"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 22 maggio 2009

Lupin III: Green vs Red

Lupin III: Green vs Red

L’annuncio di Lupin III di voler rubare il misterioso “cubo di ghiaccio” coincide con la comparsa di numerosi imitatori che emulano l’aspetto del celebre ladro e creano confusione nelle forze di polizia. Fra i tanti si distingue Yasuo, un nuovo Lupin con la “giacca verde”, deciso a rubare il cubo per superare il modello e ottenere così il suo nome e la sua identità: lo scontro con il vero Lupin in giacca rossa diventa quindi inevitabile.

Da molti anni, ormai, l’avventura animata di Lupin III prosegue attraverso i lungometraggi, che sono diventati a tal punto un appuntamento fisso per il pubblico giapponese, da rendere il celebre ladro creato da Monkey Punch una icona popolare, con la quale è possibile identificare un certo sentire comune, che vede gli spettatori uniti nel sognare l’afflato libertario che le innocue avventure in giro per il mondo, alla caccia di favolosi tesori, inevitabilmente riverberano.

Nel 2007 il personaggio ha compiuto 40 anni e per l’occasione è stato creato questo originale OAV (ovvero un lungometraggio per il solo circuito dell’Home Cinema), trasmesso recentemente in Italia dal canale digitale Hiro dopo aver fatto molto parlare di sé a causa dell’interessante presupposto: Lupin in “giacca verde” contrapposto alla versione in “giacca rossa”. I non avvezzi potrebbero non capire la posta in gioco, che, nei fatti, si concretizza in un confronto fra le prime “verdi” versioni animate di Lupin (quelle a cui aveva partecipato anche Hayao Miyazaki), generalmente considerate più cupe e d’autore, e quella invece “rossa” e popolare che ha tenuto banco per gli ultimi trent’anni: un particolare che comunque non va dimenticato è che in origine la giacca era effettivamente rossa e il cambiamento di colore avvenne perché si riteneva il verde più idoneo per la resa espressiva della versione animata. Si è perciò creato un curioso cortocircuito, per il quale la versione “verde”, variazione dell’originale, è generalmente indicata come quella più corrispondente alla specificità particolare di Lupin.

L’avventura animata parte da un presupposto non dissimile, e affronta la perdita d’identità e la necessità di ritrovare il vero nel caos. Lo fa con una regia che sperimenta e si concede un incedere lento, quasi malinconico, decisamente poco commerciale, dove Lupin si concretizza in quanto icona popolare e per questo annulla la propria dimensione umana. Di lui non si sa nulla, né la sua nazionalità né il vero nome, le sue musiche (quelle delle sue avventure animate) sono diffuse da televisioni e altoparlanti e questo lo rende più vicino a una dimensione ideale che alla realtà, ne favorisce una qualità quasi metaforica, quasi extradiegetica, tanto da elevarlo a paradigma di una situazione nazionale che sta cambiando e sta perdendo la propria specificità. Il discorso è articolato secondo due direttive, una puramente teorica e interna al personaggio e alla sua storia, e una invece storico-sociologica che applica lo sbandamento percettivo all’identità del Giappone.

