Non ci sono in giro molte saghe come Rocky: una esalogia scritta, interpretata e in parte diretta dallo stesso attore/autore lungo un arco di tempo trentennale, che diventa quindi progetto estetico, etico, filosofico e, perché no, anche commerciale della sua carriera: ne riassume gli stilemi visivi, ma anche il precipitato umano, lo sguardo sul reale e, inevitabilmente, anche i detour imprevisti, quelli che magari fanno anche storcere il naso.
L’attore/autore in questione è naturalmente Sylvester Stallone, per molto tempo ricondotto soltanto a un’idea di cinema muscolare: non che qui si voglia negare che Stallone sia stato quello, anzi, per molto tempo proprio lui ha cavalcato l’estetica della “ricostruzione del corpo” sulla quale l’immaginario action degli Anni Ottanta si è inequivocabilmente assestato (pensiamo a definizioni come “rambismo”, da un altro dei suoi popolari personaggi), e Rocky pure sopporta sulla sua figura autentiche metamorfosi fisiche, che non sono solo quelle del tempo, ma, più propriamente, quelle che portano un personaggio a diventare un’icona di epoche diverse (si veda anche l’insistito ritornare sulla sua statua).
Purtuttavia, rivisto oggi Rocky appare come qualcosa di più. Un progetto che ha avuto la fortuna di non subire i vari scossoni cui veniva di volta in volta sottoposto e che ci ha regalato almeno due autentici capolavori, nella forma del primo film (Rocky, appunto, diretto da John G. Avildsen nel 1976) e dell’ultimo, inaspettato, malinconico, potentissimo, da amare incondizionatamente, Rocky Balboa (diretto da Stallone nel 2006). Quello tracciato dai film è un percorso che descrive anche la parabola di un attore passato da simbolo di cinema indipendente ad autentico divo “istituzionale”, fino al più recente (seppur parziale) declino.
Rivedere Rocky come un filtro che aiuta a comprendere il cammino professionale di Stallone è dunque interessante: sei film, quattro dei quali diretti dallo stesso attore, che possono essere considerati una cartina di tornasole del rapporto fra Stallone e la realtà. Rocky, in questo senso è una autentica corazza, un ruolo che l’attore veste per porsi al di fuori di un mondo che lo sovrasta. Sebbene sia sempre latente nella serie una sorta di bonario paternalismo, tipico di una concezione conservatrice (nel senso assolutamente non deteriore del termine, ma che fa piuttosto riferimento a una certa natura pragmatica dell’essere americani), il personaggio non appare mai patetico e, negli ultimi capitoli, nemmeno senescente. Al contrario, fin dal primo film ci si rende perfettamente conto di come la sua parlata incerta (nelle edizioni originali), il suo agire apparentemente “lento” altro non siano che caratteristiche connaturate a uno status che gli permette di essere scentrato rispetto al reale quel tanto che basta per avere uno sguardo meno focalizzato sul particolare e più invece sull’universale. Rocky è una specie di ibrido fra un certo idealismo americano che sogna una grande felicità (l’amore assoluto per la moglie Adrian, la conquista del titolo di campione dei pesi massimi di pugilato, la visione di una famiglia patriarcale dove nessuno prevarica l’altro e i contrasti si possono ricomporre intorno al quadrato del ring, i rivali che diventano amici) e una certa tendenza tipicamente umana al sopravvivere senza aspettarsi nulla di più del poco che si ha. Merito di un interesse innato di Stallone per realtà sottoproletarie, dove si realizza la sintesi fra una sincerità imprevedibile dell’esistere e una tensione alla sopravvivenza e al sacrificio dal sottotesto marcatamente cristologico che conferisce immediatamente statura tragica ai suoi antieroi. L’effetto di questi accostamenti è dirompente: Rocky ottiene l’occasione della vita per un autentico colpo di fortuna, ma ogni sua impresa è poi caratterizzata da volontà di ferro e da fatiche che diventano autentiche piaghe. Il personaggio stesso si segna e prega prima di ogni incontro stabilendo una precisa ritualità sacrificale.
Il dualismo del personaggio lo porta a riscuotere crediti per il signorotto locale, ma senza alzare un dito sui debitori, a metà strada fra la piccola criminalità e quella vita di strada che permette di muoversi placidamente nel cuore pulsante della città. Philadelphia d’altro canto è l’altra grande protagonista della saga: le coordinate emotive che tracciano il percorso umano di Rocky (l’amore per Adrian, il rapporto filiale con l’allenatore Micky e quello fraterno con il burbero cognato Paulie e l’ex rivale Apollo, fino agli scontri burrascosi con il figlio Robert e il figlioccio sportivo Tommy Gunn) traggono forza dall’ambiente, del quale Rocky è figlio, ma dal quale egli tenta anche di riscattarsi.
Ecco, un tema fondamentale nella saga è proprio questo: tutti i personaggi discendono in modo straordinariamente netto dall’ambiente nel quale sono immersi, ma allo stesso tempo manifestano una forte insofferenza verso lo stesso. Nessuno fa eccezione, nemmeno (e soprattutto gli avversari): Apollo Creed si bea infatti del suo status mediatico che ne fa un’icona americana, ma allo stesso tempo non può evitare che lo stesso mondo commerciale ne determini le ultime battute, spingendolo a chiedere la rivincita a Rocky (nel secondo capitolo) e a sfidare Ivan Drago (nel quarto). Clubber Lang (nel terzo film) è una sorta di contraltare al Rocky del passato, un rigurgito dei bassifondi che ricorda al campione i trascorsi e la fame di vittoria. Drago è il prodotto di un’industria alla quale infine egli si ribella per ottenere una vittoria che vuole come soltanto sua. E’ interessante il fatto che anche quando Rocky viene decontestualizzato rispetto alla realtà di Philadelphia, quando gli elementi iconici (la scalinata del museo, la fanfara di Bill Conti) vengono a mancare e il personaggio viene snaturato in un’icona muscolare, veloce, inarrestabile, opposta al tenace ma bonario atleta degli esordi, quando il tono stesso della saga si immerge nella propaganda reaganiana e l’estetica ammicca al videoclip e a un certo kitsch tipicamente anni Ottanta, questa umanità continui pervicacemente a uscire fuori. D’altronde è grazie ad essa che il pubblico accetta le imprese e le piccole incongruenze di un campione fatto risorgere continuamente, si affeziona alle sue paure e agli eccellenti comprimari, frutto di felicissime scelte di casting.
Perché Rocky, in fondo, è la storia di una concezione della vita che riesce a superare i limiti e lotta contro le avversità, contro il tempo, la tecnologia, i pronostici per dimostrare che la volontà compie a volte i miracoli e riunisce la gente. In altri tempi si sarebbe chiamata epica.
Sito ufficiale di Rocky (in inglese)
Pagina di Wikipedia sulla saga di Rocky
Pagina di Wikipedia su Rocky Balboa (personaggio)
Pagina di Wikipedia su Sylvester Stallone
Sito ufficiale di Sylvester Stallone
Sito italiano su Sylvester Stallone
Trailer di Rocky
Trailer di Rocky II
Trailer di Rocky III
Trailer di Rocky IV
Trailer di Rocky V
Trailer di Rocky Balboa
1 commento:
Bravo Davide, un post giusto e sacrosanto. Concordo pienamente con te riguardo all'ultimo Rocky, che molti hanno deriso, ma che anche io ho trovato sincero, potente, e perfino commovente.
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