"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 22 febbraio 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot

Enzo Ceccotti è un ladruncolo di quart'ordine in una Roma degradata e difficile. Un giorno, mentre è in fuga dalla polizia, viene a contatto con dei rifiuti tossici scaricati nel fiume Tevere e acquisisce una forza straordinaria. La sua vita, già scossa da questo evento, viene ulteriormente complicata dalla conoscenza di Alessia, una ragazza affetta da disturbo da stress post traumatico conseguente alla morte dei genitori, che si esprime in una visione compulsiva della serie animata “Jeeg robot d'acciaio”. Scoperti i poteri di Enzo, Alessia vede lui l'incarnazione dell'eroico Jeeg. Fra il riluttante eroe e la sfortunata ragazza nasce così una strampalata ma tenera relazione, anche se le capacità di Enzo iniziano a fare notizia e ad attirare l'attenzione dello Zingaro, un piccolo malavitoso, afflitto da manie di grandezza che lo rendono un'autentica mina vagante.


Accolto con grande calore alla Festa del Cinema di Roma 2015 e, subito dopo, a Lucca Comics & Games, arriva finalmente nelle sale il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti, sostenuto con forza dal distributore Lucky Red attraverso un'intesa campagna sui social network e l'uscita nelle edicole di una versione a fumetti, scritta da Roberto Recchioni e disegnata da Giorgio Pontrelli. L'accenno a Jeeg Robot nel titolo, ha comunque disorientato una parte del pubblico, convinta di trovarsi di fronte a una scialba trasposizione della celebre serie animata, creata dalla Toei Animation nel 1975 a partire da un'idea di Go Nagai. Ancora sui social network, sono così fioccate svariate polemiche, legate a un presunto delitto di lesa maestà nei confronti del robot animato, da molti considerato un'autentica quell'icona generazionale. Nulla di tutto questo, in realtà, per una polemica pretestuosa, che ricorda quella che ha pure accompagnato l'uscita di Pacific Rim, da alcuni considerato a torto una “copia” di Neon Genesis Evangelion (in quel caso senza considerare ovviamente il fatto che il genere giapponese dei mecha, all'epoca dello stesso Evangelion, aveva già almeno due decenni di vita alle spalle...).

Per capire meglio il senso dell'operazione è bene esplorare la precedente filmografia di Mainetti e, in particolare, i due cortometraggi che lo hanno imposto all'attenzione generale e dove già risaltava il sodalizio artistico con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone - qui nel film affiancato dal fumettista Menotti. Il primo, Basette, del 2008, racconta la storia di un piccolo rapinatore romano (interpretato dall'ottimo Valerio Mastandrea), grande fan di Lupin III, che riesce a coronare il sogno di “trasformarsi” nel suo eroe proprio nell'attimo del maggiore declino, durante un colpo andato a male, che sarà poi anche l'ultimo della sua vita. A questo segue, nel 2012, Tiger Boy, in cui un bambino segue con passione le imprese di un wrestler con la maschera da tigre, che diventa un modello cui aggrapparsi per reagire agli abusi sessuali perpetrati ai suoi danni dal preside della scuola. Il riferimento pop al celebre L'uomo tigre non è mai esplicitato, ma risuona come un'eco ugualmente riconoscibile dallo spettatore.

Entrambi i lavori, raggiungibili attraverso i link qui sotto, rivelano quindi un autore cresciuto nel pieno di un immaginario pop, che diventa il mezzo (e mai il fine) per affrontare i risvolti più difficili della realtà: un punto di fuga da cui raccontare di protagonisti dissociati rispetto al mondo in cui vivono, ma che più di tutti riescono a metterne a nudo le criticità. La citazione, in questo caso, diventa quindi un'interfaccia per raffigurare le contraddizioni umane nella pienezza dell'espressione artistica, e, forse, l'unico mezzo che questi personaggi hanno per riuscire a volgere a proprio vantaggio un mondo che li condanna a una perenne sconfitta. D'altronde, non è a questo che servono gli eroi?