Nel primo caso, quindi, ci troviamo di fronte a numerosi Lupin che, pur ponendosi come emulatori, sono comunque individui in cerca di una identità e che si proteggono a vicenda, tentano di compiere imprese straordinarie, ma anche di non infangare il nome del ladro (quando uno di loro viene arrestato per un banale taccheggio, gli altri lo redarguiscono severamente). I divertenti titoli di testa passano in rassegna alcuni di questi imitatori, i quali altri non sono che le differenti caratterizzazioni animate che il personaggio ha subito nel corso degli anni, attraverso tratti ora più tondeggianti, ora più stilizzati, fino al celeberrimo esperimento in “giacca rosa” della terza serie tv (dove peraltro qualcuno ricorderà una celebre sequenza in cui Lupin sguinzagliava molti cloni, presente anche nel filmato italiano della sigla). A questi si uniscono le emulazioni che hanno pescato dall’immaginario sedimentato dal ladro nel corso degli anni (uno dei cloni ricorda il Nabeshin di Excel Saga, che costituiva proprio un omaggio a Lupin) e una serie di riferimenti espliciti a molte avventure del passato, come il celebre lungometraggio Il castello di Cagliostro. Gioverà anche ricordare che il nome del più tenace fra questi imitatori, Yasuo, richiama sia il primo doppiatore giapponese del personaggio (Yasuo Yamada), che il primo designer che abbia mai lavorato su di lui (Yasuo Otsuka). Il “vero” Lupin (con la nuova e poco esaltante voce italiana di Stefano Onofri che sostituisce il compianto Roberto Del Giudice) per ribadire la propria autenticità, deve quindi superare tutti i possibili emulatori: non essendo infatti dotato di elementi che ne certifichino la sua specificità (dal momento che nome e nazionalità del ladro sono sconosciuti), può esistere soltanto primeggiando e adeguando quindi il proprio essere all’idea generalmente condivisa di Lupin (colui che esce sempre vincitore dalle sfide). Di qui il confronto, che si articola attraverso la dicotomia con Yasuo.

Il concetto è abbastanza chiaro: Lupin è unico, ma anche molteplice e comprende una varietà di uguali che non sono comunque sufficienti a ribadire la sua unicità, poiché egli è un’idea, prima ancora che una persona. Un’idea che affascina e crea emulazione in una generazione in cerca di ideali e modelli: il discorso non è dissimile da quelli spesso evidenziati nelle opere di Hideaki Anno (regista di Neon Genesis Evangelion) e anche qui nasconde una feroce critica al presente.

La seconda direttiva su cui si articola il racconto, dunque, investe direttamente la società giapponese post-11 settembre, che ha abbracciato l’idea della guerra globale e ha perso la propria natura non belligerante per abbracciare un pensiero reazionario (collegato al cubo di ghiaccio). e veleggia verso il caos. Il racconto non manca di esporre questa tesi in maniera esplicita, criticando il nuovo corso del Giappone, e in questo modo ribadisce come Lupin, nel suo incarnare un’ideale di libertà e avventura, si configuri come una sorta di controverso custode del dualismo caro alla società tutta, che non disdegna il confronto anche armato, ma segue le regole. Un’icona in bilico su un delicato equilibrio, che ora sta per rompersi.

L’idea di elevare un’icona senza reale identità a paradigma di una società che l’identità la sta perdendo è la traccia più forte che narrativamente questo special offre al suo pubblico. La tesi si riverbera poi su una messinscena che offre inserti psichedelici e onirici, e un intero passaggio a matita, dove il tratto diventa più grottesco e vicino alle caratterizzazioni del fumetto originale. L’incedere è quindi stimolante tanto più riesce a suscitare interrogativi nel pubblico e a porlo di fronte alla necessità di comprendere il valore di quanto sta guardando e dell’immaginario nel quale si sta specchiando.

Il confronto finale dove la posta in gioco diventa il superamento reciproco per il possesso del nome di Lupin, non diventa quindi soltanto quello fra le due più celebri concezioni del personaggio, ma anche una possibile espiazione che il Giappone stesso deve compiere prima di perdere definitivamente la propria identità e in questo le due anime del racconto (quella critica verso il presente e quella autocelebrativa nei confronti dell’icona e del suo passato) infine si ritrovano, dando forma a un film atipico e intelligente.

Lupin III: Green vs Red
(id.)
Regia: Shigeyuki Miya
Sceneggiatura: Toshimichi Okawa
Origine: Giappone, 2007
Durata: 80’

