"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 25 marzo 2016

Unbreakable – Il predestinato

Unbreakable – Il predestinato

David Dunn è un tipo ordinario, che lavora come guardia giurata presso lo stadio di Philadelphia e attraversa un periodo di crisi con la moglie. Sopravvissuto al terribile deragliamento del treno su cui viaggiava, David è rimasto miracolosamente illeso: il fatto gli attira le attenzioni di Elijah Price, un collezionista di fumetti affetto da una particolare anomalia genetica che gli è valsa il soprannome di “uomo di vetro”, a causa della facilità con cui le sue ossa tendono a rompersi. L'uomo infatti, insinua la possibilità che i comics supereroistici si basino su un presupposto reale: l'esistenza di esseri indistruttibili, del tutto opposti a quelli fragilissimi come lui. E David potrebbe essere uno di loro, un supereroe che ignora la sua vera natura. Sebbene folle, l'ipotesi inizia a farsi strada nella mente di David, che ripensa alla propria vita: è mai stato malato? Si è mai fatto male sul serio? Ha mai messo alla prova se stesso per comprendere se possiede davvero dei poteri?


Oggi che il tema dei supereroi è alquanto inflazionato, è utile riscoprire questa preziosa pellicola di M. Night Shyamalan, realizzata nel cono d'ombra del fortunato Il sesto senso e per questo non considerata con il giusto merito ai tempi dell'uscita in sala. Film eccentrico eppure estremamente raffinato – come tutti quelli del regista, peraltro – Unbreakable è seminale nella carriera dell'autore indo-americano per come stabilisce la sostanza di tutto il suo cinema: lo fa attraverso il gioco di rispecchiamenti fra la realtà “vera” e il suo doppio fantastico, che finisce per legittimare entrambi gli estremi in una forma, per l'appunto, assolutamente seria e realistica eppure costantemente sopra le righe.

Così accade nel gioco di legittimazione reciproca che si instaura fra il dimesso protagonista, ignaro della sua natura e della propria missione, afflitto com'è da problemi assolutamente “terreni” (il lavoro, la famiglia che va in pezzi); e il collezionista di fumetti, lucidissimo eppure folle nella sua tesi ultraterrena di legittimazione dell'eroe e che perciò si situa volutamente in una sfera fantastica che il regista tratta però con la serietà del grande racconto mitico. Il bello è già qui, in un gioco di identità fra il dramma e i codici del fumetto dove, ricollocando i secondi nello spazio serissimo del primo, il regista smonta e analizza pezzo per pezzo i meccanismi narrativi del racconto supereroico. Che non sono soltanto quelli più appariscenti (la forza sovrumana, il potere speciale, il punto debole, il rapporto con la propria nemesi), ma anche e soprattutto quelli ideali: la capacità di ispirare il Bene, la forza di dare conforto a chi vive una vita nella paura, l'esaltazione dell'atto salvifico che sollevi il mondo dalla mediocrità.

Shyamalan osserva questa dinamica con uno sguardo bambino – perché è nell'infanzia che risiede la fede più assoluta nel mito e la fascinazione per il racconto. Questo è evidente sin dall'inquadratura iniziale in cui il protagonista David Dunn è “spiato” nello spazio fra i sedili del treno – un punto di vista che poi scopriremo essere, appunto, quello di una bambina. E poi innesta questa trasversalità del punto di vista sul rapporto padre/figlio che lega David al piccolo Joseph: che è l'unico a riconoscere immediatamente e spontaneamente la natura supereroica del genitore. Quale figlio non “vede” infatti nel proprio padre un eroe? Ma nella naturalezza del gesto, Shyamalan racchiude tutto il senso della fiducia e, perché no, della meraviglia che lega naturalmente anche il lettore alle avventure dei propri idoli cartacei. Nello spogliare una volta per tutte i comics dalla loro aura pop, in modo da raggiungerne l'essenza, Shyamalan li riconduce a dinamiche quasi primigenie, che sono quelle che muovono i gangli primari della società, e risiedono nelle prime iterazioni di ogni uomo con la propria famiglia. Anche per questo l'elemento familistico ha un'importanza primaria nel processo di ridefinizione e legittimazione che porterà David a riconoscersi in quanto eroe.

Il gioco di rispecchiamenti è dunque articolato su un continuo dualismo delle parti che è anche continuo rovesciamento dei presupposti su cui si basa il mondo “prima” della conoscenza del proprio doppio fantastico: c'è l'eroe e la sua nemesi, dove uno è talmente ordinario da non sospettare la propria invulnerabilità e l'altro è così fragile da non far sospettare la follia ostinata che lo muove. Shyamalan elabora questi spunti con uno stile visivo che alterna la fissità delle figure a una mobilità del punto di vista ottenuto attraverso lunghe inquadrature che trasmettono l'idea di una macchina da presa estremamente leggera. La fisicità degli attori viene ugualmente coinvolta nel processo: Bruce Willis oscilla fra la pesantezza del proprio fisico robusto e la fragilità ispirata dalla più terrena calvizie, fino a sparire nella scena della “vestizione” (tema ricorrente nel cinema del regista) che lo rende una sorta di ombra fluttuante – lieve e “bidimensionale” come l'iconografia di un comic, appunto, ma capace anche di trasmettere l'idea ultraterrena della presenza eroica. Al contrario, Samuel L. Jackson alterna pure la precarietà della sua natura di “uomo di vetro” con una natura più appariscente: vestiti violacei, bastone di cristallo, e capigliatura diseguale si uniscono infatti a una gravità recitativa sintetizzata dal suo sguardo profondo e vagamente spiritato, eccentrico sì, ma anche talmente evidentemente folle da non sembrarlo.

Il finale in cui le carte finalmente si svelano, ben lontano dall'essere un gratuito colpo di scena – come teorizzavano all'epoca i facili codificatori dello Shyamalan artefice di facili twist finali – tenta dunque la saldatura fra gli elementi fino a quel momento posti in essere e attua così il ribaltamento più ardito e feroce: quello che stempera il successo dell'eroe nel dramma della responsabilità che si porta dietro e di cui è a suo modo artefice. Una vera storia di origini, dove il disastro crea la rinascita dell'uomo, ma in ultima istanza ne costruisce anche il dolore. Nelle intenzioni circolate all'epoca da regista e interpreti, Unbreakable sembrava dover proseguire con una serie, forse una trilogia, ma purtroppo tutto è finito qui. Resta in ogni caso un esperimento felice e sorprendente, ancora oggi che la parte pop del concept supereroico ha preso il sopravvento senza possibilità di interventi registici forti sul genere. Il primo film di supereroi senza velleità da blockbuster, ma, anzi, da “piccolo” racconto sul senso dell'umanità.


Unbreakable – Il predestinato
(Unbreakable)
Regia e sceneggiatura: M. Night Shyamalan
Origine: Usa, 2000
Durata: 106 minuti



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