Lo chiamavano Jeeg Robot rappresenta la naturale evoluzione di questo percorso: la forma del lungometraggio permette infatti a Mainetti di ispessire i termini del discorso, senza tradirne gli assunti di fondo. Riecco quindi un protagonista disilluso e solo, costretto nel ruolo del ladruncolo perdente, che, investito del potere e del ruolo del supereroe, ottiene la possibilità di stravolgere la sua vita. Lo farà innanzitutto pensando al proprio tornaconto, finché, l'incontro con le due figure chiave di Alessia e dello Zingaro, non lo spingeranno a mettersi in gioco sotto una nuova veste. La triangolazione si snoda quindi fra personaggi egualmente dissociati, ma che rappresentano una possibile alternativa al punto di vista incarnato dall'introverso Enzo. Alessia è quello che lo investe, suo malgrado, del ruolo di eroe attraverso l'intercessione iconica favorita dalla figura di Jeeg Robot; lo Zingaro, invece, è il personaggio naturalmente destinato a rappresentarne la nemesi – che, come ogni storia di supereroi che si rispetti, altro non è che uno speculare e un completamento dell'eroe.

Mainetti mantiene così il tono esistenziale e malinconico già emerso in Basette e Tiger Boy, ma stavolta apre il fantastico al confronto costruttivo con il reale, favorendo una possibile riscrittura del mondo attraverso gli unici modelli possibili, quelli forniti, appunto, dalla cultura pop. In questo modo, il mito e la fantasia non restano confinati al sogno o alla visione, ma diventano un elemento reale, che rende il supereroe verosimile – qualcuno ha mosso paralleli con Kick-Ass e il Super di James Gunn e il riferimento non è peregrino. La storia di Enzo Ceccotti ha quindi il sapore autentico di un dramma delle periferie italiche, ma possiede anche la capacità immaginifica e fantasy delle storie supereroiche all'americana. E quindi, così come il ladruncolo diventa suo malgrado eroe, così il piccolo film di Mainetti diventa anche una riflessione metanarrativa sul nostro bisogno di simboli, e su come un racconto di questo tipo dovrebbe sempre puntare a ispirare il meglio in ogni spettatore (laddove oggi, diversamente, tutto si esaurisce in un citazionismo inerte e autoreferenziale, indirizzato solo a chi già conosce il fumetto di riferimento).

Lo chiamavano Jeeg Robot diventa perciò un piccolo grande film di supereroi all'italiana, che ha certi crismi della commedia, ma è a tutti gli effetti un'opera seria e ossequiosa delle “regole interne” del filone, senza complessi di inferiorità rispetto ai modelli anglosassoni, ma con una forza personale e vibrante. Merito anche di una perfetta sinergia con il cast: Enzo/Jeeg è un incredibile Claudio Santamaria, ingrassato per il ruolo e perfetto per esprimere il misto di tenerezza e insofferenza tipici del suo personaggio; gli fa da contraltare un vulcanico Luca Marinelli (che evolve per certi aspetti il ruolo già sostenuto in Non essere cattivo di Claudio Caligari) e una fragile eppure intensa Ilenia Pastorelli. Un film da non perdere!


Lo chiamavano Jeeg Robot
Regia e produzione: Gabriele Mainetti
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti (soggetto di Nicola Guaglianone)
Con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli
Italia, 2015
Durata:

1 commento:

Massy ha detto...

L'ho recensito anch'io. Marinelli miglior personaggio e interpretazione e film bello tutto. Tecnicamente, senza complessi di inferiorità, con il tocco italiano. Una storia drammatica per supportare il tentativo di fare un film superoistico ma non assolutamente un cinecomics.
Una prova registica eccezionale per essere un opera prima di un lungometraggio per un regista.
Merita di essere visto!Non solo per i rimandi a jeeg o ai supereroi