Pagina del film dal sito ufficiale di Lupin III
Green vs Red su Anime News Network
Sito italiano dedicato a Lupin III
Altro sito dedicato
Forum italiano di Lupin III

giovedì 14 maggio 2009

Star Trek

Star Trek

Dopo che suo padre George è morto in una trappola ordita da un’astronave romulana, il giovane James Tiberius Kirk conduce un’adolescenza irrequieta, fino a quando non gli viene offerto di arruolarsi nella Flotta Stellare per seguire le orme dell’illustre genitore e dimostrare il suo talento. La prima missione arriva tre anni dopo, quando viene varata la nuova astronave USS Enterprise: il pianeta Vulcano è infatti minacciato dalla stessa astronave romulana responsabile della morte di George Kirk. Nero, comandante romulano, ha attraversato lo spazio-tempo attraverso un’anomalia e ora intende prevenire la distruzione del suo pianeta scatenando un’apocalisse galattica che disintegri gli altri mondi, il primo dei quali sarà proprio Vulcano. La lotta contro il nemico futuribile è dura e James deve sopportare la rivalità con il primo ufficiale vulcaniano Spock, seguace della logica, che pure si ritrova impotente ad assistere alla distruzione del suo pianeta.

C’è una certa qual ironia nel fatto che a rivitalizzare la saga di Star Trek sia stato chiamato un autore dichiaratamente fan di Star Wars, epopea che per anni è stata considerata “rivale” di quella dell’Enterprise. In realtà è sufficiente assistere alla proiezione per rendersi conto del fatto che JJ Abrams, una volta di più, si è rivelato un sagace conoscitore delle regole che formano un immaginario e la sua bravura sta nell’essere riuscito a esplicitare ciò che nessuno aveva mai notato, preso com’era dalla foga di comprendere unicamente lo schieramento al quale annettersi: e cioè che la grandiosità di Star Trek stava anche nella sua capacità di contenere, in nuce, gli elementi di Star Wars. Come tutti i grandi contenitori di immaginario, insomma, l’epopea dell’Enterprise è capace di assorbire e fare proprie le grandi tappe della fantascienza filmata senza tradire mai la propria natura originale (forse molti ricorderanno, peraltro, come il primo Star Trek The Motion Picture del 1979 fosse una rispettosa rilettura anche di 2001: Odissea nello spazio).

D’altronde abbiamo a che fare con un format basato su una dicotomia cuore-ragione ancora una volta incarnata dai personaggi iconici di Kirk e Spock, affaccendati in un perenne conflitto volto a dimostrare unicamente la necessità di giungere a una diarchia, dove le due visioni siano destinate a coesistere e a influenzarsi a vicenda, rendendo il capitano meno impulsivo e il primo ufficiale capace di “imbrogliare” e agevolare emozioni che la ragione tenta troppo spesso di mettere a tacere. Per trovare la chiave di lettura che permetta al nuovo Star Trek di ritornare all’origine di questa dicotomia e svelarne in poco più di due ore la natura onnicomprensiva non serve fare altro che operare un gioco di prospettive, utile a rimescolare le carte quel tanto che basta per creare lo spazio necessario all’innesto della nuova linfa. Ecco dunque un Kirk pesto, inquieto e baro, ma sempre terribilmente in gamba, opposto a uno Spock seguace della ragione, ma combattuto fra le sue due anime, straniero anche fra i vulcaniani, del quale diventerà poi unicamente l’ultimo baluardo. Il tutto immerso in strabilianti sequenze di duelli spaziali che vedono affiancato il realismo un po' algido dell’epopea televisiva (l’Accademia della Flotta Stellare sorge nel realistico scenario di San Francisco) con l’esigenza spettacolare, il calore e la proliferazione di dettagli della saga lucasiana: non sorprende a questo proposito che Star Trek segni un nuovo traguardo sul grande schermo dopo il flop delle ultime terminazioni televisive, laddove per Star Wars accade esattamente il contrario, con la saga di Clone Wars che raccoglie consensi catodici, laddove il cinema sembra decretare ormai la disaffezione del grande pubblico.

