"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."(John Carpenter)
mercoledì 1 gennaio 2014
venerdì 22 novembre 2013
Torino 2013
Torino 2013
Come ogni anno è
arrivato il tempo di fare le valige e partire per il Torino Film
Festival: ormai si è quasi fatta l'abitudine a non dare mai nulla
per scontato e a considerare che per la manifestazione piemontese
ogni anno segna un nuovo punto di partenza. Perché il panorama dei
festival, si sa, è cambiato profondamente da un po' di tempo a
questa parte; perché l'annata 2013, in particolare, si è già
distinta per meritorie edizioni da parte delle rassegne “concorrenti”
(di Cannes e Venezia si è già scritto, ma anche Locarno e –
inaspettatamente – Roma hanno dimostrato di avere ottime frecce ai
rispettivi archi); e poi perché quest'anno c'è un nuovo cambio al
vertice, con Paolo Virzì che subentra a Gianni Amelio nel ruolo di
direttore.
Certo, lo “scossone”
è mitigato dal fatto che il gruppo di lavoro (coordinato da Emanuela
Martini) è rimasto sostanzialmente lo stesso, premiando una formula
che, nonostante le polemiche gratuite e le continue riduzioni di
budget, ha pagato, dando al festival la forma di un appuntamento di
qualità, curioso e attento alla ricerca e alla sperimentazione, ma
con un tono più “rilassato” rispetto alla concorrenza: se il
titolo è buono non c'è l'affanno di esibirlo necessariamente in prima mondiale (anche se le anteprime assolute non mancano),
perché Torino è un po' evento della propria città, un po' vetrina
per il mondo.
Il programma da questo
punto di vista è sempre un bel biglietto da visita e anche
quest'anno si presenta interessante: ci sono titoli acclamati da
registi come Quentin Tarantino (Big Bad Wolves, dai registi di
Kalevet),
c'è l'omaggio a un regista come Yu Lik Wai nella sezione Onde (che a
Venezia anni fa fece gridare al miracolo con il suo Plastic City),
c'è la solita formula “liquida” articolata attraverso spazi mai
chiusi ma in perenne comunicazione fra loro (la sezione “nera”
After Hours e il mare magnum di Festa Mobile). E poi c'è la
retrospettiva sulla New Hollywood, che prenderà due anni di
programmazione, essendo spalmata su questa edizione e sulla prossima,
e che conclude idealmente un percorso che a Torino inizia da lontano,
da quando, nel 1999, Giulia D'Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto
dedicarono un indimenticabile omaggio a John Carpenter con tutte le
sue pellicole.
Da allora il cinema
americano è sempre stato di casa a Torino, di concerto con tutte le
altre filmografie, rivolgendosi a un pubblico onnivoro e non snob, e
piace constatare come certe tradizioni trasversali a classificazioni
e generi siano rimaste intatte, dimostrando come la manifestazione
resti coerente con il proprio spirito, sebbene orientata al nuovo. Buon festival a tutti e ci si vede in sala!
sabato 16 novembre 2013
Il castello nel cielo
Il castello nel cielo
Fuggita da un'aeronave dopo l'attacco di alcuni pirati, la giovane Sheeta viene soccorsa da Pazu, un ragazzo che lavora in miniera e che sogna di ristabilire il nome di suo padre, morto in disgrazia dopo aver avvistato la leggendaria isola volante di Laputa, a cui nessuno crede. Sheeta, peraltro, porta con sé un'aeropietra, un monile le cui origini risalgono proprio a Laputa e che la rende appetibile tanto ai pirati (che non smettono di inseguirla) quanto al Colonnello Muska, un sinistro funzionario governativo che intende raggiungere l'isola volante per carpirne i segreti. Durante la fuga, Pazu apprende che Sheeta stessa discende dalla stirpe reale di Laputa e si allea con i pirati per raggiungere l'isola del cielo.
