Django Unchained
Il dr. King Schultz,
cacciatore di taglie nel selvaggio West, libera lo schiavo nero
Django, che può aiutarlo a rintracciare i criminali che gli
interessano. Una volta compiuta l'impresa, i due continuano le loro
scorribande per poi concentrarsi sull'obiettivo più ambizioso:
ritrovare Broomhilda, la moglie di Django, venduta a Calvin Candle,
negriero e proprietario di una celebre piantagione di cotone. Il
piano sarebbe quello di introdursi nella tenuta con la scusa di
comprare un mandingo da lotta, salvo poi includere nell'accordo anche
Broomhilda. Ma Stephen, il nero al soldo di Candle, mangia ben presto
la foglia...
Ai tempi di Jackie
Brown, si parlò del fatto che Quentin Tarantino
fosse particolarmente “ossessionato” dalla cultura black,
al punto da ritenervisi quasi affine. La cosa fu in verità liquidata
con una certa fretta, complice da un lato il consueto bisogno di
incasellare il nuovo lavoro, dall'altra perché la si riteneva
strettamente (e strumentalmente) legata alla necessità di promuovere
un film nato come omaggio alla blaxploitation.
Eppure è proprio a
quell'affinità che bisogna tornare, a proposito di Django
Unchained. La storia, anche in questo caso si ripete: da più
parti si guarda soltanto all'omaggio al western italiano e al Django
di Sergio Corbucci - che, per inciso, era più “presente” nella
celeberrima “scena dell'orecchio” de Le iene, che qui. In
effetti, se dovessimo esaurire il discorso unicamente nel
citazionismo avremmo ben poco da dire: c'è chi, diligentemente, ha
già fatto l'elenco puntuale dei rimandi, ma la sensazione che assale
durante la visione è che questi elementi siano inevitabili cascami
di una poetica che stavolta ha altro da dire. Almeno agli occhi di
chi scrive, il film è meno teorico di altri realizzati dal regista,
poco orientato al voler “rifare” e più spinto verso l'esigenza
di raccontare qualcosa che sente proprio. Con un'urgenza che
Tarantino non avvertiva dai tempi di Kill
Bill.
D'altronde, se l'odissea
della Sposa rifletteva la profonda stima che Tarantino prova per
l'universo femminile, stavolta in ballo c'è, per l'appunto, quella
cultura nera cui si sente vicino: è qualcosa di molto più forte del
revisionismo di maniera che affliggeva Bastardi senza gloria.
E' qualcosa che chiama in causa una sorta di liberazione
(“unchained”) del regista stesso da una formula che già
rischiava di ripiegare verso la maniera.
Pertanto, ciò che
stupisce in prima battuta è la rabbia che emerge dal film, il furore
sordo che Django trattiene nella prima parte della storia e che poi
lascerà esplodere nel finale. Il tutto nel modo che non ti aspetti,
se è vero che a intrattenere il pubblico e a deviare nettamente
l'attenzione è il loquace dr. Schultz del sempre grande Christoph
Waltz. Ed è interessante notare come il discorso caro a Tarantino si
articoli proprio all'interno del perimetro descritto dai suoi attori
feticcio.
Dall'altro versante della
barricata, a ispessire e a rendere ancora più imprevedibile il
viaggio che Tarantino offre allo spettatore, c'è infatti
l'altrettanto fido Samuel L. Jackson, autentico “cattivo” del
film, che pure si offre in secondo piano rispetto al più pirotecnico
Calvin Candle di Leonardo Di Caprio. Il gioco, raffinato, è condotto
sul rapporto di forza tra chi sta in primo piano, pur non incarnando
appieno la virulenza della posta in gioco, e chi, da dietro le
quinte, determina invece le svolte significative del racconto.
In questo senso,
Tarantino crea un'opera al rovescio, sotto tutti i punti di vista: è
un western americano (perché affronta uno dei drammi della Storia
d'oltreoceano come la schiavitù) filtrato però da rimandi italiani;
racconta una storia crudele, di sofferenze e privazioni, ma spesso si
abbandona all'arma dell'ironia, chiamando in causa certe trovate
degne di un La vita a volte è molto dura, vero Provvidenza?
E riesce in questo modo a intrattenere un rapporto ambivalente anche
con la possibile deriva manicheista che l'idea di un mondo diviso fra
bianchi e neri potrebbe istintivamente suggerire.
Quando infatti vediamo il
proprietario terriero razzista impersonato da Don Johnson,
configurarsi come una macchietta dai risvolti estremamente patetici,
capiamo che Tarantino sente talmente forte il cancro incarnato dal
razzismo, da non concedere alcuna grandezza agli incappucciati e alle
loro farneticazioni, riducendoli – anche a costo di determinare una
brusca battuta d'arresto nel ritmo – a semplici pagliacci.
