"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 6 giugno 2011

Il discorso del Re

Il discorso del Re

Inghilterra, 1925. Albert, secondogenito di Re Giorgio V, non riesce a leggere un discorso pubblico a causa della sua balbuzie. Nel tentativo di risolvere un problema che quasi gli impedisce di comunicare anche con i familiari, viene convinto da sua moglie Elizabeth a rivolgersi a Lionel Logue, un australiano che utilizza metodi non ortodossi. Nel frattempo Albert è stretto fra vicende personali e storiche che richiedono da parte sua un sempre maggiore coinvolgimento: suo fratello David sale infatti al trono alla morte del padre, ma è invaghito di una donna divorziata e arriva ad abdicare pur di non abbandonarla come previsto dalle rigide regole del cerimoniale di corte. Inoltre l'avanzata del nazismo spinge l'Europa verso l'ineluttabile baratro di un nuovo conflitto mondiale. Serve un Re che sappia prendere decisioni difficili e unire il popolo con i suoi discorsi.


La solitudine del potere è il fulcro di una vicenda che esplora la dimensione pubblica di una figura storica attraverso l'indagine del suo privato. Tutta la complessa architettura di un film come Il discorso del Re è infatti articolata attraverso l'esplorazione del complesso rapporto che intercorre fra l'evidenza e i suoi retroscena, fra la forma e la sostanza che genera la stessa. Non a caso lo stile prediletto dal regista Tom Hooper sfrutta in più momenti il grandangolo, come ad evidenziare il tentativo di restare distanti dai personaggi pur avvicinandoli, esattamente nel modo in cui il suo alter ego Lionel diventa amico personale del Re, ma mantenendo sempre quella distanza fisica imposta dal cerimoniale.

Questo difficile rapporto tra forma e sostanza non è causale, se consideriamo il momento storico in cui la vicenda si iscrive: gli Anni Trenta infatti profumano di un passato che è però già moderno e capace perciò di riverberare i conflitti mediatici dell'epoca a noi più vicina. La guerra diventa quindi un affare che coinvolge non soltanto le nazioni e i campi di battaglia (lasciati fuori dalla narrazione), ma soprattutto le piccole stanze dove si declamano i discorsi davanti al microfono. Di fronte a questa complessa macchina statale che diventa mediatica, la figura del Re è altrettanto scissa fra una dimensione pubblica che impone una rigida serie di impegni e regole, e una debolezza profondamente umana che denuncia la natura del suo travaglio interiore. A provocare il punto di rottura che permetta agli opposti di coesistere nella sintesi è, non casualmente, un attore, una figura capace cioè di comprendere le forzature imposte dalla messinscena, ma anche un uomo scaltro e attento nel capire per primo le capacità politiche e l'abilità del suo paziente, spingendolo a cercare la via che lo porterà sul trono in luogo del più debole fratello.

Tutto il percorso è comunque segnato dalla presenza di figure ed eventi che rivelano sempre un segreto, una sostanza differente rispetto a ciò che appare. A volte questa differenza provoca delle fratture (come accade con David e la corona), altre volte invece finisce suo malgrado per evidenziare la forza d'animo che il personaggio deve cercare in sé per affrontare le sfide enormi che la vita e la Storia gli pone di fronte. E' interessante a questo proposito notare come i casi di David e Albert siano omologhi anche rispetto al rapporto con il cerimoniale, per entrambi limitativo: l'uno infatti è costretto ad abdicare perché incapace di far fronte alle rinunce imposte dal ruolo e quindi decide di cedere alle proprie umanissime debolezze ed emozioni; l'altro, invece, proprio grazie alla deroga imposta al cerimoniale (attraverso la consulenza di un logopedista che non è un medico e non possiede le referenze richieste dalla prassi), riesce a interpretare alla perfezione il ruolo che gli viene chiesto. Appare in questo senso evidente come la cifra mediatica posta in essere dalle dinamiche storico-belliche finisca naturalmente per implicare l'accettazione di una percentuale di finzione, la stessa riassunta perfettamente nella scena finale del discorso, in cui Albert declama le parole davanti al microfono in una stanza chiusa e arredata per l'occasione in modo da favorirgli la concentrazione, salvo farsi fotografare successivamente sulla scrivania d'ordinanza cara al protocollo.

