"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

giovedì 24 gennaio 2013

Django

Django

Dopo la guerra di secessione, il pistolero Django viaggia verso un paese fantasma, al confine tra Stati Uniti e Messico, trascinando una bara. Il luogo è diviso fra le truppe razziste e incappucciate, al soldo del maggiore Jackson, e i rivoluzionari messicani del generale Rodriguez. Incattivito dopo la morte della donna che amava e interessato soltanto a sparire lontano, Django elimina il grosso della banda di Jackson e mette poi la sua abilità di pistolero al servizio di Rodriguez, per rubare l'oro necessario a rifarsi una vita. Ma il gioco delle parti è spietato e l'unica luce in questo fosco scenario è rappresentata da Maria, la donna che forse potrebbe aprire nuovamente il suo cuore...


Con una copia ammessa nella collezione del Museo d'Arte Moderna di New York, vale a poco giocare la solita carta del progetto incompreso o misconosciuto, anche se effettivamente per vedere in italia Django, fino a qualche anno fa si era costretti a fare i proverbiali salti mortali. Ora che invece il nome è sulla bocca di tutti per l'omaggio di Quentin Tarantino, si può provare a tracciare un bilancio di quello che, a suo modo, rappresenta il vero prototipo del western italiano. Per quanto fondamentale e iconico, infatti, il capostipite Per un pugno di dollari rappresenta (come tutto il cinema di Sergio Leone) ancora una “variante d'autore”, che ha finito suo malgrado per fare storia a sé: è l'equivalente del cinema di Don Siegel rispetto al poliziesco tricolore, un modello irraggiungibile e quindi, inevitabilmente, altro.

Al contrario, Django si pone immediatamente come un perfetto epigono del modello leoniano, talmente riuscito da diventare non solo originale, ma anche ideale matrice per tanto cinema a venire: un'infarinatura anche lieve di western nostrani basterebbe a dimostrare come Corbucci sia nel mirino di tanti fra quelli che sono venuti dopo, che condividono con lui una maggiore affinità. Vero è che “l'altro Sergio” (così era definito Corbucci) è a tutti gli effetti un regista di valore, che nel western trova una sua dimensione tale da creare opere potenti, e non merita perciò di essere considerato soltanto un imitatore.

Lo scarto in fondo è tutto qui, quello che marca la distanza fra l'imitazione e l'originalità: perché, se prendiamo Django per ciò che racconta, il plagio di Per un pugno di dollari diventa lampante. Qui come lì c'è un pistolero solitario, che arriva in un villaggio dove spopolano due bande contrapposte, e gioca un po' con una, un po' con l'altra fino a uscirne unico vincitore. Anche l'uso iconico della mitragliatrice lo aveva già “inventato” Leone. La sceneggiatura è davvero poca cosa, come spesso accade nel cinema (sebbene poi piaccia tirarla sempre in ballo a sproposito). Quello che cambia e che definisce la sostanza del film è la tecnica, lo sguardo: l'invenzione stilistica, insomma, che rende l'epigono autonomo rispetto al prototipo.

E quando uso termini come “sguardo” o “invenzione” non mi riferisco a quelli elementi da sempre tirati in ballo fino alla nausea, come la violenza esasperata e il taglio più crudele. Che ci sono, beninteso, ma non si esauriscono nella loro mera esibizione, diventando anzi corollario di una visione coerente e compatta. E questo nonostante, poi, nelle interviste del caso tutti cerchino di attribuirsene una parte di merito, come a dire che il film nasce dal lavoro collettivo, mentre il buon Corbucci veniva sul set a girare dopo essersi alzato tardi. Sarà anche così, ma poi tutti questi elementi si saldano in un insieme che si relaziona perfettamente a una poetica d'autore già ben definita.

Il che ci porta a una sorprendente rivelazione: Django funziona perché è un film di pura regia, è Corbucci a renderlo vivo, a creare un'estetica potente nella sua ricercata vicinanza degli opposti: set scarni e fangosi, pochi personaggi, tutto ridotto quasi all'essenziale, ai pochi sguardi che gli attori si scambiano e che dicono più di tante parole. Il volto di Franco Nero o quello della bellissima Loredana Nusciak dicono già quanto serve dei rispettivi personaggi, che non a caso non sono approfonditi nelle loro psicologie. In questi aspetti si ritrova la presunta matrice “giapponese” del racconto, evidente anche nella menomazione finale dell'eroe: è improbabile che all'epoca Corbucci conoscesse eroi portatori di handicap alla Zatoichi (che negli stessi anni spopolava in Giappone), ma il paragone è comunque interessante a indicare come le corde dell'inconscio collettivo fossero le stesse fra Occidente e Oriente (e non a caso Django in Giappone è stato anche distribuito con successo...).

Dall'altro versante di questa estetica essenziale c'è la cifra esagerata, operistica, ma anche fumettistica, con i cappucci rossi, i corpi imbrattati dal sangue o dalla terra, l'orecchio tagliato e poi fatto persino ingoiare, la capacità soprannaturale dell'eroe di abbattere ogni nemico e l'iconografia potente della bara trascinata nel fango, a quanto pare ripresa proprio da un non meglio definito fumetto dell'epoca. L'aspetto che tutti ricordano, come lo stesso Corbucci era consapevole sarebbe avvenuto.

Il bello è che, come sempre, tutto questo permette al film di riverberare umori più alti, e di diventare cartina di tornasole di una disillusione che marca la distanza fra il western americano (solare e orientato alla palingenesi, al racconto epico della nascita di una nazione) e quello europeo, generalmente incattivito e “contro”, scettico circa le possibilità di cambiare il mondo. La storia non a caso propone un duello a distanza fra razzisti e rivoluzionari straccioni, interessati ugualmente al potere. E in mezzo un eroe cinico che punta sì al denaro, ma alla fine compie il suo percorso di redenzione che lo porterà ad amare di nuovo (e i rimandi cristologici non fanno altro che dare maggior linfa all'odissea del personaggio). Dovremo aspettare il John Carpenter delle due Fughe (da New York e da Los Angeles) per trovare un ritratto sociale altrettanto spietato e una maggiore consapevolezza teorica nell'uso dei simbolismi. Il che significa che già in questo caso i semi piantati sono quelli giusti!


Django
Regia: Sergio Corbucci
Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Bruno Corbucci, Franco Rossetti, Josè G. Maesso, Piero Vivarelli
Origine: Italia/Spagna, 1966
Durata: 94'

2 commenti:

myers82 ha detto...

dopo aver visto il Django di Quentin, ammetto che mi è venuta voglia di vedere questo di Corbucci :-)

myers82 ha detto...

recuperato ieri sera, molto carino ;-)