Ma, tolti questi orpelli,
il film propone un ritratto sociale sfaccettato, dove non prevalgono
le solidarietà delle “razze”: Schultz (bianco) aiuta Django
(nero), il quale non si mostra solidale verso la “causa”
(maltratta anzi gli altri neri con cui ha a che fare), ma agisce per
vendicare un male che lo ha toccato da vicino privandolo della donna
amata (altro rovesciamento rispetto al Django di Corbucci, che
invece era già disilluso da questo versante). E a opporsi ci sono
Candle (bianco) che trova il suo più grande alleato in un
inserviente nero (Stephen), insensibile al richiamo della razza e
fedele al suo padrone al punto da determinare totalmente le svolte
del finale (con buona pace di chi si aspetta che magari il richiamo
del sangue faccia capolino...). Tarantino ama “sporcarsi”,
esattamente come fa il suo antieroe, e ci ricorda in questo modo come
il western italiano che il progetto chiama nominalmente in causa
fosse in fondo un genere di disillusioni, dove alla fin fine
contavano le gesta dei singoli e non le dinamiche di massa (come
invece avveniva in quello americano classico).
Pertanto, Tarantino trova
la quadratura del suo discorso, e può lasciarsi andare al classico
scontro finale, dove propone due fra le soluzioni più stranianti. La
prima è il rifiuto del tipico duello, sostituito da una sparatoria
ultrasplatter, modulata sui codici dei film di John Woo. Già,
proprio il regista di A Better Tomorrow
e The Killer, che, dopo essere stato tirato per la
proverbiale giacca dal cinema americano per tutti gli anni Novanta, è
oggi finito nel dimenticatorio. Il che ci riporta all'urgenza
tarantiniana di muoversi su un territorio che sente proprio, al di là
delle mode.
La seconda è l'uso
“serio” della colonna sonora de Lo chiamavano Trinità:
che in un colpo solo salda le atmosfere del western ironico con la
serietà della missione del suo Django. E se non è un rovesciamento
di prospettive questo...
Django Unchained
(id.)
Regia e sceneggiatura:
Quentin Tarantino
Durata: 165'
Origine: Usa, 2012
7 commenti:
Eh eh questa si che è una rece, grande Dav ;-) ho letto la tua tutto d'un fiato e poi ho riletto la mia eh eh ho ancora parecchio da lavorare per diventare un recensore almeno decente, ma leggendo le tue rece, di sciamano e altri più esperti di certo imparerò ;-)
Detto questo concordo con te soprattutto sul fatto che è evidente il grande rispetto che Quentin ha per le donne e la grande sensibilità che ha per il dramma del razziso e a tal proposito non ti fa incavolare che a volte, proprio lui è stato accusato di essere misogino e razzista??? quest'ultima accusa ASSURDA poi gli viene sempre lanciata addosso da Spike Lee, regista ormai scoppiato che pare avercela a morte con Quentin e non ho mai capito perchè :-/
Spike Lee è pure un ossessionato... ma nel modo sbagliato :-)
Per quanto riguarda la scrittura il consiglio è uno solo: perseverare, perseverare, perseverare, scrivendo s'impara, io stesso mi considero ancora "in formazione". Lo stile viene fuori piano piano :-)
Grazie per i complimenti!
figurati ;-)
eh si Spike Lee è suonato, ma forse anche invidioso dato che negli ultimi anni non è che stia facendo chissà che, Miracolo a Sant'anna è carino, ma è un filmetto e ora se ne esce con l'inutile remake di Old Boy :-( pensasse a fare film migliori invece di criticare il grande Quentin
Grande rece...l'unica cosa su cui non sono d'accordo, più che altro me la prendo (si fa x dire) con Tarantino, é l'uso della colonna sonora: per es. "Lo chiamavano Trinità" nel finale non mi ha convinto, in generale i pezzi sono bellissimi ma poco evocativi e messi, forse x la prima volta in un film del regista, con poca ispirazione.
Guarda, ti confesso che l'uso della colonna sonora di "Trinità" mi ha lasciato molto spiazzato e non posso dire che mi abbia convinto del tutto.
Però quando un film mi spiazza, nel bene o anche nel male, preferisco dargli comunque il punto :-)
"Ancora Qui" di Morricone e Elisa ascoltata prima di vedere il film mi aveva commosso alle lacrime (giuro), poi guardo il film e la trovo cosi anonima...mah....Comunque sto a sindacare su un film praticamente (quasi) perfetto....
Pur essendo un rozzo metallaro accanito, amante solo del rock e del metallo più incazzoso dico che quella canzone di Elisa mi è piaciuta molto e trovo che l'hanno usata bene nel film :-)
Posta un commento