"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 1 gennaio 2014

2014!



Auguri a tutti di uno sfavillante 2014, pieno di soddisfazioni e tanto buon cinema!

venerdì 22 novembre 2013

Torino 2013

Torino 2013

Come ogni anno è arrivato il tempo di fare le valige e partire per il Torino Film Festival: ormai si è quasi fatta l'abitudine a non dare mai nulla per scontato e a considerare che per la manifestazione piemontese ogni anno segna un nuovo punto di partenza. Perché il panorama dei festival, si sa, è cambiato profondamente da un po' di tempo a questa parte; perché l'annata 2013, in particolare, si è già distinta per meritorie edizioni da parte delle rassegne “concorrenti” (di Cannes e Venezia si è già scritto, ma anche Locarno e – inaspettatamente – Roma hanno dimostrato di avere ottime frecce ai rispettivi archi); e poi perché quest'anno c'è un nuovo cambio al vertice, con Paolo Virzì che subentra a Gianni Amelio nel ruolo di direttore.

Certo, lo “scossone” è mitigato dal fatto che il gruppo di lavoro (coordinato da Emanuela Martini) è rimasto sostanzialmente lo stesso, premiando una formula che, nonostante le polemiche gratuite e le continue riduzioni di budget, ha pagato, dando al festival la forma di un appuntamento di qualità, curioso e attento alla ricerca e alla sperimentazione, ma con un tono più “rilassato” rispetto alla concorrenza: se il titolo è buono non c'è l'affanno di esibirlo necessariamente in prima mondiale (anche se le anteprime assolute non mancano), perché Torino è un po' evento della propria città, un po' vetrina per il mondo.

Il programma da questo punto di vista è sempre un bel biglietto da visita e anche quest'anno si presenta interessante: ci sono titoli acclamati da registi come Quentin Tarantino (Big Bad Wolves, dai registi di Kalevet), c'è l'omaggio a un regista come Yu Lik Wai nella sezione Onde (che a Venezia anni fa fece gridare al miracolo con il suo Plastic City), c'è la solita formula “liquida” articolata attraverso spazi mai chiusi ma in perenne comunicazione fra loro (la sezione “nera” After Hours e il mare magnum di Festa Mobile). E poi c'è la retrospettiva sulla New Hollywood, che prenderà due anni di programmazione, essendo spalmata su questa edizione e sulla prossima, e che conclude idealmente un percorso che a Torino inizia da lontano, da quando, nel 1999, Giulia D'Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto dedicarono un indimenticabile omaggio a John Carpenter con tutte le sue pellicole.

Da allora il cinema americano è sempre stato di casa a Torino, di concerto con tutte le altre filmografie, rivolgendosi a un pubblico onnivoro e non snob, e piace constatare come certe tradizioni trasversali a classificazioni e generi siano rimaste intatte, dimostrando come la manifestazione resti coerente con il proprio spirito, sebbene orientata al nuovo. Buon festival a tutti e ci si vede in sala!

sabato 16 novembre 2013

Il castello nel cielo

Il castello nel cielo

Fuggita da un'aeronave dopo l'attacco di alcuni pirati, la giovane Sheeta viene soccorsa da Pazu, un ragazzo che lavora in miniera e che sogna di ristabilire il nome di suo padre, morto in disgrazia dopo aver avvistato la leggendaria isola volante di Laputa, a cui nessuno crede. Sheeta, peraltro, porta con sé un'aeropietra, un monile le cui origini risalgono proprio a Laputa e che la rende appetibile tanto ai pirati (che non smettono di inseguirla) quanto al Colonnello Muska, un sinistro funzionario governativo che intende raggiungere l'isola volante per carpirne i segreti. Durante la fuga, Pazu apprende che Sheeta stessa discende dalla stirpe reale di Laputa e si allea con i pirati per raggiungere l'isola del cielo.


E' il primo lungometraggio ufficialmente realizzato sotto il marchio dello Studio Ghibili, fondato da Hayao Miyazaki e soci dopo il sorprendente successo del precedente Nausicaa della valle del vento: il film vanta peraltro una distribuzione abbastanza sfortunata nel nostro paese, dove era uscito direttamente in DVD per la Buena Vista nel 2004, salvo essere poi ritirato dal mercato dopo poche settimane, lasciando in tal modo mano libera agli speculatori disposti a vendere a peso d'oro l'agognato dischetto. Per fortuna ci ha poi pensato la Lucky Red a fare giustizia, con un'uscita nelle sale nella prima metà del 2012 (cui è seguita quella nei formati dell'Home Cinema).