Ma la grandiosità del progetto sta anche nella sua capacità di non fermarsi alla semplice rielaborazione del già fatto: Abrams evita anzi la trappola del prequel, il cui finale è già scritto, aprendo una inedita linea temporale che offra davvero una nuova frontiera all’epopea e che le permetta di riacquistare la caratura di paradigma di ogni possibile avventura fantascientifica. Tale è la porosità del nuovo concept da riflettere peraltro le ossessioni tipiche degli autori che evoca e coinvolge. Oltre al classico intreccio spaziale alla Star Trek condito con la spettacolarità di Star Wars, ecco dunque il piacere tipico di Abrams per le narrazioni non lineari, attraverso l’uso dei paradossi, o l’interazione estremamente dinamica dei personaggi (con gli scontri fra Kirk e Spock che si spostano anche sul piano fisico) e la forza quasi “elettrica” dei personaggi (il nuovo Checov, il nuovo Scotty interpretato dal grande Simon Pegg). A tutto questo si unisce la grandeur e l’amore per il sense of wonder degli sceneggiatori Kurtzman e Orci, che sembrano davvero proseguire nel film certi concetti già visti in Transformers, e puntano a un racconto epico che restituisca il senso dell’avventura a tutto tondo, fra grandi scenari spaziali e gag che intervallano i momenti drammatici, restituendo al tutto un piacevole e dimenticato senso di pienezza dal sapore vagamente spielberghiano. E ancora, gli ottimi effetti speciali che vedono in testa, non a caso, la lucasiana Industrial Light & Magic, grazie alla quale il film sfoggia un look straordinariamente “fiabesco”, ma incredibilmente materico, vero, “usato”, tanto da rinnovare il piacere per uno spettacolo bello visivamente, oltre che narrativamente. Non ultimi vanno citati anche gli attori, credibili nei ruoli e che riescono ad affrancare quell’aura blandamente teenageriale evocata dalle prime immagini promozionali per permetterci di vedere, davvero, rivivere sullo schermo i personaggi più amati: dall’energico Chris Pine/Kirk al sorprendente Zachary Quinto/Spock, alla splendida Zoe Saldana/Uhura. La presenza iconica del grande Leonard Nimoy, il “vero” Spock, sancisce poi la malinconica fine di un’epoca e l’entusiastico passaggio di consegne.

Quando gli ingredienti sono di prima qualità, la forza del risultato non è da considerarsi scontata: Abrams è riuscito ad agevolare ogni spinta offerta dai materiali originali e dai bacini di immaginario dai quali ha voluto attingere, traendo il meglio da tutto. In definitiva: è un film di JJ Abrams, è un film di Kurtzman e Orci, è un film di Star Trek e di Star Wars, è il cinema nella sua espressione più bella. Un film emozionante, e ancora di più commovente.

Star Trek
(id.)
Regia: JJ Abrams
Sceneggiatura: Alex Kurtzman e Roberto Orci (basata sui personaggi creati da Gene Roddenberry)
Origine: Usa, 2009
Durata: 127’

Sito ufficiale
Sito ufficiale americano
STIC: il fanclub italiano di Star Trek
Intervista a JJ Abrams
Star Trek Blog
Sito ufficiale della famiglia di Gene Roddenberry

mercoledì 13 maggio 2009

Punisher: La lunga e fredda notte

Punisher: La lunga e fredda notte

“I bambini erano ammalati. Non siamo andati quel giorno. Ora viviamo a Ditmas Park, e i nostri figli e i nostri nipoti vengono a trovarci. La nostra casa è piena di voci. I bambini ridono, o fanno il broncio, o si lamentano perché devono finire le loro verdure. I genitori faticano a mantenere l’ordine e alzano la voce inutilmente. Io sono vecchio, grasso e lento. E’ perfetto.”

In attesa di leggere l’edizione italiana di Valley Forge, Valley Forge, capitolo conclusivo della lunga gestione Ennis (in uscita in questi giorni), torniamo ad occuparci del Punitore perché l’undicesimo volume della collana “Punisher MAX” segna un importante traguardo per il fecondo rapporto che ha visto coincidere il percorso artistico dello sceneggiatore irlandese con il personaggio della Marvel Comics. La lunga e fredda notte si pone in continuità con alcune storie precedenti, In principio, Mondo alla rovescia, Barracuda e L’uomo di pietra (pubblicate rispettivamente nei volumi 2, 5, 8 e 9 della collana), intrecciandole nel segno della paternità mancata: quella paternità che può costituire a un tempo il “vuoto”, ovvero quella mancanza che l’anima sogna di colmare, ma anche il “pieno”, ovvero quel fattore che ha finito per determinare il proprio destino.