Fuggita da un'aeronave dopo l'attacco di alcuni pirati, la giovane Sheeta viene soccorsa da Pazu, un ragazzo che lavora in miniera e che sogna di ristabilire il nome di suo padre, morto in disgrazia dopo aver avvistato la leggendaria isola volante di Laputa, a cui nessuno crede. Sheeta, peraltro, porta con sé un'aeropietra, un monile le cui origini risalgono proprio a Laputa e che la rende appetibile tanto ai pirati (che non smettono di inseguirla) quanto al Colonnello Muska, un sinistro funzionario governativo che intende raggiungere l'isola volante per carpirne i segreti. Durante la fuga, Pazu apprende che Sheeta stessa discende dalla stirpe reale di Laputa e si allea con i pirati per raggiungere l'isola del cielo.
E' il primo
lungometraggio ufficialmente realizzato sotto il marchio dello Studio
Ghibili, fondato da Hayao Miyazaki e soci dopo il sorprendente
successo del precedente Nausicaa della valle del vento:
il film vanta peraltro una distribuzione abbastanza sfortunata nel
nostro paese, dove era uscito direttamente in DVD per la Buena Vista
nel 2004, salvo essere poi ritirato dal mercato dopo poche settimane,
lasciando in tal modo mano libera agli speculatori disposti a vendere
a peso d'oro l'agognato dischetto. Per fortuna ci ha poi pensato la
Lucky Red a fare giustizia, con un'uscita nelle sale nella prima metà
del 2012 (cui è seguita quella nei formati dell'Home Cinema).
Il
continuo rimpallo delle date ci consegna perciò un'opera
letteralmente fuori dal tempo, ambientata non a caso in un passato
dove le automobili sono rarità, e la civiltà di Laputa si è
estinta, lasciando però in eredità avanzatissime conoscenze
tecnologiche che fanno gola al cattivo di turno: un futuro
“anteriore” dove il regista ha modo di articolare le sue tipiche
ossessioni da post-apocalisse potenziale, tanto che il tono appare in
continuità con l'odissea fantasy di Nausicaa
e più schiettamente avventuroso di quanto non avverrà con le opere
della maturità. In effetti, a ben guardare, Il castello
nel cielo è oggi definibile
come una pellicola che chiude un ciclo, con cui Hayao Miyazaki paga cioè il meritato
tributo alla prima fase della sua carriera, quella che si era
articolata in misura maggiore negli ambiti della serialità
televisiva: se, infatti, stilisticamente il ritmo è più franto,
diviso da dissolvenze a nero che sembrano quasi scandire una serie di
capitoli, narrativamente la vicenda di Pazu e Sheeta riflette il
dinamismo dell'azione di Lupin III - con ovvio riferimento al film Il
castello di Cagliostro, che
aveva segnato l'esordio cinematografico dell'autore.
Il
rapporto fra i due bambini e la loro opposizione a un nemico
bellicista e animato da sete di potere, sullo sfondo garantito da una
doppia realtà ugualmente proiettata fra la natura che ha invaso
Laputa e l'orrore che le macchine dell'isola sono in grado di
scatenare, fa però pensare soprattutto a Conan il ragazzo
del futuro, la serie che aveva
letteralmente rivelato il talento di Miyazaki nel 1978: una
sovrapponibilità che è tale non solo dal versante narrativo, ma
anche da quello più squisitamente iconografico, con uno scenario
naturale attraversato da bizzarre creazioni meccaniche, mentre i
pirati di turno appaiono come dei simpatici pasticcioni che alla
bisogna possono anche convertirsi al bene: né più né meno come
accadeva con il celebre Capitano Dyce – e non ci sembra un caso che
Dola, la volitiva matrona dei pirati, si impunti perché Pazu la
chiami, appunto, “Capitano”!
Ne
viene fuori un'opera fra le più “porose” di Miyazaki, regista
che, pur essendo sensibile alle storie altrui (pensiamo a come molti
suoi lavori siano di derivazione letteraria), è quasi sempre solito
descrivere spazi e mondi che diventano inevitabilmente suoi,
e che qui si fanno invece cartina di tornasole di un immaginario
composito e perfettamente addentro agli umori della propria epoca: si
respira in tal modo un senso di libertà inedito anche per la
filmografia stessa dell'autore, dove la facilità con cui i corpi si
muovono nel cielo, su precipizi, piante e interstizi del reale (senza
mai provare alcuna vertigine) si riflette in una struttura che mette
insieme agevolmente formato seriale, derivazioni letterarie (Laputa
proviene da I viaggi di Gulliver
di Jonathan Swift), e anche gli umori della fantascienza coeva.