Il continuo rimpallo delle date ci consegna perciò un'opera letteralmente fuori dal tempo, ambientata non a caso in un passato dove le automobili sono rarità, e la civiltà di Laputa si è estinta, lasciando però in eredità avanzatissime conoscenze tecnologiche che fanno gola al cattivo di turno: un futuro “anteriore” dove il regista ha modo di articolare le sue tipiche ossessioni da post-apocalisse potenziale, tanto che il tono appare in continuità con l'odissea fantasy di Nausicaa e più schiettamente avventuroso di quanto non avverrà con le opere della maturità. In effetti, a ben guardare, Il castello nel cielo è oggi definibile come una pellicola che chiude un ciclo, con cui Hayao Miyazaki paga cioè il meritato tributo alla prima fase della sua carriera, quella che si era articolata in misura maggiore negli ambiti della serialità televisiva: se, infatti, stilisticamente il ritmo è più franto, diviso da dissolvenze a nero che sembrano quasi scandire una serie di capitoli, narrativamente la vicenda di Pazu e Sheeta riflette il dinamismo dell'azione di Lupin III - con ovvio riferimento al film Il castello di Cagliostro, che aveva segnato l'esordio cinematografico dell'autore.

Il rapporto fra i due bambini e la loro opposizione a un nemico bellicista e animato da sete di potere, sullo sfondo garantito da una doppia realtà ugualmente proiettata fra la natura che ha invaso Laputa e l'orrore che le macchine dell'isola sono in grado di scatenare, fa però pensare soprattutto a Conan il ragazzo del futuro, la serie che aveva letteralmente rivelato il talento di Miyazaki nel 1978: una sovrapponibilità che è tale non solo dal versante narrativo, ma anche da quello più squisitamente iconografico, con uno scenario naturale attraversato da bizzarre creazioni meccaniche, mentre i pirati di turno appaiono come dei simpatici pasticcioni che alla bisogna possono anche convertirsi al bene: né più né meno come accadeva con il celebre Capitano Dyce – e non ci sembra un caso che Dola, la volitiva matrona dei pirati, si impunti perché Pazu la chiami, appunto, “Capitano”!

Ne viene fuori un'opera fra le più “porose” di Miyazaki, regista che, pur essendo sensibile alle storie altrui (pensiamo a come molti suoi lavori siano di derivazione letteraria), è quasi sempre solito descrivere spazi e mondi che diventano inevitabilmente suoi, e che qui si fanno invece cartina di tornasole di un immaginario composito e perfettamente addentro agli umori della propria epoca: si respira in tal modo un senso di libertà inedito anche per la filmografia stessa dell'autore, dove la facilità con cui i corpi si muovono nel cielo, su precipizi, piante e interstizi del reale (senza mai provare alcuna vertigine) si riflette in una struttura che mette insieme agevolmente formato seriale, derivazioni letterarie (Laputa proviene da I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift), e anche gli umori della fantascienza coeva.

Sebbene il testo seminale del post-apocalittico nipponico degli Ottanta arriverà solo due anni dopo (il riferimento, naturalmente, è ad Akira), il film respira infatti di atmosfere vagamente cyberpunk, in cui lo stile sembra cercare una sintesi fra la tipica tensione naturalista cara all'autore e le possibilità distruttive insite nella tecnologia. La dicotomia natura/progresso si stempera in un caleidoscopio visivo tipicamente ottantesco nelle scelte cromatiche (dove fanno capolino tonalità elettriche e scenari di matrice a tratti espressionista e futurista) che, pur non derogando mai dalla classica dicotomia buono-cattivo, sembra in più passaggi solleticare l'idea di una coesistenza possibile fra gli opposti.

Laputa in tal modo si configura come una possibile terra delle opportunità: il luogo cioè dove non solo i fronti possono ricompattarsi (i pirati e i bambini che si alleano), ma dove è anche possibile coniugare tecnologia e natura, al punto che la seconda è affidata a giganteschi robot pure dotati di incredibile capacità distruttiva (e che ricordano i giganti di Nausicaa, giusto per rimanere nel cerchio dei riferimenti). Un mondo che non a caso sta fra la concretezza della pietra in cui è intagliato il suo spazio e la dimensione favolistica garantitale dalle leggende e dal passaggio fra le nubi, a sua volta memore delle atmosfere del Mago di Oz. Fantasy e fantascienza trovano sul suo terreno un recinto fertile, dove articolare le rispettive pulsioni, e non ci sembra un caso se la parte finale diventa un coacervo di visioni che stanno fra le anticipazioni di Otomo e James Cameron (pensiamo agli Avatar e ai Titanic a venire) e vaghe reminiscenze da Guerre stellari (il raggio distruttore che riecheggia quello della Morte Nera).

