Django
Dopo la guerra di
secessione, il pistolero Django viaggia verso un paese fantasma, al
confine tra Stati Uniti e Messico, trascinando una bara. Il luogo è
diviso fra le truppe razziste e incappucciate, al soldo del maggiore
Jackson, e i rivoluzionari messicani del generale Rodriguez.
Incattivito dopo la morte della donna che amava e interessato
soltanto a sparire lontano, Django elimina il grosso della banda di
Jackson e mette poi la sua abilità di pistolero al servizio di
Rodriguez, per rubare l'oro necessario a rifarsi una vita. Ma il
gioco delle parti è spietato e l'unica luce in questo fosco scenario
è rappresentata da Maria, la donna che forse potrebbe aprire
nuovamente il suo cuore...
Con una copia ammessa
nella collezione del Museo d'Arte Moderna di New York, vale a poco
giocare la solita carta del progetto incompreso o misconosciuto,
anche se effettivamente per vedere in italia Django, fino a
qualche anno fa si era costretti a fare i proverbiali salti mortali.
Ora che invece il nome è sulla bocca di tutti per l'omaggio di
Quentin Tarantino, si può provare a tracciare un bilancio di quello
che, a suo modo, rappresenta il vero prototipo del western
italiano. Per quanto fondamentale e iconico, infatti, il capostipite
Per un pugno di dollari rappresenta (come tutto il cinema di
Sergio Leone) ancora una “variante d'autore”, che ha finito suo
malgrado per fare storia a sé: è l'equivalente del cinema di Don
Siegel rispetto al poliziesco tricolore, un modello irraggiungibile e
quindi, inevitabilmente, altro.
Al contrario, Django
si pone immediatamente come un perfetto epigono del modello leoniano,
talmente riuscito da diventare non solo originale, ma anche ideale
matrice per tanto cinema a venire: un'infarinatura anche lieve di
western nostrani basterebbe a dimostrare come Corbucci sia nel mirino
di tanti fra quelli che sono venuti dopo, che condividono con lui una
maggiore affinità. Vero è che “l'altro Sergio” (così era
definito Corbucci) è a tutti gli effetti un regista di valore, che
nel western trova una sua dimensione tale da creare opere potenti, e
non merita perciò di essere considerato soltanto un imitatore.
Lo scarto in fondo è
tutto qui, quello che marca la distanza fra l'imitazione e
l'originalità: perché, se prendiamo Django per ciò che
racconta, il plagio di Per un pugno di dollari diventa
lampante. Qui come lì c'è un pistolero solitario, che arriva in un
villaggio dove spopolano due bande contrapposte, e gioca un po' con
una, un po' con l'altra fino a uscirne unico vincitore. Anche l'uso
iconico della mitragliatrice lo aveva già “inventato” Leone. La
sceneggiatura è davvero poca cosa, come spesso accade nel cinema
(sebbene poi piaccia tirarla sempre in ballo a sproposito). Quello
che cambia e che definisce la sostanza
del film è la tecnica, lo sguardo: l'invenzione stilistica, insomma,
che rende l'epigono autonomo rispetto al prototipo.
E quando uso termini come
“sguardo” o “invenzione” non mi riferisco a quelli elementi
da sempre tirati in ballo fino alla nausea, come la violenza
esasperata e il taglio più crudele. Che ci sono, beninteso, ma non
si esauriscono nella loro mera esibizione, diventando anzi corollario
di una visione coerente e compatta. E questo nonostante, poi, nelle
interviste del caso tutti cerchino di attribuirsene una parte di
merito, come a dire che il film nasce dal lavoro collettivo, mentre
il buon Corbucci veniva sul set a girare dopo essersi alzato tardi.
Sarà anche così, ma poi tutti questi elementi si saldano in un
insieme che si relaziona perfettamente a una poetica d'autore già
ben definita.
Il che ci porta a una
sorprendente rivelazione: Django funziona perché è un film
di pura regia, è Corbucci a renderlo vivo, a creare un'estetica
potente nella sua ricercata vicinanza degli opposti: set scarni e
fangosi, pochi personaggi, tutto ridotto quasi all'essenziale, ai
pochi sguardi che gli attori si scambiano e che dicono più di tante
parole. Il volto di Franco Nero o quello della bellissima Loredana Nusciak
dicono già quanto serve dei rispettivi personaggi, che non a caso non sono
approfonditi nelle loro psicologie. In questi aspetti si ritrova la
presunta matrice “giapponese” del racconto, evidente anche nella
menomazione finale dell'eroe: è improbabile che all'epoca Corbucci
conoscesse eroi portatori di handicap alla Zatoichi (che negli stessi
anni spopolava in Giappone), ma il paragone è comunque interessante
a indicare come le corde dell'inconscio collettivo fossero le stesse
fra Occidente e Oriente (e non a caso Django in Giappone è
stato anche distribuito con successo...).
Dall'altro versante di
questa estetica essenziale c'è la cifra esagerata, operistica, ma
anche fumettistica, con i cappucci rossi, i corpi imbrattati dal
sangue o dalla terra, l'orecchio tagliato e poi fatto persino
ingoiare, la capacità soprannaturale dell'eroe di abbattere ogni
nemico e l'iconografia potente della bara trascinata nel fango, a
quanto pare ripresa proprio da un non meglio definito fumetto
dell'epoca. L'aspetto che tutti ricordano, come lo stesso Corbucci
era consapevole sarebbe avvenuto.
Il bello è che, come
sempre, tutto questo permette al film di riverberare umori più alti,
e di diventare cartina di tornasole di una disillusione che marca la
distanza fra il western americano (solare e orientato alla
palingenesi, al racconto epico della nascita di una nazione) e quello
europeo, generalmente incattivito e “contro”, scettico circa le
possibilità di cambiare il mondo. La storia non a caso propone un
duello a distanza fra razzisti e rivoluzionari straccioni,
interessati ugualmente al potere. E in mezzo un eroe cinico che punta
sì al denaro, ma alla fine compie il suo percorso di redenzione che
lo porterà ad amare di nuovo (e i rimandi cristologici non fanno
altro che dare maggior linfa all'odissea del personaggio). Dovremo
aspettare il John Carpenter delle due Fughe (da New York e da
Los Angeles) per trovare un ritratto sociale altrettanto spietato e
una maggiore consapevolezza teorica nell'uso dei simbolismi. Il che
significa che già in questo caso i semi piantati sono quelli giusti!
Django
Regia: Sergio Corbucci
Sceneggiatura: Sergio
Corbucci, Bruno Corbucci, Franco Rossetti, Josè G. Maesso, Piero
Vivarelli
Origine:
Italia/Spagna, 1966
Durata: 94'
2 commenti:
dopo aver visto il Django di Quentin, ammetto che mi è venuta voglia di vedere questo di Corbucci :-)
recuperato ieri sera, molto carino ;-)
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