"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 3 agosto 2011

Harry Potter: quel che finisce bene

Harry Potter: quel che finisce bene

Non deve essere stato facile tracciare lo schema finale di una saga lunga e complessa come quella di Harry Potter: se è legittimo immaginare che la scrittrice J. K. Rowling avesse già in mente dall'inizio il percorso che avrebbe condotto alla definitiva affermazione del maghetto nell'immaginario del nuovo millennio, di certo più problematica appare l'elaborazione della controparte cinematografica, iniziata quando ancora l'avventura cartacea non si era conclusa, e poi passata attraverso continui cambi di regista. Alla fine l'ha spuntata il misconosciuto David Yates, al timone degli ultimi quattro capitoli (ovviamente considerando la divisione in due del finale I doni della morte): proprio la scelta di questo regista appare oggi significativa, alla luce dell'eccellente risultato portato a casa con la Parte 2 della storia conclusiva. Stante infatti il mediocre debutto con L'Ordine della Fenice (peggior film della saga) è notevole constatare come il regista sia cresciuto insieme ai suoi personaggi, facendo propria quella propensione a vivere la storia come un lungo percorso da studiare e cui partecipare con empatia, fino a maturare un tocco personale che ammanta tutta l'ultima parte.

Harry Potter e i doni della morte Parte 2 non è infatti soltanto il miglior film della saga (insieme al Prigioniero di Azkaban del grande Alfonso Cuaron), ma anche un progetto ammantato dalla forza “definitiva” della conclusione, in cui il tirare le somme sul già fatto si estrinseca attraverso tre grandi direttrici: le prime due sono in realtà quasi obbligate e non stupiscono. Innanzitutto c'è da concedere rinnovato spazio a tutti i principali personaggi dell'epopea, ivi compresi gli scomparsi Albus Silente/Michael Gambon e Sirius Black/Gary Oldman, in quella che appare una affettuosa carrellata di volti, ognuno in grado di risuonare del lungo percorso compiuto insieme al protagonista. In questo frangente è bello dedicare due parole almeno alla grandissima Maggie Smith, che nonostante i terribili problemi di salute che l'hanno afflitta (nel 2008 le era stato diagnosticato un tumore al seno) ha voluto mantenere il suo posto nella saga, dimostrando la sua enorme professionalità. In pochi minuti la sua classe attoriale le permette di riverberare la grande carica umana e positiva del suo personaggio, la professoressa MacGranith.

La seconda direttrice è squisitamente narrativa e certamente è quella che più risente della filiazione dalla fonte, in quanto il film deve far venire al pettine una serie di proverbiali nodi spiegando le motivazioni che muovono i personaggi, la loro reale natura e i segreti finora celati. Un compito, ribadisco, in buona sostanza dovuto e che non stupisce, nonostante l'arguzia di talune rivelazioni.

Dove il film vince completamente la sua battaglia - tanto da riuscire a ricomprendere e dare completezza alle due direttrici sopra citate - è sul versante squisitamente visivo, nel quale Yates riesce a infondere un notevole sense of wonder che stupisce anche in virtù del consolidamento di una saga che aveva ormai introiettato completamente l'idea fantastica di un mondo basato sulla magia. Come a ritrovare lo stesso sguardo vergine che aveva connotato il Chris Columbus di Harry Potter e la pietra filosofale, Yates si lascia abbandonare ai prodigi dei suoi personaggi attraverso una caleidoscopìa di colori e toni che ammaliano lo spettatore. Nello stesso tempo, però, questa attitudine fabulistica non è disgiunta da un approccio comunque estremamente lucido e capace di conferire finalmente senso al tutto: non si tratta più soltanto di dare “normalità” alle magie dei protagonisti, che nei precedenti capitoli apparivano anche un po' stucchevoli. Al contrario, si tratta di tracciare finalmente le coordinate di un universo coerente che, nelle sue derivazioni fantasy, si dimostra autosufficiente rispetto al mondo reale, non più soltanto ripiegato negli interstizi dello stesso (come dimostrato fin dall'inizio con l'attraversamento del pilastro nella stazione per raggiungere il “mezzo binario”), e capace di mantenere sia un'apertura ideale verso ogni possibile soluzione quanto una “chiusura” che ne delimiti i propri confini.

In questo senso, la macchina da presa di Yates attraversa continuamente muri e membrane, suggerisce una perenne trasparenza delle barriere, snocciola passaggi segreti e lavora sulla profondità di campo (complice anche un uso intelligente del 3D, purtroppo non nativo) trasmettendo continuamente l'idea di uno spazio attraversabile in ogni sua direzione e pertanto “aperto”, ma allo stesso tempo capace di delimitare luoghi ben precisi come la scuola, la foresta, la casa, la stanza segreta e i luoghi in cui di volta in volta nascondersi o resistere al male. La “barriera magica invisibile” che protegge Hogwarts e che i nemici non riescono a vedere pur subendone gli effetti, diventa così il paradigma della filosofia alla base dell'approccio prescelto. Siamo insomma esattamente addentro all'idea (platonicamente intesa) di “fantastico”, capace cioè di essere al contempo stabile eppure in perenne divenire, e ciò determina quella completezza dell'universo narrativo che fin dall'inizio ha dato una marcia in più alla serie.

In virtù di questo approccio estremamente flessibile, la storia riesce a trovare la sua ragione d'essere in modo più compiuto che in passato, poiché gli stessi tormenti dei protagonisti, le tentazioni del Male e le possibile redenzioni dei nemici sono pedine dello stesso schema aperto e allo stesso tempo chiuso. Compito identico svolgono i ritorni su volti e luoghi già noti, il recupero di scene viste nei precedenti film e in cui si denota il lavoro che la saga ha naturalmente compiuto sul corpo dei suoi attori, mutati perché cresciuti fra un capitolo e l'altro, fino alla deriva “futura” dell'epilogo, dove il make up invecchia i personaggi ma con discrezione, come a voler ancora una volta stare a metà fra la concretezza di una truccatura classica e la naturalezza di un corpo che ha vissuto i propri percorsi afferrando ogni possibile occasione di vita.

Ne è eccezionale riprova la splendida sequenza post-mortem in cui Harry Potter elabora un incontro impossibile con Silente in una immaginaria stazione deserta: per la prima volta l'attore Daniel Radcliffe è liberato dall'oppressione della “maschera” del suo personaggio, così come lo stesso Potter è liberato dalla dinamica pressante dello scontro con Voldemort e può permettersi di fare il punto della situazione, con una conversazione che sembra estremamente naturale seppur significativa per lo svolgimento della storia: il tutto in un intervallo che pur essendo dentro la sua testa (fantastico) è ugualmente vero e significativo (reale), come gli ricorda lo stesso Silente, delimitando e aprendo ancora una volta lo schema narrativo.

Ecco dunque che le stesse rivelazioni dei segreti non diventano soltanto uno stanco cascame della logica dei colpi di scena, ma sono supportate da uno stile che riesce a elaborarne gli spunti visivamente, dando l'impressione di una storia capace di sopportate i cambiamenti restando solida, e per questo capace di andare al di là del semplice entertainment.

Farewell, mr. Potter!


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1 commento:

King G ha detto...

Condivido ogni parola della tua recensione ed apprezzo in particolare il tributo a Maggie Smith