In tal modo, più che un'opera di sintesi, Il castello nel cielo, finisce per diventare un'evoluzione del pensiero che guidava il primo Miyazaki e un completamento di anni di lavoro: il fatto che tutto questo si articoli attraverso le forme della “semplice” avventura ce lo rende ancora più amabile e prezioso, oltre che sempre straordinariamente attuale.


Il castello nel cielo
(Tenku no Shiro Rapyuta)
Regia e sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone, 1986
Durata: 124'

lunedì 4 novembre 2013

Encounters at the end of the World

Encounters at the end of the World

Werner Herzog si reca in Antartide per documentare la vita nella stazione scientifica McMurdo, situata sull'isola di Ross. Si imbatte così in uomini animati da grandi ideali, ma anche da persone che hanno scelto di fuggire da tutto e che magari si sono completamente reinventate (scienziati che guidano mezzi pesanti per il trasporto, ad esempio) o hanno finalmente trovato se stessi. Il viaggio comprende l'esplorazione della base e dello scenario ghiacciato, con punte sotto la calotta, attraverso le riprese di alcuni sub o entrando nelle caverne scavate dalle eruzioni sottomarine. L'isola comprende anche il vulcano Erebus, cui Herzog fa tappa, documentando gli studi dei vulcanologi, e un'immancabile comunità di pinguini.


Quasi lo speculare de L'ignoto spazio profondo, il documentario Encounters at the End of the World nasce effettivamente come tentativo di andare oltre quel progetto: Herzog, infatti, era rimasto affascinato dalle sequenze subacquee girate dall'amico Henry Kaiser (qui produttore e autore delle musiche), ma la sua esplorazione del continente antartico appare anche stavolta come una ricerca dei limiti, di vite che hanno compiuto scelte estreme, di sguardi nuovi su realtà complesse. Su tutto, però, domina nuovamente quel doppio sguardo che da un lato sogna ipotesi futuribili, in grado di farci affacciare su possibili scenari a venire dell'umanità; e dall'altro riflette sul senso del nostro stare al mondo di fronte a una natura ostile, spesso vittima delle nostre azioni, ma che pure si staglia con tutta la sua forza, in modo tale da risultare incredibilmente affascinante.

La specularità con L'ignoto spazio profondo si ritrova dunque nella scelta di uno stile documentaristico tradizionale (con tanto di voce narrante dello stesso Herzog che commenta i fatti, a volte anche con tono demistificatorio) che però non riesce a far venir meno l'idea di trovarsi di fronte a una sorta di bizzarra opera fantascientifica, per le implicazioni tirate in ballo dagli scienziati e per lo scenario assolutamente alieno di un'Antartide che si rivela però pregna di una vita altrimenti indefinibile: mostruose creature che vivono sotto la calotta polare, enormi distese di ghiaccio che – gli scienziati lo spiegano bene – sono da considerarsi quasi esseri viventi per il dinamismo cui sono sottoposte dalle forze che regolano la fisica terrestre. E poi il magnetismo che rende impossibile l'orientamento e che trasforma il gusto per la scoperta in un'esplorazione avveniristica, pari a quella dei viaggiatori dello spazio. Non a caso, la base di McMurdo viene vista dallo stesso regista come un territorio proteiforme: in parte avamposto tecnologico, in parte sorta di enorme cantiere che evoca scenari più da miniera che da stazione scientifica, in parte enorme città/parco giochi da cui fuggire per il più “serio” orizzonte ghiacciato.

Penso che una buona parte della popolazione, qui, sia composta da persone che sono contemporaneamente viaggiatori a tempo pieno e lavoratori part-time. Quindi, sì, loro sono dei sognatori professionisti, sognano per tutto il tempo. E penso che, attraverso loro, i grandi sogni cosmici entrano in circolo, perché l'universo sogna per i nostri sogni. Penso ci siano molti modi diversi per la realtà di andare avanti e il sogno è assolutamente uno di questi.