Chi non avesse mai letto le avventure del Punitore forse saprà ugualmente che la sua missione omicida nei confronti dei criminali newyorkesi inizia con il massacro della famiglia (moglie e due figli) a Central Park ad opera di alcuni malavitosi alle prese con uno scontro a fuoco: un evento che ha sicuramente scatenato una follia già latente (come lo stesso Garth Ennis ha precisato in Born, nel primo volume della collana) ma che è il punto di snodo fondamentale per comprendere il personaggio e per penetrarne le emozioni più recondite, quelle solitamente mascherate dietro la maschera di pietra e il teschio iconico che adorna la celebre maglietta del vigilante. Ennis ci è arrivato dopo un lungo percorso, iniziato con la ricostruzione dell’icona anti-eroistica, facendo spesso ricorso a un’ironia grottesca e iconoclasta, quella che portava il personaggio di Frank Castle a scontrarsi contro nemici improbabili o a ridicolizzare i classici supereroi (come Spider-Man o Devil): ma progressivamente lo sceneggiatore ha anche tentato di spostare il baricentro della narrazione verso una tipologia di racconto che fosse distante dalle classiche coordinate del genere per indagare la disperazione e il marciume insito in una visione del mondo. Lo sguardo del Punitore è dunque rimasta la direttrice, ma gradatamente si è instaurata una impalpabile dicotomia con lo sguardo dello stesso Ennis, che ha portato lo sceneggiatore a estrinsecare una sensibilità nuova, utile a definire la follia del protagonista e la fragilità (splendidamente umana) dei sentimenti che si agitano nel cuore dell’uomo, prima ancora che del personaggio.

Il percorso ha visto articolare questa dinamica attraverso uno splendido lavoro sui comprimari (rimando a tal proposito all’articolo sul precedente volume Vedove nere) che hanno avuto il compito di elaborare quel sentire latente mai compiutamente affrontato o espresso da un personaggio abituato a “uccidere le sue emozioni”, per tentare di evidenziare l’impossibile umanità di un universo in disfacimento, ma anche per ribadire una volta di più le motivazioni alla base della crociata che muove il Punitore, una missione che nei continui fallimenti trova sempre la forza di voler continuare sebbene la realtà circostante urli la sua assurdità. L’introduzione del personaggio di Barracuda, sgradevole e gigantesco killer di colore, sboccato e privo di qualsiasi umanità, nemesi per eccellenza di questo lungo arco narrativo, ha costituito la quadratura del cerchio perché ha permesso a Ennis un momentaneo ritorno alle atmosfere grottesche pure a lui care, ma che con questo volume capiamo essere state soltanto un illusorio tentativo dei personaggi di affrancarsi da una penna che ormai volgeva inevitabilmente verso l’introspezione e la tragedia.

La paternità al centro de La lunga e fredda notte diventa così momento di confronto per protagonista e antagonista con il passato: Frank Castle scopre l’esistenza di una figlia nata da una fugace avventura (con Katherine O'Brien, la donna conosciuta in In principio, poi ritrovata in Mondo alla rovescia e infine perduta ne L'uomo di pietra) e riscopre in sé quei sentimenti che aveva dimenticato, ma soprattutto assapora la possibilità di vivere quella vita in cui è “vecchio, grasso e lento” che inconsciamente rimpiange di non aver mai potuto condurre e che infine capirà di non potersi permettere. La vita di un uomo e un padre “normali”. Barracuda dal canto suo vuole invece eliminare la bambina per aprire l’unico possibile varco nel guscio impenetrabile che è il cuore del vigilante, allo scopo di provocargli una sofferenza dell’anima che raddoppi quella fisica. Perché non sopporta di essere stato battuto.

