"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."(John Carpenter)
sabato 28 novembre 2009
Il rifugio
giovedì 26 novembre 2009
Pusher: La trilogia
La parabola artistica di Nicolas Winding Refn per certi versi ricorda quella dei grandi autori hollywoodiani degli anni Settanta, intenzionati a rompere gli schemi e poi spesso costretti a lottare contro un mercato che, dopo averli incensati, volta loro le spalle. Ma con una differenza sostanziale: Refn ha usato questo cambiamento per dare forma a un progetto che oggi appare straordinariamente compiuto in sé e capace di riassumere tutta la prima parte della filmografia dell’autore danese.
I fatti sono noti: studente ribelle negli Stati Uniti e deciso a far da sé, Refn sfrutta un finanziamento ottenuto insperatamente in Danimarca per girare un noir nichilista che fa muovere paragoni con il primo Scorsese e che diventa il più grande successo commerciale della storia del cinema danese. Pusher esce nel 1996 e letteralmente “inventa” un microcosmo di varia umanità che ruota attorno al protagonista Frank, uno spacciatore di piccolo calibro che si trova per le mani un colpo in grado di cambiargli la vita, che però si conclude nel peggiore dei modi, con l’arresto e la necessità di sbarazzarsi della “roba”. Di qui inizia l’odissea nel vano tentativo di trovare i soldi per pagare il fornitore Milo. In sé la trama non sarebbe nemmeno così originale: oltre a Scorsese un paragone gustoso che si può muovere è anche con l’Amir Naderi di Manhattan by Numbers, ma senza la trasfigurazione quasi metafisica, quella che curiosamente caratterizzerà però i più recenti lavori di Refn: Pusher infatti è sporco e diretto, girato in larga parte con la macchina a mano (particolarmente prediletta da Refn) e ha il merito di indagare la realtà che racconta senza emettere giudizi, sviluppando una sorta di empatia con i protagonisti e il loro universo degradato.
Certo, all’epoca doveva essere un bel pugno nello stomaco il ritratto di questa Copenaghen così poco accomodante ed esplorata nei suoi angoli meno noti e più sordidi, ma oggi il film appare per certi aspetti un po’ troppo attento alla strutturazione di genere, a scapito dei personaggi (e infatti la sensazione è che spesso sia il grande carisma degli attori ad apportare quella compattezza che manca alla storia per renderla davvero reale e penetrante). Nulla comunque di cui scandalizzarsi, anche perché la cinefilia è un altro dei tratti fondamentali di Refn, che però è attento a non farla mai precipitare nel semplice citazionismo: non a caso nei film successivi essa diventerà invece un elemento utile a riflettere i limiti e le caratteristiche dei suoi protagonisti, per elevarli a un livello mitico. D’altronde, uno degli aspetti che Refn ci tiene a precisare spesso nelle interviste è la sua natura di artista, viziato però da una serie di limiti (dislessia, daltonismo, incapacità di manipolare praticamente la materia) che trovano quindi nell’elaborazione visiva una possibilità di creazione e creatività a lui congeniale. Che si sia dunque di fronte a un autore in crescita e, soprattutto, consapevole della portata teorica insita naturalmente nell’atto della creazione cinematografica è indubbio, ma nella trilogia di Pusher tutto corre ancora sottotraccia e si estrinseca principalmente nell’iconica sequenza dei titoli di testa, dove vengono presentati i personaggi, rimarcando la loro qualifica di attori della tragedia che da lì in poi si andrà a sviluppare.
