L'ultima onda
In un'estate
australiana toccata da inspiegabili fenomeni di maltempo, l'avvocato
David Burton deve difendere alcuni aborigeni dall'accusa di aver
ucciso un loro simile durante una rissa notturna. Indagando
sull'accaduto, e sfidando la stessa reticenza dei suoi clienti,
Burton inizia a sospettare che le motivazioni possano andare al di là
di un semplice alterco provocato dall'abuso di alcool e nascondano
invece motivazioni legate agli antichi rituali degli indigeni
d'Australia. Questo, sebbene chi gli sta intorno (e gli stessi
aborigeni) sostengano che i nativi della città abbiano ormai reciso
qualsiasi legame con le antiche tradizioni tribali. Nel corso
dell'indagine, Burton inizia a essere pure affetto da strani incubi
(dove compare Chris, uno degli aborigeni), che sembrano presagire
l'arrivo di una catastrofe, destinata a spazzare via la civiltà.
Anche questo fa parte degli antichi rituali tribali o è solo una
coincidenza?
Si può pensare a L'ultima
onda come al primo autentico film mainstream di Peter
Weir? Il dato di fatto è che la pellicola segue il successo
planetario di Picnic a Hanging Rock e, in effetti, nasce con
intenti apparentemente transnazionali: la parte del protagonista è
affidata all'americano Richard Chamberlain, dopo che un paio di
attori australiani avevano rifiutato la parte, in modo da
accontentare la produzione che cercava un volto più noto. Peraltro,
sempre a livello produttivo, l'americana United Artist entra nel
progetto, salvo poi – bizzarra ironia del destino – rifiutarsi di
distribuire il film finito negli Stati Uniti (se ne occuperà la
World Northal). Alla sceneggiatura troviamo infine un altro nome
occidentale, quello del co-sceneggiatore rumeno Petru Popescu: tutti
elementi che lascerebbero presagire un tocco più “esterofilo”,
per quello che, nei fatti, si rivela al contrario uno dei film di
Weir che più indagano all'interno della specifica realtà
australiana.
Perseguendo con coerenza
il proprio ideale di cinema panico e legato all'irruzione di elementi
soprannaturali (o comunque dionisiaci, disgiunti dalla sfera del
reale) in un contesto ben definito e assolutamente concreto e
apollineo, Weir forgia un universo stratificato, dove la stessa
descrizione della realtà metropolitana si fa sfaccettata e pregna di
prospettive differenti. Se escludiamo alcune scene manifestamente
ambientate all'aperto (come quelle iniziali con l'aborigeno Charlie
intento a dipingere sulla roccia, e il temporale che colpisce
all'improvviso una scolaresca), il film predilige ambientazioni in
interni, ritagliando piccole porzioni di cielo in un panorama
frastagliato dall'invasività dei palazzi. La città è uno spazio
geometricamente “pesante”, che Weir mette addosso ai personaggi,
salvo poi riscrivere completamente la geografia quando mostra la
letterale sovrapposizione delle realtà. Ecco dunque una Sidney
sotterranea e tribale, nascosta eppure aderente a una mitologia che
precede la colonizzazione e che si fa tanto paradigma di una sorta di
autenticità culturale australiana (garantita dall'elemento
aborigeno), quando precognizione di un destino che attende l'umanità
tutta.
Dunque un film a metà
fra l'operazione personale e l'universalità di un tema che alla fine
coinvolge l'intero mondo: in tal senso non stupisce che lo stesso
protagonista sia suo malgrado un personaggio sospeso fra due mondi,
l'Australia in cui vive e l'America da cui proviene - per ragioni
produttive, come abbiamo visto, ma che Weir riesce a contestualizzare
e a rendere narrativamente pregnanti. La figura di Burton compie
pertanto un percorso che tende sempre più a smaterializzare la sua
concretezza di uomo per farne icona trasparente, in grado di
assorbire le influenze delle varie realtà che al regista interessa
intrecciare. Non più uomo ma espressione della mera legge (che per
gli aborigeni precede l'umanità stessa e dona senso allo stare al
mondo), non più persona quanto singolo retaggio di un sentire
garantito dalla sua cultura e dal suo lignaggio, reso protagonista
attivo nella sequenza della cena, in cui Burton mostra le foto dei
suoi avi agli aborigeni Charlie e Chris. E, infine, non più avvocato
o semplice cittadino, ma incarnazione dell'entità che predice
l'apocalisse.
Il percorso come sempre è
articolato lungo una direttrice che oscilla fra due estremi: come la
Miranda di Picnic a Hanging Rock, insomma, anche David Burton
è a un tempo mero strumento di una volontà superiore che scoperchia
il vaso di Pandora, e anche inconsapevole pedina che permette
l'innesco del disastro e forse addirittura lo provoca, sebbene suo
malgrado. Il suo particolare rapporto con il mondo onirico, infatti,
ci viene detto essere attivo fin dall'infanzia, quando l'uomo aveva
previsto in sogno la morte della madre.
Weir, non a caso, opta
per un registro visivo che fa dell'onirismo una linea guida, rompendo
progressivamente la distanza fra realtà e sogno, e attuando perciò
una sovrapposizione fra la Sidney reale e il mondo che Burton forgia
attraverso le proprie visioni, senza una particolare soluzione di
continuità. Con una radicalità che sarà superata solo dal
Nightmare di Wes Craven, il regista australiano compone un
enorme sogno a occhi aperti, complici la fotografia del sodale Russell Boyd (riconfermato dopo Picnic a Hanging Rock) e le musiche ipnotiche di Charles Wain. Il risultato resta pure estremamente materico nella forza
degli elementi che invadono il set: pioggia, fango, bibliche rane che
cadono dal cielo, fango, fino alle rocce e alle pietre che compongono
il Tempio del Sogno dello showdown finale. Il tutto, sempre
stemperato da un clima di continua attesa, sempre più opprimente e
quasi horror, per emulare il quale dovremo attendere il bellissimo
Take Shelter, e che iscrive
il film nel filone apocalittico molto in voga alla fine degli anni
Settanta. L'indice di quanto Weir sia un regista unico, ma comunque
ben inserito nel contesto dei generi che gli corrono accanto. Il suo
è perciò un cinema astratto, eppure estremamente reale.
L'ultima
onda
(The
Last Wave)
Regia:
Peter Weir
Sceneggiatura:
Peter Weir, Tony Morphett, Petru Popescu
Origine:
Australia, 1977
Durata:
101'
1 commento:
film davvero angosciante.
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