La grandiosità dell’affresco ordito da Ennis sta nella sua capacità di ribaltare questa dicotomia nel segno di una impossibile affinità tra i due personaggi: che è tale non solo per l’abilità fisica e la propensione alla violenza che i due sfoggiano, quanto per il fatto che entrambi condividono un conflittuale rapporto verso il concetto di paternità, sebbene di segno opposto (rimpianto da Castle e odiato da Barracuda), per ragioni sepolte nella loro memoria. La lunga e fredda notte diventa così allo stesso tempo il capitolo che lascia esplodere le motivazioni reali dei due nemici e che, attraverso uno scontro che segna l’apoteosi grafica della violenza, diventa anche un duello fra due differenti concezioni della sofferenza per interposta paternità. Che avrà come unica conseguenza quella di ribadire una volta per tutti la tragedia costante di un universo umano privo di punti di riferimento e affidato soltanto alla spinta distruttiva dei singoli, dove non esiste possibilità di redenzione.

La scrittura di Ennis si mostra in questo senso empatica, precisa nella scansione delle vignette (che quasi sempre dividono la tavola in senso orizzontale) e nell’andirivieni di passato e presente, di tragedia in atto e memoria delle felicità possibili o delle sofferenze attraversate. Momenti indagate attraverso didascalie puntuali, quasi spietate per come analizzano ogni momento non lasciando scampo alcuno alla psiche ormai esposta dei personaggi. A supporto intervengono i disegni di Howard Chaykin (in azione nel primo capitolo ed efficaci soprattutto nel dipingere il fardello di vita nelle rughe del protagonista) e quelli del veterano Goran Parlov (già in Barracuda e nello spin-off dedicato al killer, Punisher presenta Barracuda: Il ritorno), colossali, impressionisti e che non a caso conferiscono potente forza visionaria al sanguinoso scontro fra i due giganti. Un capolavoro.

Punisher MAX 11: La lunga e fredda notte
(The Punisher Max vol. 9: Long Cold Dark)
Scritto da: Garth Ennis
Disegni: Goran Parlov, Howard Chaykin
Pubblicato da Marvel Italia/Panini Comics
136 pagine
2007

Editoriale Panini sulla gestione Ennis
Garth Ennis su La lunga e fredda notte (in inglese)
The Punisher Archives (in inglese)

sabato 2 maggio 2009

Kino Lika

Kino Lika
 
In un paesino sulle montagne della Croazia si incrociano le esistenze di tre personaggi: Mike, giovane promessa del calcio che entra in crisi dopo aver causato inavvertitamente la morte della madre; Olga, ragazza obesa che non riesce a trovare un compagno che l’accetti; Joso, alle prese con la siccità ma troppo testardo per chiedere aiuto, costasse anche la vita del giovane figlio. Sullo sfondo il referendum che potrebbe annettere la Croazia all’Unione Europea e tutta l’attività (e gli interessi) ad esso collegati.

Colpa, desiderio, sete. Sono i tre punti nodali intorno ai quali ruota la narrazione di Kino Lika (letteralmente “il cinema di Lika”, regione montuosa della Croazia dove la storia è ambientata) e che permettono al regista Dalibor Matanic di dare forma a un film che esplora il confine sottile tra grottesco e orrore, quello capace di trasformare un sorriso in una risata folle e carica di amarezza: la discesa progressiva alla ricerca delle pulsioni primarie che agitano la coscienza dell’essere umano è peraltro palese, ma il punto di partenza è ameno, in questa comunità che appare tutto sommato serena e animata da una vitalità ossequiata fino alla ricerca del cliché, con tanto di canti e musiche popolari in evidenza. Non è una scelta casuale perché serve a misurare lo scarto tra l’apparenza e la sostanza, reso attraverso un escamotage tipicamente pirandelliano: l’omicidio colposo di Mike ai danni di sua madre, investita con un trattore manovrato con troppa imprudenza.