(Stefan Pashov – filosofo e operaio ai carrelli elevatori)

Herzog esalta il valore del sogno, tornando anche alle origini dell'esplorazione antartica di Henry Shackleton, Robert Scott e Roald Amundsen, e spiega come è cambiato il rapporto dell'umanità con il continente: da terra ostile e imprendibile a sorta di nuovo orizzonte delle opportunità. In tal modo il film sembra muovere ancora una volta una critica a un mondo “di fuori” che i personaggi intervistati sembrano rifuggire, chiamando anche esplicitamente in causa l'apocalisse (lo scienziato che visiona film di fantascienza anni Cinquanta) o i metodi di vita alternativa (l'appassionato di filosofia new age che coltiva pomodori). Lo sguardo è curioso, goloso, attento a riprodurre la varietà degli spunti che la materia offre, ma allo stesso tempo anche esistenzialista: diventa emblematico, in tal senso, il ruolo dei pinguini. Il regista spiega chiaramente all'inizio come non si sia recato in Antartide per filmare i pinguini, animali che, peraltro – e sarebbe interessante capire il perché – in tempi recenti hanno goduto di un'esposizione filmica notevole, tanto da diventare anche personaggi cult in opere animate come Madagascar o Surf's Up

Herzog rifugge da queste caratterizzazioni, ma evita anche il facile anticonformismo di riportare i pinguini stessi alla loro condizione animale attraverso un approccio documentaristico classico. Al contrario, evoca ironicamente le dinamiche della loro sessualità, ma soprattutto ci colpisce con l'immagine altamente evocativa di uno di loro che si stacca dal gruppo e, come in preda a una folle frenesia, si dirige verso gli spazi aperti, condannandosi in tal modo a una fuga che è anche una inconsapevole ricerca di morte. Un pezzo di cinema incredibile e altissimo, una scheggia di irrazionalità che si incista nel reale con tale naturalezza da erodere ancora una volta il confine tra la documentazione asettica del mondo e la tensione fantastica che il regista sembra perseguire in un misto di abilità nel “catturare” l'ignoto e sensibilità nel cogliere “l'umanità” (da intendersi come mera umoralità) iscritta nei recessi della natura.

E' l'emblema perfetto dei limiti che la ricerca chiama in causa, di grandi possibilità che diventano anche una strada verso la perdizione. La vita e la morte, insomma, in uno scenario ostile ma anche di grande fascino visivo, esplorato con una buona dose di lirismo, non dissimile da quella già vista nelle ultime prove documentaristiche dell'autore: a metterle insieme verrebbe fuori una mappa abbastanza omogenea di un percorso che il cineasta tedesco – pur senza rinunciare al faceto – sta compiendo. Una sorta di ricerca delle origini dell'uomo e, va ribadito, del suo stare al mondo, ma anche della fine o del possibile reinizio. Non a caso una delle ultime immagini riguarda il lancio di una mongolfiera, che sembra quasi rappresentare un collegamento e un'ideale chiusura del cerchio con il poco distante (e precedente) Il diamante bianco.

Il documentario, realizzato nel 2007, è tuttora inedito per la distribuzione italiana.


Encounters at the End of the World
Regia e sceneggiatura: Werner Herzog
Origine: Usa, 2007
Durata: 97

giovedì 31 ottobre 2013

Halloween 2013

Halloween 2013

Quando ero piccolo invidiavo gli americani perché avevano Halloween e aspettavo la mattina dell'1 novembre per vedere i servizi al telegiornale sulla parata di New York. Non mi sono mai piaciute le feste comandate: il Natale? Sì ok i regali, però poi parenti e tanta noia. Pasqua? Lasciamo perdere... invece Halloween era la festa dell'horror, pazzerella, colorata e piena di mostri, era quella giusta per me insomma!

Il che va, per inciso, di pari passo con la mia preferenza per un horror giocoso e fantastico, capace cioè di esaltare il gusto per le creature, l'invenzione, il volo pindarico nell'assurdo, quello che negli anni ha creato maschere irresistibili (da Frankenstein a Fred Krueger), che in effetti non mi hanno fatto mai realmente “paura”, perché il punto non era quello: era piuttosto che mi affascinavano, meravigliavano, mi aiutavano a coltivare il piacere dell'immaginazione. Per questo ancora adesso li contrappongo all'horror "realista" a base di serial killer che oggi va per la maggiore (e che non a caso mi ha fatto allontanare un po' dal genere, insieme all'eccesso di remake).