Pusher II arriva nel 2004, all’indomani dell’insuccesso commerciale del pur ottimo Fear X e quindi appare contaminato dall’incertezza che il regista attraversa: gli serve un successo in grado di fargli rialzare la testa e questo rende il film più franto del primo, aperto a svirgolature liriche che si concretizzano nel bel finale (sospeso come quelli di tutti i capitoli della saga). Inoltre qui emerge più chiara la cifra stilistica della serie, che forgia una struttura a scatole cinesi dove i film, più che rincorrersi secondo una linearità cronologica, si intrecciano fra loro, inquadrando la realtà danese attraverso gli occhi di protagonisti differenti. Ecco dunque che Frank scompare dalla scena e il ruolo principale viene assunto da Tonny (lo straordinario Mads Mikkelsen, attore feticcio di Refn, visto anche in Casinò Royale di Martin Campbell), delinquente goffo e spiantato, tossico e impotente, alle prese con un padre che lo disprezza e una serie di scelte difficili e di responsabilità enormi, con in testa la nascita inaspettata (e non voluta) di una figlia. Si arriva quindi a un eccezionale livello di intimità con i personaggi attraverso la giustapposizione di sequenze in cui vediamo Tonny rubare auto e sniffare coca, e altre in cui lo seguiamo mentre è intento a cambiare i pannolini alla piccola! L’aspetto più interessante sta, insomma, nello scoprire il livello di disagio pure presente in quello che appariva nel primo film come uno dei personaggi più organici allo squallore dell’universo della tossicodipendenza. Il tono diventa quindi più cupo perché la concomitanza di ironia e violenza non fa altro che esaltare il gusto del paradosso per una comunità che viaggia costantemente sul filo del pericolo e dell’autodistruzione. Lo stile visivo nel contempo si affina, mantenendo la ruvidezza dell’esordio, ma aggiungendo una qualità spesso pittorica nell’uso della fotografia, con particolare evidenza nell’uso “sparato” e per questo impressionista dei rossi.
Con Pusher III, realizzato nel 2005 immediatamente dopo il secondo, si raggiunge con tutta evidenza il punto di maturazione stilistica dell’intera saga, all’interno del quale Refn sintetizza la sua visione e chiude la sua parentesi noir. Protagonista stavolta è Milo (l’ottimo Zlatko Buric, attualmente nelle sale in 2012, di Roland Emmerich), ovvero il fornitore serbo al quale Frank doveva restituire i soldi nel primo capitolo. Si tratta peraltro dell’unico personaggio ad apparire in tutti e tre i film, una sorta di curioso demiurgo che tiene le fila del mercato della droga a Copenaghen, anche se ufficialmente il suo lavoro è quello di gestore di una trattoria. Ma stavolta è un Milo diverso, che partecipa ai gruppi d’ascolto contro la tossicodipendenza e vuole preparare la festa di compleanno alla figlia. Di tempo ne è passato dal primo Pusher e Refn è consapevole che un cambiamento è in atto, tanto da spingere il personaggio più forte e sicuro di sé della saga in un vortice di disperazione che riverbera la caducità del potere criminale e la natura tragica della trilogia, i cui protagonisti vengono sempre progressivamente stritolati dall’ambiente nel quale si muovono: Milo diventa quindi vittima di una nuova generazione di fornitori albanesi, che intendono dominare il mercato della droga danese e approfittano di un credito maturato nei suoi confronti per costringerlo nel ruolo del servitore durante la squallida vendita di una minorenne al mercato della prostituzione. La reazione è tanto umana quanto fulminante e affonda nel sangue in un finale estremo e difficilmente dimenticabile! L'unico approdo possibile per questa umanità così fragile è dunque la piena violazione del corpo (atto di distruzione e rinascita insieme), scelta che per certi versi sembra chiudere il cerchio con quel cinema degli anni Settanta cui Refn è affine, come si ricordava in apertura: il risultato, in ogni caso, è un capitolo finale che si staglia come un capolavoro, oltre che come l’episodio più devastante dell’intera trilogia.
Sebbene ci sia stata una fugace edizione DVD del primo capitolo, i Pusher risultano di fatto sostanzialmente inediti in Italia: riscoperti da poco grazie alla bella personale dedicata all’autore dal Torino Film Festival, potrebbero prossimamente essere trasmessi da RaiSat colmando in questo modo un colpevole vuoto della nostra distribuzione. Incrociamo le dita!
La Copenaghen violenta di Nicolas Winding Refn
Nicolas Winding Refn al Torino Film Festival 2009 (video)
Articolo sulla trilogia di Pusher
The Pusher Trilogy trailer
lunedì 23 novembre 2009
Torino 27: il ritorno
E’ andata bene, ed è un sollievo scriverlo. Gianni Amelio e la sua squadra hanno fatto un buon lavoro cercando non di cambiare quanto di riequilibrare. A festival terminato si può infatti considerare la 27a edizione del TFF un interessante work-in-progress verso una forma al passo non tanto con i tempi (che sono quelli che sono…), ma soprattutto con la storia e la tradizione di questo fondamentale appuntamento cinefilo.
