storico che utilizza i codici espressivi del noir, dove la realtà
non è necessariamente quella che sembra.
Il terzo conflitto è
dunque quello fra l'aspirazione professionale e la sfera
sentimentale, dove più forti si annidano gli inganni e i traumi e
dove la formula espressiva cara a Eastwood riesce a trovare maggiori
slanci. Hoover diventa così l'attore che recita una parte
assegnatagli tanto dall'irreprensibile educazione materna, quanto
dalle aspettative che la società nutre nei suoi confronti. Per
questo egli rifiuta i sentimenti che pure cova per il collega Clyde
e, nel muoversi sempre nella direzione che il ruolo gli impone,
denuncia a un livello profondamente intimo la contraddizione della
sua figura pubblica e i dilemmi che, dalla dimensione sentimentale,
approdano infine a quella morale.
In questo modo Hoover
finisce per opporsi esplicitamente al dettame eastwoodiano della
condivisione in quanto chiave di volta per capire realmente la
realtà: Hoover preferisce al contrario costruire una realtà
artefatta e schematica in cui la missione giustifica ogni cosa, e
dove sono i piccoli dettagli a rivelarne la sostanziale
inadeguatezza. Dettagli che, nell'ottica eastwoodiana, non possono
che essere quelli che passano per la dimensione umana e fisica:
piccoli gesti, sguardi, mani che si stringono quasi fuggevolmente e
che non ammettono mai una legittimazione oggettiva attraverso
l'espressione verbale, che può invece portare le tensioni a
esplodere, esplicitando la grande forza emotiva del racconto.
Ma – e non è aspetto
da sottovalutare – questa è anche una storia di dedizioni, di
uomini e donne che nella devozione cui sono costretti a una causa,
restano insieme in virtù di un tacito accordo, come accade appunto a
Edgar e Clyde, ma anche a Edgar e alla sua segretaria Helen. L'ultimo
conflitto è dunque quello fra l'apparenza dei ruoli e la reale
sostanza dei legami, quello che probabilmente rende in maniera più
evidente la grandezza dei personaggi e insieme la loro statura
tragica. La grandiosità quasi epica dell'insieme si riequilibra
dunque negli elementi più “piccoli” e significativi, e in questo
modo il film raggiunge una perfetta sintesi fra la più recente fase
mainstream del cinema di Clint Eastwood e lo spessore
intimista dei suoi capolavori.
J. Edgar
(id.)
Regia: Clint Eastwood
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Dustin
Lance Black
Origine: Usa, 2011
Durata: 137'
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