La parabola artistica di Nicolas Winding Refn per certi versi ricorda quella dei grandi autori hollywoodiani degli anni Settanta, intenzionati a rompere gli schemi e poi spesso costretti a lottare contro un mercato che, dopo averli incensati, volta loro le spalle. Ma con una differenza sostanziale: Refn ha usato questo cambiamento per dare forma a un progetto che oggi appare straordinariamente compiuto in sé e capace di riassumere tutta la prima parte della filmografia dell’autore danese.
I fatti sono noti: studente ribelle negli Stati Uniti e deciso a far da sé, Refn sfrutta un finanziamento ottenuto insperatamente in Danimarca per girare un noir nichilista che fa muovere paragoni con il primo Scorsese e che diventa il più grande successo commerciale della storia del cinema danese. Pusher esce nel 1996 e letteralmente “inventa” un microcosmo di varia umanità che ruota attorno al protagonista Frank, uno spacciatore di piccolo calibro che si trova per le mani un colpo in grado di cambiargli la vita, che però si conclude nel peggiore dei modi, con l’arresto e la necessità di sbarazzarsi della “roba”. Di qui inizia l’odissea nel vano tentativo di trovare i soldi per pagare il fornitore Milo. In sé la trama non sarebbe nemmeno così originale: oltre a Scorsese un paragone gustoso che si può muovere è anche con l’Amir Naderi di Manhattan by Numbers, ma senza la trasfigurazione quasi metafisica, quella che curiosamente caratterizzerà però i più recenti lavori di Refn: Pusher infatti è sporco e diretto, girato in larga parte con la macchina a mano (particolarmente prediletta da Refn) e ha il merito di indagare la realtà che racconta senza emettere giudizi, sviluppando una sorta di empatia con i protagonisti e il loro universo degradato.
Certo, all’epoca doveva essere un bel pugno nello stomaco il ritratto di questa Copenaghen così poco accomodante ed esplorata nei suoi angoli meno noti e più sordidi, ma oggi il film appare per certi aspetti un po’ troppo attento alla strutturazione di genere, a scapito dei personaggi (e infatti la sensazione è che spesso sia il grande carisma degli attori ad apportare quella compattezza che manca alla storia per renderla davvero reale e penetrante). Nulla comunque di cui scandalizzarsi, anche perché la cinefilia è un altro dei tratti fondamentali di Refn, che però è attento a non farla mai precipitare nel semplice citazionismo: non a caso nei film successivi essa diventerà invece un elemento utile a riflettere i limiti e le caratteristiche dei suoi protagonisti, per elevarli a un livello mitico. D’altronde, uno degli aspetti che Refn ci tiene a precisare spesso nelle interviste è la sua natura di artista, viziato però da una serie di limiti (dislessia, daltonismo, incapacità di manipolare praticamente la materia) che trovano quindi nell’elaborazione visiva una possibilità di creazione e creatività a lui congeniale. Che si sia dunque di fronte a un autore in crescita e, soprattutto, consapevole della portata teorica insita naturalmente nell’atto della creazione cinematografica è indubbio, ma nella trilogia di Pusher tutto corre ancora sottotraccia e si estrinseca principalmente nell’iconica sequenza dei titoli di testa, dove vengono presentati i personaggi, rimarcando la loro qualifica di attori della tragedia che da lì in poi si andrà a sviluppare.
Pusher II arriva nel 2004, all’indomani dell’insuccesso commerciale del pur ottimo Fear X e quindi appare contaminato dall’incertezza che il regista attraversa: gli serve un successo in grado di fargli rialzare la testa e questo rende il film più franto del primo, aperto a svirgolature liriche che si concretizzano nel bel finale (sospeso come quelli di tutti i capitoli della saga). Inoltre qui emerge più chiara la cifra stilistica della serie, che forgia una struttura a scatole cinesi dove i film, più che rincorrersi secondo una linearità cronologica, si intrecciano fra loro, inquadrando la realtà danese attraverso gli occhi di protagonisti differenti. Ecco dunque che Frank scompare dalla scena e il ruolo principale viene assunto da Tonny (lo straordinario Mads Mikkelsen, attore feticcio di Refn, visto anche in Casinò Royale di Martin Campbell), delinquente goffo e spiantato, tossico e impotente, alle prese con un padre che lo disprezza e una serie di scelte difficili e di responsabilità enormi, con in testa la nascita inaspettata (e non voluta) di una figlia. Si arriva quindi a un eccezionale livello di intimità con i personaggi attraverso la giustapposizione di sequenze in cui vediamo Tonny rubare auto e sniffare coca, e altre in cui lo seguiamo mentre è intento a cambiare i pannolini alla piccola! L’aspetto più interessante sta, insomma, nello scoprire il livello di disagio pure presente in quello che appariva nel primo film come uno dei personaggi più organici allo squallore dell’universo della tossicodipendenza. Il tono diventa quindi più cupo perché la concomitanza di ironia e violenza non fa altro che esaltare il gusto del paradosso per una comunità che viaggia costantemente sul filo del pericolo e dell’autodistruzione. Lo stile visivo nel contempo si affina, mantenendo la ruvidezza dell’esordio, ma aggiungendo una qualità spesso pittorica nell’uso della fotografia, con particolare evidenza nell’uso “sparato” e per questo impressionista dei rossi.
