Costretta in un letto d’ospedale e ormai prossima alla morte, Daisy prega la figlia Caroline di leggerle un diario che ha conservato nella sua borsa: vi si narra la storia di Benjamin Button, nato nel 1918 in condizioni di vita precarie e che nel corso della sua esistenza è ringiovanito progressivamente fino a morire neonato. Una vita incredibile, che si è intrecciata a doppio filo con quella di Daisy e i cui segreti ora verranno rivelati per la prima e ultima volta.
Qualcosa sta cambiando nel cinema di David Fincher, o forse sta semplicemente lasciando emergere ciò che finora era rimasto nascosto, soffocato da quella cupezza e quella nervosità che con eccessiva fretta era stata generalmente elevata a cifra stilistica della sua produzione dopo la visione di Seven, The Game e Fight Club. Ne emerge una qualità più umana, che sebbene non rinunci mai alla sperimentazione stilistica, agli andirivieni temporali e alla composizione digitale del quadro come spazio da reinventare ed esplorare, si concentra di più sui personaggi: eroi di una fiaba non contro il tempo, ma fuori dallo stesso, che, attraverso la figura cardine del protagonista che ringiovanisce dopo essere nato vecchio, cerca di riscrivere l’ineluttabilità della vita sottraendola alla consueta parabola delle stagioni. E’ per questo che il film, sebbene iscritto nella storia del Novecento, potrebbe anche ambientarsi in un arco temporale differente e non ha bisogno di rimarcare date e periodi, come invece accadeva nel precedente Zodiac, dove lo spossante protrarsi delle decadi gravava come un fardello sui personaggi. Ugualmente, però, non viene meno la consapevolezza del tempo, rievocato sin dalla struttura narrativa in flashback e anzi continuamente chiamato in causa dallo scorrere di orologi, e dalle mancanze degli affetti che scandiscono il presente e gettano un’ombra sul futuro.
In questo modo la vita di Benjamin Button si eleva a esaltazione dei singoli momenti di cui l’esistenza si compone: la felicità in fondo non è un traguardo impossibile, quanto di breve durata e per questo necessità di essere cercata e vissuta intensamente. La sfida cui la vita pone di fronte è dunque duplice: si tratta di affrontare nel modo giusto i momenti di felicità, ma anche di saperli riconoscere quando essi si palesano. In fondo il caso evocato sin dal titolo è la vera variabile che determina il corso degli eventi e persino l’ineluttabilità della fine e dell’inizio sembra soggiacere al suo volere. Per questo numerose sono le tappe da attraversare fino al raggiungimento del momento giusto, quello che permette di compiere l’agognata traversata della manica a una donna conosciuta durante una notte insonne in albergo, e quello che favorisce infine il ritrovarsi di Benjamin e Daisy dopo numerose occasioni sprecate. Il loro continuo rincorrersi attraverso il tempo ha quindi il sapore di un amoroso inseguimento attraverso la maturazione dei rispettivi corpi e le varie fasi delle loro vite, fino al raggiungimento del momento esatto in cui tutto si può compiere. L’eroismo del protagonista sta dunque interamente nella sua capacità di afferrare i momenti, di saperli riconoscere e di saper fare le giuste rinunce, diversamente da quelle figure genitoriali che rivelano le loro verità ai figli con eccessivo ritardo.
Ecco dunque che il film non soltanto dimostra un gusto quasi antropologico nell’illustrazione dei caratteri, ma sa offrire se stesso attraverso una continua modulazione di toni, regalando a un tempo divertimento, meraviglia e commozione, dimostrandosi poroso ma nello stesso tempo compatto, tanto da riuscire a ricontestualizzare nel racconto i momenti in apparenza slegati dallo stesso, nonostante alcune lungaggini e qualche passaggio più didascalico (specie nel finale). Unici punti fermi, come già enunciato, la fine e il principio, per i protagonisti e per la storia stessa, incastonata tra la fine della Grande Guerra (promessa di un nuovo inizio per il mondo) e la morte della narratrice, accompagnata dall’arrivo di un uragano, che può suggerire fiabeschi collegamenti (pensiamo a Il Mago di Oz).
In fondo un’altra straordinaria qualità del film sta nella sua capacità di creare ponti con poetiche e cinematografie differenti: se l’esibizione del corpo-freak di Benjamin può infatti suggerire paralleli con il cinema di Tim Burton, e il suo scivolare nel tempo rimanda a Robert Zemeckis (lo sceneggiatore peraltro è lo stesso di Forrest Gump), la progressiva malinconia che ammanta il tutto, rendendo il protagonista consapevole della caducità del vivere, rimandano al cinema di Clint Eastwood. Il film è tutto questo, ma contemporaneamente è altro, non è grottesco (Burton), né storico-satirico (Zemeckis), né amaro (Eastwood), perché, anzi, Fincher mescola i toni e i rimandi con naturalezza, ma restando sempre fedele a se stesso: prendiamo ad esempio la splendida sequenza del duello notturno fra il rimorchiatore e il sommergibile. Costruzione esemplare della tensione, attenzione ai dettagli e uso intelligente degli effetti speciali, movimenti di macchina avvolgenti e virtuosistici: tutti marchi di fabbrica di un autore che però nello stesso tempo con quella sequenza sembra rimettere in scena lo Spielberg de Lo squalo, film che, guarda caso, lo folgorò in tenerà età spingendolo a dedicarsi al cinema per colpire al cuore lo spettatore e suscitare in lui emozioni intense. Questione di tempi e momenti da fermare, in fondo.
Qual è dunque l’emozione più intensa che il film suscita? E’ la malinconia per una conclusione ineluttabile, il riso per chi “viene colpito da un fulmine” o la commozione per la delicatezza del sentimento che travalica il tempo? Dovendo azzardare un’ipotesi, quella più calzante pare essere la serenità: quella di chi ha avuto l’occasione di comprendere l’assurdità di una vita proiettata sulla fine e ha per questo saputo astrarsi dall’ineluttabilità del tempo gustando pienamente ogni attimo.
Il curioso caso di Benjamin Button
(The Curious Case of Benjamin Button)
Regia: David Fincher
Soggetto: Robert Swicord e Eric Roth, da un racconto di Francis Scott Fitzgerald
Sceneggiatura: Eric Roth
Origine: Usa, 2008
Durata: 166’
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Curiosità sul film da BadTaste.it
Ritratto di Cate Blanchett
1 commento:
Devo dire che il film mi è piaciuto sicuramene, però non l'ho trovato straordinario. Un pò troppo prolisso, ridondante, a tratti ruffiano e a tratti retorico. Tutto sommato, comunque, un buonissimo film.
Ale55andra
Posta un commento