Ha fatto molto discutere un articolo di Massimo Fini pubblicato lo scorso 27 marzo su Il Fatto Quotidiano: avrebbe potuto farlo fin dal programmatico titolo (Donne, guaio senza soluzione) e che a pubblicarlo sia stato un giornale non certo ascrivibile a un’area conservatrice ha naturalmente finito per amplificare il danno. Sono seguite alcune risposte, una da parte di una collaboratrice del quotidiano, e molte altre dai lettori attraverso il blog antefatto.it.
In quella che era un’autentica requisitoria, Fini si scagliava infatti contro le donne, tacciandole di essere “una razza nemica”, dalla “lingua biforcuta” e i cui maggiori demeriti sarebbero curiosamente quello di mascherarsi da “sesso debole” mentre in realtà “sono quello forte” e di essere “molto più robuste dell’uomo”, tanto da vivere “sette anni in più” (è comunque possibile leggere integralmente l’articolo, raggiungibile attraverso il link in calce).
Non so se Fini abbia poi avuto modo di tornare sull’argomento, magari adducendo come “giustificazione” il fatto di essere stato frainteso (in fondo va di moda nell’Italia recente…) o giocando la carta dell’ironia (pure tirata in ballo da qualche difensore), se non addirittura quella del “fiero pensiero controcorrente”. Ma, che lo abbia fatto o meno, poco importa, l’articolo resta un prodotto inquietante. Non tanto per la misoginia che lo ha animato: il misogino in fondo è riconoscibile, isolabile, commiserabile nella sua incapacità di vedere davvero oltre se stesso. Non meriterebbe una parola sul Nido.
No, il problema è un altro: il danno di quelle righe è che dimostrano come anche una persona che possiamo ascrivere al rango dell’intellettuale (pur con i distinguo che ormai il termine naturalmente scatena) sia caduta nella trappola dell’esemplificazione a ogni costo, di cui i nostri tempi sono tristemente schiavi. Sia stato cioè capace di ricondurre un tema sempiterno e complesso come quello del rapporto uomo-donna a una facile e sterile formulazione di enunciati immediati e riconoscibili. In una parola: semplici. Di più, che condanni il fatto che la realtà spesso tradisca la possibilità di ricondurre il tema a schemi esemplificativi: la donna non è il sesso debole, come viene spesso banalmente, e semplicemente, categorizzata, ma il forte, e questo è male. E’ un sintomo chiaro della tendenza imperante a ricondurre le dinamiche storico-sociali a una formula. Uno slogan. Una frase. Un sms o un post su Twitter. La sintesi, un tempo dono, diventa sistema e spazza come rami secchi qualsiasi argomentazione più complessa. La complessità provoca noia, insofferenza, rancore. E ancor più ne provoca il pensiero di una realtà differente dalla propria.
Prenderò ad esempio un passaggio, che peraltro si collega a un’esperienza da me vissuta (mi si perdonerà se trascino il discorso nell’ambito dell’aneddotica personale). Scrive Fini: “Per l’uomo la linea più breve per congiungere due punti è la retta, per la donna l’arabesco”. Ignoro chi abbia coniato questa formula, ma non è la prima volta che la vedo usare, una volta anche una mia amica la utilizzò in una conversazione, sebbene con presupposti differenti (in quel caso, infatti, lei la tirò in ballo come differenza che avallava meritoriamente la capacità delle donne di essere complesse, a fronte della banalità maschile). La mia risposta a quella sollecitazione fu (vado a memoria): se devo unire due punti posso effettivamente tracciare una retta, ma non è detto che lo trovi necessariamente l’unico metodo possibile o il migliore.
La verità sta in fondo nel senso di un’azione e nella prospettiva da cui si inquadra un problema: adattando il proprio sguardo alle situazioni si può infatti cogliere ogni volta un diverso modo di affrontare la realtà e questo rende il rapporto interpersonale fecondo e vitale. Personalmente ciò che ho sempre trovato affascinante, in quanto uomo, dell’universo femminile è la capacità di farmi reimparare a vedere ciò che per me è scontato attraverso prospettive inedite, in grado di fornire nuovi spunti, nuove vie, nuovi elementi di curiosità. La diversità come possibilità, insomma.
Ecco dunque che gli elementi tirati in ballo da Fini possono tranquillamente essere ribaltati di senso: la donna è inaffidabile, insopportabile, burocratica? E perché invece non considerare come sia tenace, perseverante, ma capace anche di slanci di generosità che spesso la spingono a fare un passo indietro per lasciare ad altri la gloria dei suoi sforzi? (la Storia è piena di esempi a proposito). Ha perso ogni dolcezza e istinto materno nei confronti del marito o compagno che sia? Sorvolando sul fatto che un qualsiasi rapporto di coppia che voglia definirsi maturo non dovrebbe basarsi su dinamiche semplicemente “materne”, non sarà che forse la donna si è dovuta adattare a una realtà che ha spinto sempre per cucirle addosso un ruolo predefinito? Perché fosse esemplificabile? E che ora, negli esempi più positivi, sia invece capace di rivendicare un diritto a essere persona prima ancora che categoria?