Sembra che finalmente, insomma, ci si sia posto il problema di non personalizzare la manifestazione sulle idiosincrasie del direttore di turno, che ha invece lavorato di concerto con la sua squadra come un filtro, attraverso il quale far passare un sentire variegato, in modo da dare espressione alle più diverse manifestazioni cinematografiche.
In questo senso facciamo nostre le parole di Dario Zonta, che, nel commentare il premio andato al bravo Pietro Marcello per il suo La bocca del lupo, ha giustamente rimarcato l’importanza di inserire nella selezione ufficiale un titolo così distante dai formati canonici: un atipico ritratto della città di Genova, fra filmati di repertorio e contemporaneità, visto attraverso i racconti di vita di due personaggi borderline, Enzo e Mary, innamoratisi in carcere. Un lavoro caratterizzato da una forma di lirismo capace di farsi immediatamente narrazione empatica e quindi emotiva, antitetica ai canoni del genere documentario in cui pure l’opera si può ricondurre. E tutto questo peraltro in soli 67 minuti di durata (impossibile pensare a un eventuale passaggio televisivo…)! Un film che sarà distribuito anche nelle sale italiane da BIM.
Lasciamo quindi da parte i (per fortuna pochi) piagnistei di chi invocava più glamour, e anche gli inopportuni trionfalismi incentrati principalmente sulle cifre dei “tutto esaurito”, ma anche le seriosità di chi invece rivendicava il rigore come cifra fondamentale della kermesse: Torino è qualcosa di più, e meno male. E’ la possibilità di pensare che il cinema possa ancora costituire un polo attrattivo a prescindere dal nome e dai pruriti del politico di turno: questa attitudine è l’unica capace di rendere un evento culturale importante e bello da seguire, prezioso anche quando finisca per mancare il capolavoro. Ecco dunque che il concorso ha ritrovato una centralità altrimenti dimenticata, grazie a una intelligente razionalizzazione del programma, in passato sparso in una struttura a ragnatela che creava soltanto confusione.
Certo, non eccediamo in trionfalismi: c’è ancora del lavoro da fare per trovare il giusto equilibrio fra visibilità e offerta. La sezione Festa Mobile, pure pregna di titoli interessanti, ha riunito molti degli spazi collaterali del passato (fuori concorso, omaggi ai maestri), ma è apparsa come un corpo-monstre all’interno del Festival e ha un po’ fagocitato il resto. Il riferimento non è tanto alle retrospettive che, storicamente, costituiscono una piccola “riserva” dai contorni ben delimitati e che il pubblico sa riconoscere e amare facilmente, ma alle sezioni Onde e Figli e amanti. La prima, dedicata al cinema sperimentale, nonostante un programma di altissima qualità è apparsa infatti sacrificata da una programmazione poco penetrante, con orari non sempre agevoli, spesso in contrapposizione ad eventi di larga portata: spiace ad esempio che un gioiello come Un sourir malicieux, di Christelle Lheureux, eccezionale rilettura/ripensamento de Gli uccelli di Sir Alfred Hitchcock sia stato lanciato contro la serata-evento che ha visto il sommo Francis Ford Coppola presentare la versione restaurata di Scarpette rosse. E che in generale la bellissima idea dell’Hitchcock Day non abbia avuto la centralità che meritava. Ed è solo un esempio.
I titoli culto dei registi italiani, protagonisti della sezione Figli e amanti, sono anche apparsi sacrificati, smorzando l’interessante ripensamento di quella che l’anno scorso era (seppur con una formula diversa) una delle proposte più esaltanti del festival.
Comunque la direzione tracciata è quella giusta, meno scanzonata e più ragionata rispetto a una decina d’anni fa, e in cerca di un baricentro che possiamo fiduciosamente sperare verrà trovato nei prossimi anni. Intanto ci portiamo dentro il piacere dell’aggregazione che genera il culto (ad esempio per l’esaltante personale di Nicolas Winding Refn), ma soprattutto della scoperta, con una serie di titoli che troveranno spazio nei prossimi articoli del Nido. C’è tanto buon cinema in giro e appuntamenti come questo servono a ricordarcelo, mentre il mondo “di fuori” dedica troppa attenzione a prodotti che non lo meriterebbero. La cinefilia, in fondo, è militanza e diventa in sé atto critico che porta a far conoscere e amare il cinema: è stato proprio Torino a enunciarlo anni fa (allora il direttore era Stefano Della Casa) e oggi siamo lieti che sia stato ancora Torino a ricordarcelo.
