13 assassini
Giappone, epoca feudale. Un samurai si toglie la vita praticando il seppuku, in segno di protesta alle offese ricevute dal crudele Naritsugu, fratellastro dello Shogun. Naritsugu è destinato a succedere ben presto al signore di quelle terre e la sua natura instabile e violenta lo candida seriamente a diventare un rischio per la pace. Il valoroso samurai Shinzaemon Shimada viene quindi incaricato di comporre una squadra per eliminare Nartisugu. Il gruppo di 13 assassini viene così formato e sebbene la sua missione si concretizzi come un vero suicidio per l'ingente numero di truppe disposte a difendere Naritsugu, nessuno decide di tirarsi indietro.
Il rigore formale incarnato dal rituale del seppuku, dal quale il film prende le mosse, trova un perfetto controcanto nella regia di un Takashi Miike deciso ad agire con piglio rispettoso nei confronti dei suoi personaggi e del classico in bianco e nero di cui questo 13 assassini costituisce un eccellente remake. La costruzione della storia è quindi lineare e segue il formarsi del gruppo fino all'esplodere della battaglia finale (che occupa l'intera seconda parte del racconto). Così come il gesto estremo del darsi la morte arriva a interrompere e, nello stesso tempo, a definire la nettezza e l'asciuttezza dei gesti che compongono il rituale suicida, allo stesso modo il film procede attraverso una prima parte quasi geometrica nella precisione della messinscena. Abbandonato ogni orpello visivo, Miike va dritto alla sostanza dei sentimenti, costruendo l'intero racconto secondo una serie di dicotomie immediatamente percepibili.
Abbiamo dunque la staticità della prima parte contrapposta al dinamismo della seconda e la brutalità immotivata di Naritsugu che si scontra con la fierezza dei valori perseguiti dai samurai. Allo stesso tempo, però, possiamo anche chiamare in causa l'intera struttura narrativa come un ideale controcampo al già citato seppuku, in quanto momento di sostanziale ribellione alla fissità dei ruoli imposti da una tradizione che assolve il Signore dalle sue malefatte in virtù del ruolo che egli ricopre e spinge gli uomini d'onore a cercare di ricomporre la propria integrità unicamente nel suicidio. La segretezza della missione diventa quindi non soltanto una mossa politicamente strategica e propedeutica al mantenimento di quella pace che Naritsugu minaccia con la sua sola presenza, ma anche un gesto di ribellione, per la riaffermazione di una volontà e un ordine che arrivino a lasciar implodere il sistema attaccandone la sommità. Non a caso il titolo del film è esplicito a riguardo: i 13 incaricati dell'omicidio non sono eroi al servizio di un ideale più alto, ma semplicemente degli assassini. L'icasticità della loro definizione ne circoscrive le gesta in un perimetro profondamente umano, prima ancora che ideale o storico-politico.
Ciò che infatti sotterraneamente Miike compie è una ridefinizione dei parametri, per effetto dei quali non soltanto il Signore diventa il “cattivo” da abbattere e gli assassini si stagliano nel ruolo degli eroi, ma addirittura sono i concetti più alti di etica e pietas a essere sovvertiti. Naritsugu è, più che un villain classicamente inteso un agente del Caos, che finisce con il determinare come naturale il bagno di sangue del finale. Lo stesso bagno di sangue, però, è conseguenza inscindibile dalla missione cui si sono votati i 13 e costituisce al tempo stesso una concretazione del loro spirito guerriero e una rigenerazione vitale dell'ordine attraverso l'eliminazione del Caos attraverso lo stesso.
Ciò che dunque il film mette in scena è, esattamente come il seppuku iniziale, un percorso che giunge al Caos per impedire lo stesso e che, conseguentemente, trova la sua definizione e la sua costruzione nella distruzione. Ciò che il regista persegue è evidente: egli constata come la follia governi il mondo (con particolare accenno polemico a chi detiene le redini del sistema) e come ad essa debba contrapporsi una forza altrettanto devastante e violenta quale è quella della solidarietà. Seguendo una direttrice quasi miliusiana, Miike empatizza con i suoi assassini e ne celebra le gesta esaltandone lo spirito di coesione e di reciproca solidarietà, e la volontà sucida come un ideale di bellezza e di amore che li pone come angeli caduti di un sistema votato alla rovina.
Il lungo massacro finale diventa così non soltanto il momento in cui questi sentimenti trovano la loro più alta celebrazione, ma anche quello che permette alla nobiltà del modello di fondersi con lo sguardo anarchico del regista: la coreografia di corpi smembrati e fendenti di spada descrive traiettorie che ridisegnano lo spazio scenico come autentico luogo di messinscena della distruzione, secondo una direttrice che è sì lirica, ma anche profondamente libera e che diventa autentico sabotaggio della visione. Si crea così una sintesi felice fra la caratura epica del racconto e un gusto quasi demistificatorio che rende il tutto astratto e ai limiti del cartoonesco (pensiamo alla autentica cascata di sangue che invade il set), pur senza mai far venire meno la fierezza dei combattenti (le cui gesta strappano applausi a scena aperta!).
Miike compie dunque con scaltrezza un doppio passaggio: celebra gli elementi cari alla storia, ma esplora le possibilità offerte da una scena complicata come quella della battaglia, beandosi del sensazionalismo della violenza, e trovando così la sua compostezza formale nel caos del massacro. Come in molte altre sue pellicole, insomma, l'anarchia visionaria e compositiva si sposa con uno sguardo che, seppur divertito, non nasconde una certa malinconia di fondo per un eden perduto che solo nel caos apparente può tornare a brillare. In sala dal 10 giugno.
13 assassini
(Jûsan-nin no shikaku/13 assassins)
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Daisuke Tengan, basata sullo script originale di Kaneo Ikegami
Origine: Giappone, 2010
Durata: 126 minuti
1 commento:
visto in sala, non piaciuto. troppo compiaciuto e senza guizzi, per i miei gusti...rimpiango il miike più "comunicativo" di opere considerate più "estreme"...
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