Così, quando Halloween è arrivata in Italia (o meglio quando ce la siamo ripresa, vista la matrice mitteleuropea e i vari culti localistici nostrani dedicati ai morti e pieni di zucche e folklore) è stata una soddisfazione. A ciascuno la propria festa, com'è giusto, e Halloween è certamente la mia, da sempre. E tanto basta!

Buon Halloween a tutti!

giovedì 17 ottobre 2013

Venezia 70: i film (4/4)

Venezia 70: i film (4/4)

Palo Alto, di Gia Coppola (Orizzonti)

Quella dei Coppola sta ormai diventano una famiglia (cinematografica) molto allargata: dopo il patriarca Francis e i suoi due figli Sofia e Roman (senza dimenticare il nipote Nicola, ovvero Nicolas Cage), ecco farsi avanti la giovane nipote Gia (sta per Giancarla), ex modella, che qui scrive e dirige un ritratto adolescenziale nella classica cittadina di provincia in cui il male di vivere si manifesta con maggiore evidenza. Che l'argomento sia quello è evidente sin dall'accesa metafora della scena iniziale, in cui due adolescenti in auto si schiantano contro il muro che si trova a pochi centimetri da loro (l'auto infatti era parcheggiata); da lì si prosegue principalmente seguendo l'impresa di April, studentessa delle superiori che subisce (e in un certo senso anche cerca) le attenzioni del suo professore di educazione fisica, interpretato da James Franco, sempre a suo agio con ruoli borderline. L'influenza di zia Sofia è evidente, la giovane Gia si circonda di tutto ciò che può aiutarla a sentirsi a suo agio (Francis ha un cameo vocale, mentre in un piccolo ruolo compare l'altra zia, Talia Shire), ma lo sguardo è sincero e il racconto si snoda in modo lineare, ma affascinante, creando un'atmosfera rarefatta e a tratti poetica. Merito anche del volto imbronciato di Emma Roberts, una bella mappa su cui iscrivere le emozioni che le singole storie vogliono portare avanti.



Ukraina ne Bordel/Ukraine is not a Brothel, di Kitty Green (Fuori Concorso)

Titolo annunciato tra i più “forti” della Mostra, anche se più che altro per le pruriginose ragioni che possono spingere il pubblico ad assistere alle imprese poco vestite delle “Femen”, le (bellissime) ragazze ucraine che usano il proprio corpo nudo come atto di protesta verso una società maschilista capace di rendere il paese una mera tappa per il turismo sessuale (da cui il grido, e il titolo, “L'Ucraina non è un bordello”). Ci si accosta pertanto con un certo scetticismo, al limite mitigato dalla speranza che il film sia quantomeno informativo: per fortuna è molto di più. La regista australiana Kitty Green, infatti, ha vissuto a contatto con le ragazze seguendone l'escalation mediatica e non fa sconti alla realtà che il suo occhio si trova a dover radiografare. Così, oltre a capire chi sono le persone dietro le icone mediatiche, capiamo anche il tipo di organizzazione che muove il gruppo, ideata da... un uomo, con buona pace della lotta al maschilismo. Il corto circuito generato da questo paradosso è la crepa che permette al documentario di aprirsi alla realtà denudando (letteralmente) i difficili equilibri di un mondo che ha totalmente smarrito ogni direttrice morale e non si preoccupa di farsi scudo del proprio contrario pur di dare vita a un “brand”: la protesta è quindi inglobata dal sistema come sua naturale appendice (mi viene in mente quanto avevano già mostrato i Wachowski in Matrix Reloaded, con buona pace dei detrattori...). La documentazione di un fenomeno mediatico rompe in questo modo il velo di una sovrastruttura tutta basata sul “vedere” e sulla superficialità dell'apparire, fino a una chiusa che lascia suggerire (o quantomeno sperare) un possibile futuro in cui queste ragazze saranno davvero capaci di prendere in mano la propria vita, affrancandosi dall'iconografia da modelle per riappropriarsi della propria identità di persone. Un film intelligente e in grado di suscitare emozioni variegate.

UPDATE: uscito nei cinema italiani il 12 Giugno 2014 con il titolo Femen - L'Ucraina non è in vendita.