Con Pusher III, realizzato nel 2005 immediatamente dopo il secondo, si raggiunge con tutta evidenza il punto di maturazione stilistica dell’intera saga, all’interno del quale Refn sintetizza la sua visione e chiude la sua parentesi noir. Protagonista stavolta è Milo (l’ottimo Zlatko Buric, attualmente nelle sale in 2012, di Roland Emmerich), ovvero il fornitore serbo al quale Frank doveva restituire i soldi nel primo capitolo. Si tratta peraltro dell’unico personaggio ad apparire in tutti e tre i film, una sorta di curioso demiurgo che tiene le fila del mercato della droga a Copenaghen, anche se ufficialmente il suo lavoro è quello di gestore di una trattoria. Ma stavolta è un Milo diverso, che partecipa ai gruppi d’ascolto contro la tossicodipendenza e vuole preparare la festa di compleanno alla figlia. Di tempo ne è passato dal primo Pusher e Refn è consapevole che un cambiamento è in atto, tanto da spingere il personaggio più forte e sicuro di sé della saga in un vortice di disperazione che riverbera la caducità del potere criminale e la natura tragica della trilogia, i cui protagonisti vengono sempre progressivamente stritolati dall’ambiente nel quale si muovono: Milo diventa quindi vittima di una nuova generazione di fornitori albanesi, che intendono dominare il mercato della droga danese e approfittano di un credito maturato nei suoi confronti per costringerlo nel ruolo del servitore durante la squallida vendita di una minorenne al mercato della prostituzione. La reazione è tanto umana quanto fulminante e affonda nel sangue in un finale estremo e difficilmente dimenticabile! L'unico approdo possibile per questa umanità così fragile è dunque la piena violazione del corpo (atto di distruzione e rinascita insieme), scelta che per certi versi sembra chiudere il cerchio con quel cinema degli anni Settanta cui Refn è affine, come si ricordava in apertura: il risultato, in ogni caso, è un capitolo finale che si staglia come un capolavoro, oltre che come l’episodio più devastante dell’intera trilogia.
Sebbene ci sia stata una fugace edizione DVD del primo capitolo, i Pusher risultano di fatto sostanzialmente inediti in Italia: riscoperti da poco grazie alla bella personale dedicata all’autore dal Torino Film Festival, potrebbero prossimamente essere trasmessi da RaiSat colmando in questo modo un colpevole vuoto della nostra distribuzione. Incrociamo le dita!
La Copenaghen violenta di Nicolas Winding Refn
Nicolas Winding Refn al Torino Film Festival 2009 (video)
Articolo sulla trilogia di Pusher
The Pusher Trilogy trailer
3 commenti:
Sento parlare solo bene di questo regista...al momento non ho visto nulla, attendo "Valhalla Rising" al varco!
Ho visionato giusto l'altra sera il primo Pusher. Non è stata una folgorazione assoluta come Bleeder, ma comunque mi è piaciuto molto.
Forse è un film un pochino troppo diseguale, e come giustamente scrivi a tratti manca la completezza nella caratterizzazione dei personaggi.
La storia, per quanto non certo nuova, è comunque portata avanti con passione e un'affascinante contaminazione tra alto e basso, sporcizia e lirismo, amore mancato e violenza improvvisa (a quanto mi pare di aver capito sono peculiarità caratteristiche di tutto il cinema di Refn).
Strepitose, poi, alcune sequenze: la corsa disperata del protagonista per sfuggire alla retata della polizia, il momento in cui riempie di botte l'ex amico fraterno ed esce dal bar in lacrime, il bellissimo finale sospeso in cui senza bisogno di parole il suo volto lascia intendere tutta la consapevolezza del destino che lo attende.
ps: confermo che Pusher 1 si trova in versione italiana, peraltro mal doppiato (come al solito).
Grazie Alessio per la conferma relativa al primo "Pusher", ho provveduto a modificare il testo.
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