E’ il momento che scompagina definitivamente le carte e rompe gli equilibri, innescando la discesa agli inferi, che Matanic persegue con convinzione, con l’evidente intento di non concedere sconti a personaggi e pubblico, ma senza mai perdere di vista la prospettiva fornita da un’ironia dissacrante e molto feroce. La visione non è fatalista, poiché non ci si viene a scontrare con un destino che impone scientemente l’infelicità, ma con una serie di eventi causati da errori, colpe o difetti personali dei personaggi. Mike, quindi, sconta la propria superficialità, più volte scambiata per agire eccentrico e perdonata in nome delle sue abilità sportive; Olga (la straordinaria Areta Curkovic) diviene vittima della sua innata tendenza autodistruttiva, mentre Joso è alle prese con la vicenda forse più drammatica, sebbene meno evidente, silenziosa come il suo personaggio, testardo nel cercare l’acqua nel pozzo e nel rifiutare di acquistare delle bottiglie o di ricevere aiuto dall’odiato suocero. L’incidente di Mike ha quindi il sapore di un risveglio, di una caduta del velo che permetta ai personaggi di prendere coscienza dei propri limiti e della propria miseria, sebbene poi il vivere questi momenti sia diverso, meditato, a volte molto tormentato (per Mike), altre mediato da un volto che non lascia trasparire emozioni (come accade con Olga) e che per questo rende il malessere introflesso, fino all’improvvisa esplosione finale.

In mezzo l’attesa per il referendum, che diventa paradigma di una impossibile rinascita per una comunità incapace di creare relazioni, limitate soltanto ai fuggevoli contatti nel “cinema di Lika”, una sala pubblica attrezzata per le visioni dei film: un luogo che diventa suo malgrado il crocevia delle relazioni possibili tra i personaggi, dove Olga cerca di attirare l’attenzione di Mike, salvo vedersi ancora una volta ignorare. Il posto, peraltro, trova un contraltare nelle due sale dove vengono organizzate le feste rispettivamente a favore o contro il referendum, dalle quali i giovani del paese si spostano per inseguire i musicisti (ingaggiati da entrambi i promotori e quindi costretti ad alternarsi sui due palchi): altro momento efficace per ribadire l’ignavia di una comunità che segue la convenienza del momento e non pensa a una felicità di lungo periodo, che ha bisogno perciò del momento “forte” per innescare il processo di autocoscienza, e naturalmente questo non potrà che risultare poi devastante.

Le dinamiche che il film mette quindi in campo, sebbene generino anche opposizioni tra i personaggi (ad esempio fra Joso e sua moglie), lasciano emergere uno scenario di convivenza formale tra anime che vivono i loro tormenti in solitudine, all’interno di uno spazio apatico dove si rende pertanto necessario un secondo avvenimento, che faccia il paio con l’incidente iniziale per far giungere a conclusione la vicenda: un evento che nel suo arrivo finale avrà un sapore quasi biblico, come la pioggia delle rane di Magnolia, sebbene decisamente meno azzardato nella sua manifestazione. Pertanto Kino Lina è un’opera di traiettorie dell’anima, che però non dimentica e anzi pone al centro della scena i corpi, martoriati e offesi dalla sete o dall’autoflaggellazione, fino al momento indimenticabile in cui Olga cerca il piacere da tutti negatole strisciando nel fango con i suoi amati maiali: una scena che ribadisce i toni forti cari al regista, la sua necessità di scuotere in profondità lo spettatore per non lasciarlo indifferente e che hanno attirato al film le conservatrici accuse di ricercata sgradevolezza da parte di Variety. Un momento di straordinario eccesso che dà la cifra di un film materico, doloroso e perciò estremamente vitale.

Premiato in numerosi festival (buon ultimo è arrivato l’Ulivo d’Oro al Festival del Cinema Europeo di Lecce 2009), il film rappresenta il quinto lungometraggio da regista per Dalbor Matanic, e si spera che possa concludere la sua corsa nei cinema occidentali.


Kino Lika
Regia: Dalibor Matanic
Sceneggiatura: Dalibor Matanic, Milan F. Zivkovic (da un libro di storie di Damir Karakas)
Origine: Croazia/Bosnia Erzegovina, 2008
Durata: 122’