Mahi va Gorben (Fish & Cat), di Shahram Mokri (Orizzonti)

L'idea di girare un film con un intero piano-sequenza ha avuto più di un seguace alla Mostra (si pensi a Ana Arabia, di Amos Gitai), ma nessuno ha portato questa pratica a un livello di radicalità e sperimentazione paragonabile a quello toccato da Shahram Mokri, che con questo suo Fish & Cat ci regala uno dei capolavori del festival. Sebbene limitato dalla bassa definizione con cui è girato (tanto che a tratti emergono anche delle “sporcature” sotto forma di sciami di pixel che rompono la stabilità del quadro), il film è un'intelligentissima ricognizione sugli stilemi del thriller: seguiamo infatti un gruppo di persone accampate in riva a un lago, presso un bosco dove alcuni minacciosi macellai degni di uno slasher all'americana compiono i loro delitti. Senza mollare mai l'unitarietà del movimento di macchina, Mokri salta da una situazione all'altra, spesso tornando sulle azioni già viste per riprenderle da una differente prospettiva, giocando spesso con le aspettative dello spettatore, ammaliato dalla confezione thriller, mai realmente appagata, ma sempre tenuta viva da una tensione che non perde un colpo. In questo modo, la progressione lineare del racconto e la sua destrutturazione temporale si sovrappongono generando una vertigine potentissima, che rende il film stimolante e straniante allo stesso tempo. Il racconto si crea e si disfa sotto i nostri occhi e i vari piani narrativi, temporali e di realtà si mescolano in un unico che è anche un mosaico sfaccettato: vivi e morti, azioni nuove e altre già viste coesistono con naturalezza, lasciando allo spettatore il piacere di ricostruire l'intera dinamica di questa giornata - da cui l'idea del “gatto e del pesce” enunciata dal titolo, peraltro leggibile anche su un piano metaforico, visto il ricorrente tema della sopraffazione degli adulti nei confronti dei giovani. Un film che mostra il cinema nella sua forma al contempo più ludica ma anche più consapevole delle possibilità espressive offerte dal mezzo. Il “mostro” di turno è interpretato dal grande Babak Karimi, artista poliedrico e già montatore per Scimeca, Kiarostami, Olmi, Loach, oltre che attore per Asgar Farhadi.


martedì 1 ottobre 2013

Locke

Locke

Ivan Locke è il miglior uomo d'Inghilterra: padre felice, uomo realizzato e lavoratore animato da grande senso del dovere (è responsabile per i cantieri di una azienda edile), è insomma la classica persona su cui si può sempre fare affidamento. Ma non oggi. Ora Ivan Locke è in auto, in viaggio verso Londra, lasciandosi tutto alle spalle per assistere alla nascita di un figlio che ha avuto da un'avventura di una notte. L'unico atto irrazionale della sua vita, ma di cui vuole comunque assumersi tutte le responsabilità. Durante il tragitto cerca di risolvere per telefono le situazioni che ha lasciato indietro: spiegare alla moglie cosa è successo e gestire tutti i preparativi per una colossale colata di calcestruzzo per il nuovo cantiere che sta per aprire. La posta in gioco è la sua famiglia e il suo lavoro: ovvero tutta la sua vita. In tutto questo, Ivan deve fare conti con l'ombra di suo padre, un fallito da cui ha sempre cercato di distinguersi e in cui ora rischia di specchiarsi a causa dell'unico errore che ha commesso.


Un uomo, una strada e l'abitacolo della sua auto: tre elementi che bastano a Steven Knight per realizzare un gioiello cinematografico, senza far calare mai la tensione e affidandosi a pochi, ma solidi elementi. In primis il magnifico corpo attoriale di Tom Hardy, sempre più autentico camaleonte del cinema contemporaneo, capace perciò di rendere a meraviglia la figura duale di Ivan Locke: un vincente, per la posizione che è riuscito a ritagliarsi con le sue sole forze, ma anche un uomo gravato da un'ombra oscura, da quella figura paterna che solo lui vede riflessa nello specchietto retrovisore e che sta lì a ricordargli come la mela non cada mai lontano dall'albero. La performance di Hardy è tanto più straordinaria quanto alimentata da elementi quasi impercettibili: va infatti considerato come l'attore sia solo e in una posizione che consente ben poco movimento (è al volante della sua auto e comunica via telefono in viva voce). Il lavoro è principalmente sulla voce, dal tono basso, calmo, capace in tal modo di restituire il senso di solidità e affidabilità di Locke, la sua calma destinata apparentemente a non incrinarsi mai, stolida così come il suo senso del dovere che lo porta a correre da una donna che non ama, ma verso cui si sente responsabile, affinché suo figlio non nasca senza vedere il volto del padre.