La forza del film è tutta in questi piccoli scarti, che determinano una sostanza fatta di sentimenti in una storia che si pone apparentemente come algida e sovrastrutturata nella ricostruzione formale di un determinato tempo e luogo, dove i volti cercano l'aderenza fisica ai modelli e il tono da “cinema da camera” pare appiattire la forza drammatica di alcuni momenti. In realtà si lavora sul particolare, come i piccoli/grandi segreti che avvicinano e allontanano i personaggi, nessuno escluso. Lionel, ad esempio, è spinto a non rivelare la natura del suo cliente persino alla moglie, per non infrangere la segretezza che naturalmente deve circondare una figura della famiglia reale.

Albert è dunque il fulcro di queste forze contrapposte e non a caso a lui toccano le prove più dure da superare: il problema che ne condiziona la vita pubblica lo limita pertanto anche nel privato, perché gli impedisce una comunicazione serena con le amate figlie. Proprio il mancato abbraccio delle due bambine che si inchinano al suo apparire dopo l'investitura a Re (anteponendo il suo ruolo pubblico a quello privato di padre) è dopotutto il momento più autentico e toccante di questa parabola sulla solitudine del potere, ancor più del climax finale in cui si compie la circolarità evocata dal titolo: quella che vede il discorso assurgere tanto a indice rivelatore dei problemi di Albert (come evidenziava la drammatica scena iniziale) quanto a obiettivo ultimo da raggiungere per la sua maturazione come uomo e regnante.

La delicatezza degli equilibri che il film pone in essere non risparmia naturalmente alcune evidenti sbavature: se la figura di David appare infatti poco approfondita, il momento più controverso appare proprio quello del discorso finale che, seppur costruito con indubbia tensione, finisce suo malgrado per deviare l'attenzione dalla sostanza delle parole pronunciate da Albert nel suo discorso, riducendo tutto alla difficoltà puramente meccanica del pronunciare. Il pubblico è così spinto a parteggiare per il protagonista perché vinca il suo difetto di pronuncia, senza però riflettere attentamente sulla drammaticità enunciata da quelle righe. Non a caso il finale appare lieto, laddove si tratta in fondo dell'atto che evidenzia e legittima il nascere di un conflitto mondiale. Non a caso a distribuire il film negli States è la furbissima Weinstein Company.

A riportare merito al tutto ci pensa comunque la bontà delle performance di un'ottima Helena Bonham Carter e, naturalmente, di un eccellente Colin Firth (da ascoltare rigorosamente in versione non doppiata), la cui voce nasale è peraltro perfetta nell'evidenziare la naturale inadeguatezza al ruolo di un personaggio che vorrebbe essere uomo ma deve invece essere Re. Solo un grande attore poteva riuscire a sembrare inadeguato nell'adeguatezza.


Il discorso del Re
(The King's Speech)
Regia: Tom Hooper
Sceneggiatura: David Seidler
Origine: Uk/Australia, 2010
Durata: 114'

2 commenti:

Tamcra ha detto...

Caro Davide,
ho fatto una rielaborazione del manifesto de Il discorso del re in chiave piccionica:
http://pangrattato.blogspot.com/2011/03/piccioni-da-oscar.html
E' vero che dà un certo disagio il discorso finale di Albert: ci si aspetterebbe un peana alla pace (come nel Grande dittatore ), e invece è un discorso di guerra. Mi viene in mente che anche il famoso To Be or Not To Be di Lubitsch basa sulla "finzione" teatrale la sua personale lotta al nazismo in Polonia.

Tamcra ha detto...

Ti ringrazio per il tuo apprezzamento! Ho impiegato un po' di tempo per le rielaborazioni, non essendo molto esperta di Photoshop (tra l'altro in una versione giurassica...)