Dimenticato per anni e infine ritrovato (e letteralmente riscoperto) alla recente edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, Yilmaz Güney è una figura di spicco del cinema turco degli ultimi decenni, profondamente immerso nella memoria eppure capace di parlare al suo e al nostro presente, riscuotendo sempre il consenso e l’attenzione del pubblico, di ieri come di quello di oggi. Non può essere diversamente, in fondo, considerando l’attenzione che Güney ha sempre dimostrato, nel corso della sua vita, proprio per la qualità squisitamente popolare del cinema, forgiata attraverso una lunga militanza nei film di genere (come attore prima, sceneggiatore e regista poi) e uno sguardo naturalmente portato a comprendere i meccanismi storicamente correlati alle dinamiche interpersonali all’interno di comunità più o meno piccole, nelle quali riflettere la Storia del suo paese. Scorrendo la filmografia dell’artista turco si passa infatti in rassegna un lungo periodo che parte dalla fine degli anni Cinquanta (quando avvenne il debutto come attore) fino alla prima metà degli Ottanta. In mezzo c’è un paese in trasformazione di cui Güney osserva non soltanto le caratteristiche patriarcali, l’economia rurale, il problematico rapporto fra i sessi: tutti temi fermamente presenti in ogni sua opera, i cui titoli possono tutti essere considerati tasselli della stessa visione sebbene articolata ogni volta su prospettive differenti (difficile trovare infatti un’altra filmografia così coerente e allo stresso tempo talmente diversificata).
Ma c’è un altro aspetto che dice della estrema attualità del cinema di Güney ed è la progressiva tensione alla modernità, il rapporto problematico con una realtà in trasformazione dalla quale i personaggi da lui narrati si sentono via via attratti, ma anche esclusi. Il rapporto con la tradizione è dunque vissuto come un fardello con il quale inevitabilmente fare i conti, tanto più pesante laddove l’affacciarsi alla modernità presuppone la conoscenza del proprio status di uomini diversi poiché provenienti da un’altra epoca. Chi si adegua è un infelice che ha rinnegato le sue radici (come il Cemil di Arkadaş, 1974), chi non riesce invece patisce l’inevitabile caduta (il Sivan di Il gregge, 1978).
Quasi sempre a innescare la dinamica che condurrà ineluttabilmente alla tragedia è una figura femminile, come la Keje di Seyyit Han (1968) o, ancora di più la Melike del già citato Arkadaş e la Berivan del Gregge, non a caso interpretate dalla medesima attrice, la bellissima Melike Demirağ. Ma la tragedia ricade completamente sulle spalle dei personaggi maschili, quasi sempre interpretati dallo stesso Güney e costretti a un percorso di progressivo stritolamento da parte delle dinamiche radicate nella cultura e nella Storia, che non lasciano spazio al raggiungimento della soddisfazione personale. La grandezza del risultato sta nel modo in cui Güney riesce ad articolare i suoi discorsi, attraverso racconti che seguono perfettamente la strada del melodramma popolare, anche laddove ibridato con generi più “rigidi” come il western, ma sempre lasciando trapelare una porosità di sguardo che si ritrova nelle inquadrature di volti, animali, improvvisi squarci di vita nell’aridità del paesaggio deserto. Il rapporto con la terra, intesa nel senso materiale del termine, contrappunta la fisicità di storie dove i protagonisti urlano, soffrono, sopportano sulla propria pelle le piaghe di una condizione di estrema indigenza che spesso conduce a velleitarie missioni di ricerca della felicità (la ricerca del tesoro nello splendido Umut, 1970).
La condizione di sfasamento è dunque perenne in questi personaggi che riflettono anche una latente situazione di esilio in terra, nella quale riconosciamo la parabola umana di Güney, divo di grande considerazione popolare eppure figura avversa al potere che lo ha rinchiuso più volte in carcere. Da lì l’artista ha continuato a lavorare, dirigendo “a distanza” (attraverso un ricchissimo lavoro di documentazione e di scrittura) alcuni dei suoi lavori migliori. Il tutto fino alla fuga e all’ultima opera, La rivolta (1983), realizzato in Francia eppure ambientato ancora nell’amata Turchia. Un film cupo, disperato, che traccia le coordinate umane ed emotive della condizione in cui versano i giovani rinchiusi nelle carceri turche, dove il sentimento della tragedia che sempre sottende il suo cinema diventa anche una metafora di una condizione di lavoro propria di chi è ormai costretto a guardare a distanza la propria terra e quindi a non trovare mai la realizzazione della propria identità.
In Italia soltanto tre opere di Güney hanno ottenuto regolare distribuzione, i già citati Il gregge e La rivolta, e Yol (1982), vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes. E’ un peccato che non sia stato dato spazio anche al resto della sua produzione, che nel suo complesso conta, soltanto da regista, ben 26 lavori, lungo un percorso complesso e affascinante. La vera riscoperta di Güney, in fondo, deve ancora avvenire.
Nelle prossime settimane ripercorreremo alcune delle opere viste a Lecce, in quello che è stato un omaggio sincero e prezioso, che si speria sia l’inizio della riconsiderazione globale della sua opera.
Pagina di Wikipedia inglese su Yilmaz Güney
Ritratto di Güney a cura di Orsola Casagrande
Filmografia di Güney su SinemaTurk
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