mercoledì 11 novembre 2009
Torino 2009
Il video postato questa settimana (e che rimarrà anche la prossima) nello spazio Visioni dalla Rete è stato realizzato in occasione dei giochi olimpici invernali 2006, ma si adatta bene anche al nostro caso, poiché dal 13 al 21 novembre Torino ridiventerà davvero il centro del mondo! Lo sarà per tutti gli appassionati di cinema, ovviamente, e quindi per chi, come noi, ha incentrato i suoi interessi sulla settima arte: una nuova edizione del Torino Film Festival va a cominciare e stavolta le premesse sono oltremodo allettanti!
Finita la grigia e seriosa era morettiana che tanta fortuna commerciale aveva portato, ma che aveva anche rischiato di compromettere l’informalità e quella particolare eterogeneità, anche bulimica, dell’offerta, il festival già sulla carta sembra essersi liberato. A scorrere i titoli del programma-monstre messo insieme dal nuovo direttore Gianni Amelio insieme ai suoi collaboratori, sembra infatti di essere tornati ai tempi in cui il festival era nelle mani di Stefano Della Casa, Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto… quando i disagi erano sicuramente tanti a causa di un parterre di titoli fra i quali la scelta era davvero improba, ma che permetteva allo stesso tempo di immergersi nello spazio amico di registi tanto amati e anche di fare nuove e incredibili scoperte!
E su questo punto Amelio la sua differenza l’ha già marcata, quando ha spiegato che rispetto a Moretti “Sono un po’ più aperto verso quello che non mi piace, non faccio il direttore di Festival come se facessi il regista di un mio film” e ribadendo la necessità di una “generosità dello sguardo” di cui il festival sentiva il bisogno.
Spazio dunque a due formidabili retrospettive dedicate al grande classico del cinema americano Nicholas Ray e al maestro del cinema giapponese Nagisa Oshima. In mezzo piccoli omaggi ad autori come Kusturica e al Sommo Francis Ford Coppola, ma anche al talento emergente dell’ottimo Nicholas Winding Refn. E poi il concorso lungometraggi dal quale si spera arrivino le novità, mentre la sezione La Zona viene ribattezzata “Onde”, ma ha sempre in Massimo Causo l’uomo guida per la scoperta delle tendenze del cinema sperimentale: da qui arrivano proposte ghiottissime come i Ga-nime, ovvero la nuova “invenzione” della Toei Animation sul formato del cortometraggio, e l’Hitchcock Day!
Appuntamento sotto la Mole insomma, con un rinnovato entusiasmo che speriamo trovi il suo naturale appagamento nella visione!
Il sito del Torino Film Festival
martedì 10 novembre 2009
L’uomo che fissa le capre
Il giornalista Bob Wilton decide di andare in Iraq dopo essere stato mollato dalla moglie e in questo modo conosce Lyn Cassidy, ultimo esponente dell’ormai smobilitato Esercito Nuova Terra, formato da soldati addestrati all’uso dei poteri psichici, con cui cambiare il corso degli eventi bellici in modo non violento. Ora Cassidy sta tentando di ritrovare Bill Django, fondatore dell’innovativo corpo speciale dell’esercito, e Bob, curioso rispetto agli eventi, lo accompagna, ritrovandosi così coinvolto in una girandola di situazioni surreali.
“Ora più che mai c’è bisogno dei Jedi!”. La frase ha un effetto immediato per come riesce a contestualizzare la doppia direttrice su cui si muove il film, ovvero quella più squisitamente cinefila, ma anche quella che permette alla forza (la Forza) benefica del cinema di affondare nei malesseri di una realtà che ha bisogno di punti di riferimento. Facile dunque vedere L’uomo che fissa le capre come una sorta di moderna rivisitazione della cifra grottesca che aveva reso grande un M.A.S.H. e che dunque punta all’irrisione della guerra attraverso la messa in evidenza della sua assurdità: materiale in questo senso non manca, con in testa i militari americani che si sparano addosso l’un l’altro poiché convinti di essere sotto attacco nemico!