Sebbene
il testo seminale del post-apocalittico nipponico degli Ottanta
arriverà solo due anni dopo (il riferimento, naturalmente, è ad
Akira),
il film respira infatti di atmosfere vagamente cyberpunk,
in cui lo stile sembra cercare una sintesi fra la tipica tensione
naturalista cara all'autore e le possibilità distruttive insite nella tecnologia. La
dicotomia natura/progresso si stempera in un caleidoscopio visivo
tipicamente ottantesco nelle scelte cromatiche (dove fanno capolino
tonalità elettriche e scenari di matrice a tratti espressionista e
futurista) che, pur non derogando mai dalla classica dicotomia
buono-cattivo, sembra in più passaggi solleticare l'idea di una
coesistenza possibile fra gli opposti.
Laputa
in tal modo si configura come una possibile terra delle opportunità:
il luogo cioè dove non solo i fronti possono ricompattarsi (i pirati
e i bambini che si alleano), ma dove è anche possibile coniugare
tecnologia e natura, al punto che la seconda è affidata a
giganteschi robot pure dotati di incredibile capacità distruttiva (e
che ricordano i giganti di Nausicaa,
giusto per rimanere nel cerchio dei riferimenti). Un mondo che non a
caso sta fra la concretezza della pietra in cui è intagliato il suo
spazio e la dimensione favolistica garantitale dalle leggende e dal
passaggio fra le nubi, a sua volta memore delle atmosfere del Mago
di Oz. Fantasy e fantascienza
trovano sul suo terreno un recinto fertile, dove articolare le
rispettive pulsioni, e non ci sembra un caso se la parte finale
diventa un coacervo di visioni che stanno fra le anticipazioni di
Otomo e James Cameron (pensiamo agli Avatar
e ai Titanic a venire)
e vaghe reminiscenze da Guerre stellari
(il raggio distruttore che riecheggia quello della Morte Nera).
In
tal modo, più che un'opera di sintesi, Il castello nel
cielo, finisce per diventare
un'evoluzione del pensiero che guidava il primo Miyazaki e un
completamento di anni di lavoro: il fatto che tutto questo si
articoli attraverso le forme della “semplice” avventura ce lo
rende ancora più amabile e prezioso, oltre che sempre
straordinariamente attuale.
Il
castello nel cielo
(Tenku
no Shiro Rapyuta)
Regia
e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine:
Giappone, 1986
Durata:
124'
lunedì 4 novembre 2013
Encounters at the end of the World
Encounters at the end of
the World
Werner Herzog si reca
in Antartide per documentare la vita nella stazione scientifica
McMurdo, situata sull'isola di Ross. Si imbatte così in uomini
animati da grandi ideali, ma anche da persone che hanno scelto di
fuggire da tutto e che magari si sono completamente reinventate
(scienziati che guidano mezzi pesanti per il trasporto, ad esempio) o
hanno finalmente trovato se stessi. Il viaggio comprende
l'esplorazione della base e dello scenario ghiacciato, con punte
sotto la calotta, attraverso le riprese di alcuni sub o entrando
nelle caverne scavate dalle eruzioni sottomarine. L'isola comprende
anche il vulcano Erebus, cui Herzog fa tappa, documentando gli studi
dei vulcanologi, e un'immancabile comunità di pinguini.
Quasi lo speculare de
L'ignoto spazio profondo, il documentario Encounters at the End of
the World nasce effettivamente come tentativo di andare oltre
quel progetto: Herzog, infatti, era rimasto affascinato dalle
sequenze subacquee girate dall'amico Henry Kaiser (qui produttore e
autore delle musiche), ma la sua esplorazione del continente
antartico appare anche stavolta come una ricerca dei limiti, di vite
che hanno compiuto scelte estreme, di sguardi nuovi su realtà
complesse. Su tutto, però, domina nuovamente quel doppio sguardo che
da un lato sogna ipotesi futuribili, in grado di farci affacciare su
possibili scenari a venire dell'umanità; e dall'altro riflette sul
senso del nostro stare al mondo di fronte a una natura ostile, spesso
vittima delle nostre azioni, ma che pure si staglia con tutta la sua
forza, in modo tale da risultare incredibilmente affascinante.