Sul sesso la donna ha “fondato il suo potere”? Le cronache di questi mesi in realtà ci mostrano esattamente il contrario, che a tirare le fila di quel sistema di potere c’è invece sempre uno o più uomini…
Certo, su una cosa lo scritto di Fini è meritorio: alcuni dei suoi difensori ne hanno infatti approfittato per sollevare il tema dell’emulazione che spesso muove fra le donne, al punto da appiattirle sui peggiori stereotipi maschili, invece di praticare la ben più nobile arte del distinguo. In fondo quello che merita di essere sempre cercato nelle donne è la capacità di incarnare e coltivare un punto di vista differente e costruttivo, ben diverso sia dalle esemplificazioni dello scritto di Fini che dai tristi e beceri ritratti portati avanti dalle trasmissioni televisive del pomeriggio: se il risultato dell’interazione fra i sessi è invece la sola indifferenziazione, allora sì che la rabbia e il rancore meritano di esplodere come nella parole dell’articolo incriminato. La prospettiva, anche in questo caso, è da considerarsi al rovescio.
Il tema è interessante e sarà pertanto al centro di altri interventi sul Nido, attraverso l’analisi di alcune opere che ritengo significative a proposito.
4 commenti:
Bellissimo post, Davide, che ristabilisce un po' il principio di analisi su questioni sessisticamente poste dagl'intellettualoidi di turno. Da parte mia sono molto "nominalista" sull'argomento "uomo-donna", nel senso che trovo molto futile fare generalizzazioni (gli uomini così, le donne cosà..), sono profondamente convinto, che al di là di individuazioni sessuali (o peggio, sessiste) ci siano persone, individui unici e irripetibili, quindi preferirei parlare non già di uomini e donne, ma di quell'uomo in particolare e quella donna in particolare...mi spingo anche oltre nel non credere a certi miti tipo "la sensibilità femminile/maschile". "lo sguardo femminile/maschile". Ripeto: esistono individui, species sunt nomines.
Mauro F. Giorgio
Ciao Mauro, mi fa molto piacere ricevere un tuo commento, che peraltro condivido in pieno: d'altronde, e dopotutto, è ancora e sempre un problema di eccessive esemplificazioni...
Un caro saluto!
Ciao Rodan,
intervengo innanzi tutto per affermare una massiccia approvazione di quanto dici, soprattutto nel momento in cui rivendichi per la differenza un valore. Sottoscrivo questo valore appunto perché lo rivendichi dopo una lunga dissertazione che chiarisce l'assenza di un mero determinismo "fisiologico" alle spalle degli elementi che concorrono a disegnarla.
Mi permetto di portare un punto di vista sicuramente "diverso",che ha molto a che fare con la mia storia di individuo e quindi anche con il mio genere. Ti prego di non considerarlo provocatorio perché sono molto seria: io sono lieta che la misoginia possa trovare espressione.
In parte, secondo una prospettiva utilitaristica, ne sono contenta perché come te credo si tratti di un modo di pensare che si squalifica da solo. In parte però è perché temo le cose antiche e mordaci che ribollono nel buio, senza che nessuno si accorga del loro persistere e del loro crescere.
Se un intellettuale - laddove all'espressione si conferisce un'accezione neutra, scevra di valutazioni di merito - abbandona il pudore cui il feticismo per il politicamente corretto ci ha condannati per manifestare posizioni schiettamente misogine, questo ci dà la possibilità di tematizzare il problema a un livello immune dalle attenuanti generiche del basso livello culturale, della degradazione ambientale, in generale di tutte le circosanze per cui la marginalità culturale viene associata alla resistenza del sessimo.
Questa storia che il sessissimo sia infallibilmente collegabile a un certo tipo di marginalità è una leggenda dannosa. Il sessismo è un problema, per fare l'esempio più imbecille, dei capoccioni plurilaureati nelle grandi aziende con cui la formazione vorrebbe chiacchierare di diversity management o di gender mainstreaming. Il sessismo è in ogni ambito, in ogni strato culturale.
Ora, possiamo indignarci e additarlo come sopravvivenza zombesca di un assetto culturale morto e sepolto oppure possiamo guadagnare una prospettiva... uhm... diciamo di respiro storico sulle sue ragioni. Questo significa non criminilazzare chi giudichiamo sessista, anche se ci sta sui coglioni per istinto, e ascoltare l'esposizione di cose che oggi già sembra "coraggioso" dire. Ascoltarle prima che dirle cominci a sembrare addirittura "eroico", prima che si verifichi quello che, tra cinefili, possiamo pure chiamare l'effetto Corazzata Potemkin. La corazzata Potemikin, sfido chiunque che l'abbia visto a negarlo, è un film bellissimo e bestialmente appassionante... eppure urlare che è una cazzata pazzesca suona come una demistificazione liberatoria. L'effetto corazzata Potemkin, su questo tema, è in agguato.
Detto questo, leggerò con grandissimo piacere i pezzi che prometti. Spero che tra loro ci sarà un po' di spazio anche per il cinema horror, ovviamente!
Un saluto affettuso (e non così per dire, anche se non ci conosciamo)
AA
Fini fa un'analisi fondamentalmente corretta sulla questione, citando fatti (è purtroppo vera la cosa del diritto di famiglia in caso di separazione, pure la mia donna, che maschilista non lo è di certo, ammette che nel 90% dei casi è iniquo verso l'uomo) ed evidenziando aneddoti su cui CHIUNQUE, nella sua vita, è sicuramente passato qualche volta.
Quelle che sbaglia sono le sue conclusioni, scritte con il consueto gusto della provocazione (che ha un senso in molte occasioni, non questa).
Essendo un giornalista forse non ha molta idea del maschilismo che regna spesso sovrano nel mondo del lavoro; del mobbing utilizzato da molti contro commercialiste o segretarie; del fatto che una donna non può neanche rivolgersi a un sindacato perchè in questo caso, comunque vada, finirà sulla lista nera de futuri datori di lavoro...
Stimo molto Massimo Fini, ma questo non è un articolo che mi convince. Dice cose vere, ma generalizza dimenticandosi parecchie cosucce che screditerebbero il suo articolo.
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