D’altronde se davanti e dietro la macchina da presa c’è un autentico liberal come George Clooney (attore e produttore insieme al socio Grant Heslov, che qui debutta come regista) il sospetto di una voglia di rinnovare il cinema di genere più impegnato è ben legittima: ma soprattutto è importante tenere presente la figura dell’attore americano per permettere alla materia di scivolare dentro e fuori i riferimenti più problematici, dando al tutto una natura ondivaga che ne impedisca il facile imbrigliamento in schemi poco opportuni. Se, infatti, Clooney è anche un corpo coeniano, tanto da rimandare alla bizzarria dei registi di Fratello dove sei?, il film rifugge fortunatamente quel macchiettismo spesso autoreferenziale dei due autori citati, per non perdere mai di vista una dimensione morale che riconduce sempre tutto alla Storia e alla società dell’America (tema, questo sì, squisitamente ascrivibile a tanto cinema di Clooney regista, produttore e interprete).
Pertanto, il viaggio di Bob e Lyn è anche un viaggio nell’evoluzione di un modo di guardare il mondo che dal pacifismo dei Settanta è infine giunto all’aberrazione della dottrina guerrafondaia di George Bush: l’esercito Nuova Terra, dunque, diventa non soltanto un tentativo di ridere della guerra per mostrarne la fragilità concettuale, ma anche, e soprattutto, l’espressione di una volontà coraggiosa che intende fondare una nuova mitologia del soldato, refrattario alla violenza e disposto a operare per il Bene comune. Ciò che dunque il film ci racconta è il tentativo, post Vietnam, realmente portato avanti dall’America (una parte almeno...), di reinventarsi come forza non belligerante ma intenta a cercare nuove strade, salvo poi ripiombare improvvisamente (e senza l’alibi del terrorismo, che nel film è pressoché assente) nella follia della violenza. Perché l’unica autentica rivoluzione che il pacifismo può ancora combattere è unicamente quella culturale: il parallelo con i Jedi è dunque fondante se consideriamo che l’ordine guerriero lucasiano è formato da Custodi della Pace e non da soldati. Il conflitto fra il Lato Chiaro e quello Oscuro è pertanto quello sul confine che porta la difesa della Pace a diventare strumento di guerra e la persuasione psichica votata alla non violenza a mutare in arma assassina che uccide le creature inermi.
Il tutto trova la sua forma attraverso una classica dicotomia fra due personaggi stralunati che incarnano una gioiosa follia, ma anche una curiosità comune per eventi straordinari in grado di ridefinire il rapporto con la speranza: il film, in questo senso, non scioglie l’ambiguità circa la possibile veridicità dell’esercito Nuova Terra fino all’ultima inquadratura, lasciando alla narrazione il compito di affastellare eventi attraverso una serie di flashback che rivelano la storia del corpo speciale. La figura iconica del sempre grandissimo Jeff Bridges unisce così la tensione spirituale dello Starman carpenteriano con l’ironia lisergica del Grande Lebowski, mentre la presenza di Ewan McGregor costituisce il tramite ideale con la saga di Star Wars. Tutti segni cinefili indispensabili per tracciare il percorso lungo cui muovere la storia.
La natura ondivaga del progetto permette quindi alla vicenda narrata di unire insieme una grande forza d’animo, capace di veicolare un messaggio costruttivo, ma anche una forte dose di malinconia per le speranze deluse che hanno lasciato il campo a un nichilismo più disperato. Il percorso, in fondo, è davvero quello di un Jedi che deve combattere la sua battaglia, ignorando la paura e perseguendo il proprio obiettivo. In questo senso L’uomo che fissa le capre è un film che merita di essere amato e seguito, come un monito, ma anche come un raro barlume di speranza in un’epoca che sembra aver perso il senso delle cose e ha persino deprivato i vecchi feticci di ogni carica ancestrale. E’ dunque un film che rimette in circolo idee, ricordi, emozioni e, naturalmente, tanto cinema! Sta a noi portarlo meritatamente in trionfo.
L’uomo che fissa le capre
(The Man Who Stare at Goats)
Regia: Grant Heslow
Sceneggiatura: Peter Straughan, dal romanzo "Capre di guerra", di Jon Ronson
Origine: Usa, 2009
Durata: 93’
Grant Heslov, George Clooney e Ewan McGregor sul film
Sito ufficiale americano
Sito in italiano
mercoledì 4 novembre 2009
The Human Centipede (First Sequence)

Regia e Sceneggiatura: Tom Six
Origine: Olanda/Uk, 2009
Durata: 90’