La specularità con
L'ignoto spazio profondo si ritrova dunque nella scelta di uno
stile documentaristico tradizionale (con tanto di voce narrante dello
stesso Herzog che commenta i fatti, a volte anche con tono
demistificatorio) che però non riesce a far venir meno l'idea di
trovarsi di fronte a una sorta di bizzarra opera fantascientifica,
per le implicazioni tirate in ballo dagli scienziati e per lo
scenario assolutamente alieno di un'Antartide che si rivela però
pregna di una vita altrimenti indefinibile: mostruose creature che
vivono sotto la calotta polare, enormi distese di ghiaccio che –
gli scienziati lo spiegano bene – sono da considerarsi quasi esseri
viventi per il dinamismo cui sono sottoposte dalle forze che regolano
la fisica terrestre. E poi il magnetismo che rende impossibile
l'orientamento e che trasforma il gusto per la scoperta in
un'esplorazione avveniristica, pari a quella dei viaggiatori dello
spazio. Non a caso, la base di McMurdo viene vista dallo stesso
regista come un territorio proteiforme: in parte avamposto
tecnologico, in parte sorta di enorme cantiere che evoca scenari più
da miniera che da stazione scientifica, in parte enorme città/parco
giochi da cui fuggire per il più “serio” orizzonte ghiacciato.
Penso che una buona
parte della popolazione, qui, sia composta da persone che sono
contemporaneamente viaggiatori a tempo pieno e lavoratori part-time.
Quindi, sì, loro sono dei sognatori professionisti, sognano per
tutto il tempo. E penso che, attraverso loro, i grandi sogni cosmici
entrano in circolo, perché l'universo sogna per i nostri sogni.
Penso ci siano molti modi diversi per la realtà di andare avanti e
il sogno è assolutamente uno di questi.
(Stefan Pashov –
filosofo e operaio ai carrelli elevatori)
Herzog esalta il valore
del sogno, tornando anche alle origini dell'esplorazione antartica di
Henry Shackleton, Robert Scott e Roald Amundsen, e spiega come è
cambiato il rapporto dell'umanità con il continente: da terra ostile
e imprendibile a sorta di nuovo orizzonte delle opportunità. In tal
modo il film sembra muovere ancora una volta una critica a un mondo
“di fuori” che i personaggi intervistati sembrano rifuggire,
chiamando anche esplicitamente in causa l'apocalisse (lo scienziato
che visiona film di fantascienza anni Cinquanta) o i metodi di vita
alternativa (l'appassionato di filosofia new age che coltiva
pomodori). Lo sguardo è curioso, goloso, attento a riprodurre la
varietà degli spunti che la materia offre, ma allo stesso tempo
anche esistenzialista:
diventa emblematico, in tal senso, il ruolo dei pinguini. Il regista
spiega chiaramente all'inizio come non si sia recato in Antartide per
filmare i pinguini, animali che, peraltro – e sarebbe interessante
capire il perché – in tempi recenti hanno goduto di un'esposizione
filmica notevole, tanto da diventare anche personaggi cult in opere
animate come Madagascar
o Surf's Up.
Herzog rifugge da queste caratterizzazioni, ma evita anche il facile anticonformismo di riportare i pinguini stessi alla loro condizione animale attraverso un approccio documentaristico classico. Al contrario, evoca ironicamente le dinamiche della loro sessualità, ma soprattutto ci colpisce con l'immagine altamente evocativa di uno di loro che si stacca dal gruppo e, come in preda a una folle frenesia, si dirige verso gli spazi aperti, condannandosi in tal modo a una fuga che è anche una inconsapevole ricerca di morte. Un pezzo di cinema incredibile e altissimo, una scheggia di irrazionalità che si incista nel reale con tale naturalezza da erodere ancora una volta il confine tra la documentazione asettica del mondo e la tensione fantastica che il regista sembra perseguire in un misto di abilità nel “catturare” l'ignoto e sensibilità nel cogliere “l'umanità” (da intendersi come mera umoralità) iscritta nei recessi della natura.