Hardy lavora sui toni bassi della voce (il film non va assolutamente visto doppiato, qualora fosse distribuito) e in questo modo stabilisce il ritmo calmo del racconto, scandito dal continuo incalzare delle telefonate, mentre il personaggio cerca di ricondurre sempre tutto alla logica. La discrasia che si crea fra la calma apparente dell'uomo e il progressivo franare degli eventi crea il conflitto del film, con mille problemi che si accumulano tra i due fronti – quello familiare e quello lavorativo – su cui si trova sballottato Locke. Pur potendo contare su un lavoro di scrittura precisissimo e capace di dare ai dialoghi lo spessore drammaturgico necessario a esprimere la forza della storia, Knight ci mette comunque anche uno sguardo capace di massimizzare i risultati. La recitazione di Hardy è infatti enfatizzata da un uso espressivo della fotografia che crea uno scenario impressionista fuori dall'abitacolo dell'auto: le luci dei veicoli e le geometrie descritte dall'autostrada creano infatti una gabbia in cui chiudere l'uomo. Quello che vediamo è Locke fuori dal mondo ma dentro tutto il suo universo, così concreto nelle questioni che affronta, ma così evanescente nella distanza che lo separa dai fatti reali su cui tenta di avere il controllo. Lo stile visivo, pertanto, esteriorizza i conflitti portati avanti dalla vicenda immergendo totalmente lo spettatore su questo set tanto reale quanto mentale, dove, non a caso, la posta in gioco è sia costituita da eventi concreti (la calata del calcestruzzo) che squisitamente etici e ideali (il senso del dovere, la fiducia tradita verso la moglie e l'azienda).

Il resto lo fa un lavoro di scelta delle inquadrature che a tratti ritaglia spazi precisi sul volto di Hardy: quando, ad esempio, vediamo soltanto i suoi occhi incastonati nella superficie ristretta dello specchio retrovisore, l'espressione è differente; davanti a noi non c'è più il barbuto e corpulento padre di famiglia dall'aspetto così tradizionale e amichevole, ma cogliamo invece lampi di quella forza animale che era propria del Bronson di Nicolas Winding Refn. In questi momenti Knight dimostra come la scelta di Hardy sia una vera e propria dichiarazione d'intenti per esprimere un coacervo di emozioni che il volto così duttile dell'attore naturalmente è in grado di evidenziare e portare in dono al suo personaggio.

La metafora stessa del calcestruzzo, che nei dialoghi Locke individua quasi come un paradigma della realtà, diventa pertanto folgorante: duttile, morbido, eppure così essenziale per la solidità delle costruzioni che il personaggio innalza con il proprio lavoro, il calcestruzzo è la vita stessa di Locke, il tramite con quella realtà che l'uomo cerca di gestire nel migliore dei modi, salvo poi cedere nell'attimo in cui non usa più la logica e si abbandona all'istinto. La logica peraltro è anche quella che deve regolare la calata nel cantiere e che collide con i problemi creati dalla realtà con fare quasi sadico e “scientifico”.

Già sceneggiatore per Frears e Cronenberg (suo La promessa dell'assassino), Steven Knight è qui al secondo lavoro da regista (il primo, Redemption, è in questo periodo nelle nostre sale) e si è già ritagliato un posto d'onore per la coerenza dei suoi temi e la sicurezza dello stile: le sue sono storie di uomini che cercano di fare la cosa giusta, in un mondo governato da un caos che per questo tende a soverchiarli. Ivan Locke, in una sola notte, distrugge ciò che aveva costruito in un'intera vita per rispondere unicamente al suo senso di responsabilità, mentre invita parenti e amici a essere logici, salvo accorgersi del loro voltargli le spalle. E' un racconto morale, ma anche una parabola su un uomo che anela alla perfezione, ma non può che prendere atto della propria fallibilità: proprio in questa umanità sta il valore di un progetto che non cede alle facili lusinghe del moralismo astratto, ma è sempre, invece, iscritto in drammi che lo spettatore sente come profondamente veri. Un film folgorante, che si spera sia presto distribuito in Italia.

EDIT: uscito nei cinema italiani il 30 Aprile 2014.

Locke
Regia e sceneggiatura: Steven Knight
Origine: Usa/UK, 2013
Durata: 85'