Herzog rifugge da queste caratterizzazioni, ma evita anche il facile anticonformismo di riportare i pinguini stessi alla loro condizione animale attraverso un approccio documentaristico classico. Al contrario, evoca ironicamente le dinamiche della loro sessualità, ma soprattutto ci colpisce con l'immagine altamente evocativa di uno di loro che si stacca dal gruppo e, come in preda a una folle frenesia, si dirige verso gli spazi aperti, condannandosi in tal modo a una fuga che è anche una inconsapevole ricerca di morte. Un pezzo di cinema incredibile e altissimo, una scheggia di irrazionalità che si incista nel reale con tale naturalezza da erodere ancora una volta il confine tra la documentazione asettica del mondo e la tensione fantastica che il regista sembra perseguire in un misto di abilità nel “catturare” l'ignoto e sensibilità nel cogliere “l'umanità” (da intendersi come mera umoralità) iscritta nei recessi della natura.
E'
l'emblema perfetto dei limiti che la ricerca chiama in causa, di
grandi possibilità che diventano anche una strada verso la
perdizione. La vita e la morte, insomma, in uno scenario ostile ma
anche di grande fascino visivo, esplorato con una buona dose di
lirismo, non dissimile da quella già vista nelle ultime prove
documentaristiche dell'autore: a metterle insieme verrebbe fuori una
mappa abbastanza omogenea di un percorso che il cineasta tedesco –
pur senza rinunciare al faceto – sta compiendo. Una sorta di
ricerca delle origini dell'uomo e, va ribadito, del suo stare al
mondo, ma anche della fine o del possibile reinizio. Non a caso una
delle ultime immagini riguarda il lancio di una mongolfiera, che
sembra quasi rappresentare un collegamento e un'ideale chiusura del
cerchio con il poco distante (e precedente) Il diamante
bianco.
Il
documentario, realizzato nel 2007, è tuttora inedito per la
distribuzione italiana.
Encounters
at the End of the World
Regia
e sceneggiatura: Werner Herzog
Origine:
Usa, 2007
Durata:
97
giovedì 31 ottobre 2013
Halloween 2013
Halloween 2013
Quando ero piccolo
invidiavo gli americani perché avevano Halloween e aspettavo la
mattina dell'1 novembre per vedere i servizi al telegiornale sulla
parata di New York. Non mi sono mai piaciute le feste comandate: il
Natale? Sì ok i regali, però poi parenti e tanta noia. Pasqua?
Lasciamo perdere... invece Halloween era la festa dell'horror,
pazzerella, colorata e piena di mostri, era quella giusta per me
insomma!
Il che va, per inciso, di
pari passo con la mia preferenza per un horror giocoso e fantastico,
capace cioè di esaltare il gusto per le creature, l'invenzione, il
volo pindarico nell'assurdo, quello che negli anni ha creato maschere
irresistibili (da Frankenstein a Fred Krueger), che in effetti non mi
hanno fatto mai realmente “paura”, perché il punto non era
quello: era piuttosto che mi affascinavano, meravigliavano, mi
aiutavano a coltivare il piacere dell'immaginazione. Per questo
ancora adesso li contrappongo all'horror "realista" a base di
serial killer che oggi va per la maggiore (e che non a caso mi ha fatto allontanare un po' dal genere, insieme all'eccesso di remake).
Così, quando Halloween è
arrivata in Italia (o meglio quando ce la siamo ripresa, vista la
matrice mitteleuropea e i vari culti localistici nostrani dedicati ai
morti e pieni di zucche e folklore) è stata una soddisfazione. A
ciascuno la propria festa, com'è giusto, e Halloween è certamente
la mia, da sempre. E tanto basta!
Buon Halloween a tutti!
giovedì 17 ottobre 2013
Venezia 70: i film (4/4)
Venezia 70: i film (4/4)
Palo Alto, di Gia
Coppola (Orizzonti)
Quella dei Coppola sta
ormai diventano una famiglia (cinematografica) molto allargata: dopo
il patriarca Francis e i suoi due figli Sofia e Roman (senza
dimenticare il nipote Nicola, ovvero Nicolas Cage), ecco farsi avanti
la giovane nipote Gia (sta per Giancarla), ex modella, che qui scrive e
dirige un ritratto adolescenziale nella classica cittadina di
provincia in cui il male di vivere si manifesta con maggiore
evidenza. Che l'argomento sia quello è evidente sin dall'accesa
metafora della scena iniziale, in cui due adolescenti in auto si
schiantano contro il muro che si trova a pochi centimetri da loro
(l'auto infatti era parcheggiata); da lì si prosegue principalmente
seguendo l'impresa di April, studentessa delle superiori che subisce
(e in un certo senso anche cerca) le attenzioni del suo professore di
educazione fisica, interpretato da James Franco, sempre a suo agio
con ruoli borderline. L'influenza di zia Sofia è evidente, la
giovane Gia si circonda di tutto ciò che può aiutarla a sentirsi a
suo agio (Francis ha un cameo vocale, mentre in un piccolo ruolo
compare l'altra zia, Talia Shire), ma lo sguardo è sincero e il racconto si snoda in modo lineare, ma affascinante, creando un'atmosfera rarefatta e a tratti poetica. Merito anche del volto imbronciato di Emma Roberts, una bella mappa su cui
iscrivere le emozioni che le singole storie vogliono portare avanti.
Ukraina ne
Bordel/Ukraine is not a Brothel, di Kitty Green (Fuori Concorso)
Titolo annunciato tra i
più “forti” della Mostra, anche se più che altro per le
pruriginose ragioni che possono spingere il pubblico ad assistere
alle imprese poco vestite delle “Femen”, le (bellissime) ragazze ucraine che
usano il proprio corpo nudo come atto di protesta verso una società
maschilista capace di rendere il paese una mera tappa per il turismo
sessuale (da cui il grido, e il titolo, “L'Ucraina non è un
bordello”). Ci si accosta pertanto con un certo scetticismo, al
limite mitigato dalla speranza che il film sia quantomeno
informativo: per fortuna è molto di più. La regista australiana
Kitty Green, infatti, ha vissuto a contatto con le ragazze seguendone
l'escalation mediatica e non fa sconti alla realtà che il suo occhio
si trova a dover radiografare. Così, oltre a capire chi sono le
persone dietro le icone mediatiche, capiamo anche il tipo di
organizzazione che muove il gruppo, ideata da... un uomo, con buona
pace della lotta al maschilismo. Il corto circuito generato da questo
paradosso è la crepa che permette al documentario di aprirsi alla
realtà denudando (letteralmente) i difficili equilibri di un mondo
che ha totalmente smarrito ogni direttrice morale e non si preoccupa
di farsi scudo del proprio contrario pur di dare vita a un “brand”:
la protesta è quindi inglobata dal sistema come sua naturale
appendice (mi viene in mente quanto avevano già mostrato i Wachowski
in Matrix Reloaded, con buona pace dei detrattori...). La
documentazione di un fenomeno mediatico rompe in questo modo il velo
di una sovrastruttura tutta basata sul “vedere” e sulla
superficialità dell'apparire, fino a una chiusa che lascia suggerire
(o quantomeno sperare) un possibile futuro in cui queste ragazze
saranno davvero capaci di prendere in mano la propria vita, affrancandosi dall'iconografia da modelle per riappropriarsi della propria identità di persone. Un film
intelligente e in grado di suscitare emozioni variegate.
UPDATE: uscito nei cinema italiani il 12 Giugno 2014 con il titolo Femen - L'Ucraina non è in vendita.
UPDATE: uscito nei cinema italiani il 12 Giugno 2014 con il titolo Femen - L'Ucraina non è in vendita.
Mahi va Gorben
(Fish & Cat), di Shahram Mokri (Orizzonti)
L'idea di girare un film
con un intero piano-sequenza ha avuto più di un seguace alla Mostra
(si pensi a Ana Arabia, di Amos Gitai), ma nessuno ha portato questa
pratica a un livello di radicalità e sperimentazione paragonabile a quello toccato da
Shahram Mokri, che con questo suo Fish & Cat ci regala uno dei
capolavori del festival. Sebbene limitato dalla bassa definizione con
cui è girato (tanto che a tratti emergono anche delle “sporcature”
sotto forma di sciami di pixel che rompono la stabilità del quadro),
il film è un'intelligentissima ricognizione sugli stilemi del
thriller: seguiamo infatti un gruppo di persone accampate in riva a
un lago, presso un bosco dove alcuni minacciosi macellai degni di uno
slasher all'americana compiono i loro delitti. Senza mollare mai
l'unitarietà del movimento di macchina, Mokri salta da una
situazione all'altra, spesso tornando sulle azioni già viste per
riprenderle da una differente prospettiva, giocando spesso con le
aspettative dello spettatore, ammaliato dalla confezione thriller,
mai realmente appagata, ma sempre tenuta viva da una tensione che non
perde un colpo. In questo modo, la progressione lineare del racconto
e la sua destrutturazione temporale si sovrappongono generando una
vertigine potentissima, che rende il film stimolante e straniante
allo stesso tempo. Il racconto si crea e si disfa sotto i nostri
occhi e i vari piani narrativi, temporali e di realtà si mescolano
in un unico che è anche un mosaico sfaccettato: vivi e morti, azioni
nuove e altre già viste coesistono con naturalezza, lasciando allo
spettatore il piacere di ricostruire l'intera dinamica di questa
giornata - da cui l'idea del “gatto e del pesce” enunciata dal
titolo, peraltro leggibile anche su un piano metaforico, visto il ricorrente tema della sopraffazione degli adulti nei confronti dei giovani. Un film che mostra il cinema nella sua forma al contempo più
ludica ma anche più consapevole delle possibilità espressive
offerte dal mezzo. Il “mostro” di turno è interpretato dal
grande Babak Karimi, artista poliedrico e già montatore per Scimeca,
Kiarostami, Olmi, Loach, oltre che attore per Asgar Farhadi.
martedì 1 ottobre 2013
Locke
Locke
Un uomo, una strada e
l'abitacolo della sua auto: tre elementi che bastano a Steven Knight
per realizzare un gioiello cinematografico, senza far calare mai la
tensione e affidandosi a pochi, ma solidi elementi. In primis
il magnifico corpo attoriale di Tom Hardy, sempre più autentico
camaleonte del cinema contemporaneo, capace perciò di rendere a
meraviglia la figura duale di Ivan Locke: un vincente, per la
posizione che è riuscito a ritagliarsi con le sue sole forze, ma
anche un uomo gravato da un'ombra oscura, da quella figura paterna
che solo lui vede riflessa nello specchietto retrovisore e che sta lì
a ricordargli come la mela non cada mai lontano dall'albero. La
performance di Hardy è tanto più straordinaria quanto alimentata da
elementi quasi impercettibili: va infatti considerato come l'attore
sia solo e in una posizione che consente ben poco movimento (è al
volante della sua auto e comunica via telefono in viva voce). Il
lavoro è principalmente sulla voce, dal tono basso, calmo, capace in
tal modo di restituire il senso di solidità e affidabilità di
Locke, la sua calma destinata apparentemente a non incrinarsi mai,
stolida così come il suo senso del dovere che lo porta a correre da
una donna che non ama, ma verso cui si sente responsabile, affinché
suo figlio non nasca senza vedere il volto del padre.
Hardy lavora sui toni
bassi della voce (il film non va assolutamente visto doppiato,
qualora fosse distribuito) e in questo modo stabilisce il ritmo calmo
del racconto, scandito dal continuo incalzare delle telefonate,
mentre il personaggio cerca di ricondurre sempre tutto alla logica.
La discrasia che si crea fra la calma apparente dell'uomo e il
progressivo franare degli eventi crea il conflitto del film, con
mille problemi che si accumulano tra i due fronti – quello
familiare e quello lavorativo – su cui si trova sballottato Locke.
Pur potendo contare su un lavoro di scrittura precisissimo e capace
di dare ai dialoghi lo spessore drammaturgico necessario a esprimere
la forza della storia, Knight ci mette comunque anche uno sguardo
capace di massimizzare i risultati. La recitazione di Hardy è
infatti enfatizzata da un uso espressivo della fotografia che crea
uno scenario impressionista fuori dall'abitacolo dell'auto: le luci
dei veicoli e le geometrie descritte dall'autostrada creano infatti
una gabbia in cui chiudere l'uomo. Quello che vediamo è Locke fuori
dal mondo ma dentro tutto il suo universo, così concreto nelle
questioni che affronta, ma così evanescente nella distanza che lo
separa dai fatti reali su cui tenta di avere il controllo. Lo stile
visivo, pertanto, esteriorizza i conflitti portati avanti dalla
vicenda immergendo totalmente lo spettatore su questo set tanto reale
quanto mentale, dove, non a caso, la posta in gioco è sia costituita
da eventi concreti (la calata del calcestruzzo) che squisitamente
etici e ideali (il senso del dovere, la fiducia tradita verso la
moglie e l'azienda).
Il resto lo fa un lavoro
di scelta delle inquadrature che a tratti ritaglia spazi precisi sul
volto di Hardy: quando, ad esempio, vediamo soltanto i suoi occhi
incastonati nella superficie ristretta dello specchio retrovisore,
l'espressione è differente; davanti a noi non c'è più il barbuto e
corpulento padre di famiglia dall'aspetto così tradizionale e
amichevole, ma cogliamo invece lampi di quella forza animale che era
propria del Bronson di Nicolas Winding Refn. In questi momenti
Knight dimostra come la scelta di Hardy sia una vera e propria
dichiarazione d'intenti per esprimere un coacervo di emozioni che il
volto così duttile dell'attore naturalmente è in grado di
evidenziare e portare in dono al suo personaggio.
La metafora stessa del
calcestruzzo, che nei dialoghi Locke individua quasi come un
paradigma della realtà, diventa pertanto folgorante: duttile,
morbido, eppure così essenziale per la solidità delle costruzioni
che il personaggio innalza con il proprio lavoro, il calcestruzzo è
la vita stessa di Locke, il tramite con quella realtà che l'uomo
cerca di gestire nel migliore dei modi, salvo poi cedere nell'attimo
in cui non usa più la logica e si abbandona all'istinto. La logica
peraltro è anche quella che deve regolare la calata nel cantiere e
che collide con i problemi creati dalla realtà con fare quasi sadico
e “scientifico”.
Già sceneggiatore per
Frears e Cronenberg (suo La promessa dell'assassino), Steven
Knight è qui al secondo lavoro da regista (il primo, Redemption,
è in questo periodo nelle nostre sale) e si è già ritagliato un
posto d'onore per la coerenza dei suoi temi e la sicurezza dello
stile: le sue sono storie di uomini che cercano di fare la cosa
giusta, in un mondo governato da un caos che per questo tende a
soverchiarli. Ivan Locke, in una sola notte, distrugge ciò che aveva
costruito in un'intera vita per rispondere unicamente al suo senso di
responsabilità, mentre invita parenti e amici a essere logici, salvo
accorgersi del loro voltargli le spalle. E' un racconto morale, ma
anche una parabola su un uomo che anela alla perfezione, ma non può
che prendere atto della propria fallibilità: proprio in questa
umanità sta il valore di un progetto che non cede alle facili
lusinghe del moralismo astratto, ma è sempre, invece, iscritto in
drammi che lo spettatore sente come profondamente veri. Un film
folgorante, che si spera sia presto distribuito in Italia.
EDIT: uscito nei cinema italiani il 30 Aprile 2014.
Locke
Regia e sceneggiatura:
Steven Knight
Origine: Usa/UK, 2013
Durata: 85'
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