"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 17 marzo 2014

L'ultima onda

L'ultima onda

In un'estate australiana toccata da inspiegabili fenomeni di maltempo, l'avvocato David Burton deve difendere alcuni aborigeni dall'accusa di aver ucciso un loro simile durante una rissa notturna. Indagando sull'accaduto, e sfidando la stessa reticenza dei suoi clienti, Burton inizia a sospettare che le motivazioni possano andare al di là di un semplice alterco provocato dall'abuso di alcool e nascondano invece motivazioni legate agli antichi rituali degli indigeni d'Australia. Questo, sebbene chi gli sta intorno (e gli stessi aborigeni) sostengano che i nativi della città abbiano ormai reciso qualsiasi legame con le antiche tradizioni tribali. Nel corso dell'indagine, Burton inizia a essere pure affetto da strani incubi (dove compare Chris, uno degli aborigeni), che sembrano presagire l'arrivo di una catastrofe, destinata a spazzare via la civiltà. Anche questo fa parte degli antichi rituali tribali o è solo una coincidenza?


Si può pensare a L'ultima onda come al primo autentico film mainstream di Peter Weir? Il dato di fatto è che la pellicola segue il successo planetario di Picnic a Hanging Rock e, in effetti, nasce con intenti apparentemente transnazionali: la parte del protagonista è affidata all'americano Richard Chamberlain, dopo che un paio di attori australiani avevano rifiutato la parte, in modo da accontentare la produzione che cercava un volto più noto. Peraltro, sempre a livello produttivo, l'americana United Artist entra nel progetto, salvo poi – bizzarra ironia del destino – rifiutarsi di distribuire il film finito negli Stati Uniti (se ne occuperà la World Northal). Alla sceneggiatura troviamo infine un altro nome occidentale, quello del co-sceneggiatore rumeno Petru Popescu: tutti elementi che lascerebbero presagire un tocco più “esterofilo”, per quello che, nei fatti, si rivela al contrario uno dei film di Weir che più indagano all'interno della specifica realtà australiana.

Perseguendo con coerenza il proprio ideale di cinema panico e legato all'irruzione di elementi soprannaturali (o comunque dionisiaci, disgiunti dalla sfera del reale) in un contesto ben definito e assolutamente concreto e apollineo, Weir forgia un universo stratificato, dove la stessa descrizione della realtà metropolitana si fa sfaccettata e pregna di prospettive differenti. Se escludiamo alcune scene manifestamente ambientate all'aperto (come quelle iniziali con l'aborigeno Charlie intento a dipingere sulla roccia, e il temporale che colpisce all'improvviso una scolaresca), il film predilige ambientazioni in interni, ritagliando piccole porzioni di cielo in un panorama frastagliato dall'invasività dei palazzi. La città è uno spazio geometricamente “pesante”, che Weir mette addosso ai personaggi, salvo poi riscrivere completamente la geografia quando mostra la letterale sovrapposizione delle realtà. Ecco dunque una Sidney sotterranea e tribale, nascosta eppure aderente a una mitologia che precede la colonizzazione e che si fa tanto paradigma di una sorta di autenticità culturale australiana (garantita dall'elemento aborigeno), quando precognizione di un destino che attende l'umanità tutta.

Dunque un film a metà fra l'operazione personale e l'universalità di un tema che alla fine coinvolge l'intero mondo: in tal senso non stupisce che lo stesso protagonista sia suo malgrado un personaggio sospeso fra due mondi, l'Australia in cui vive e l'America da cui proviene - per ragioni produttive, come abbiamo visto, ma che Weir riesce a contestualizzare e a rendere narrativamente pregnanti. La figura di Burton compie pertanto un percorso che tende sempre più a smaterializzare la sua concretezza di uomo per farne icona trasparente, in grado di assorbire le influenze delle varie realtà che al regista interessa intrecciare. Non più uomo ma espressione della mera legge (che per gli aborigeni precede l'umanità stessa e dona senso allo stare al mondo), non più persona quanto singolo retaggio di un sentire garantito dalla sua cultura e dal suo lignaggio, reso protagonista attivo nella sequenza della cena, in cui Burton mostra le foto dei suoi avi agli aborigeni Charlie e Chris. E, infine, non più avvocato o semplice cittadino, ma incarnazione dell'entità che predice l'apocalisse.

Il percorso come sempre è articolato lungo una direttrice che oscilla fra due estremi: come la Miranda di Picnic a Hanging Rock, insomma, anche David Burton è a un tempo mero strumento di una volontà superiore che scoperchia il vaso di Pandora, e anche inconsapevole pedina che permette l'innesco del disastro e forse addirittura lo provoca, sebbene suo malgrado. Il suo particolare rapporto con il mondo onirico, infatti, ci viene detto essere attivo fin dall'infanzia, quando l'uomo aveva previsto in sogno la morte della madre.

Weir, non a caso, opta per un registro visivo che fa dell'onirismo una linea guida, rompendo progressivamente la distanza fra realtà e sogno, e attuando perciò una sovrapposizione fra la Sidney reale e il mondo che Burton forgia attraverso le proprie visioni, senza una particolare soluzione di continuità. Con una radicalità che sarà superata solo dal Nightmare di Wes Craven, il regista australiano compone un enorme sogno a occhi aperti, complici la fotografia del sodale Russell Boyd (riconfermato dopo Picnic a Hanging Rock) e le musiche ipnotiche di Charles Wain. Il risultato resta pure estremamente materico nella forza degli elementi che invadono il set: pioggia, fango, bibliche rane che cadono dal cielo, fango, fino alle rocce e alle pietre che compongono il Tempio del Sogno dello showdown finale. Il tutto, sempre stemperato da un clima di continua attesa, sempre più opprimente e quasi horror, per emulare il quale dovremo attendere il bellissimo Take Shelter, e che iscrive il film nel filone apocalittico molto in voga alla fine degli anni Settanta. L'indice di quanto Weir sia un regista unico, ma comunque ben inserito nel contesto dei generi che gli corrono accanto. Il suo è perciò un cinema astratto, eppure estremamente reale.


L'ultima onda
(The Last Wave)
Regia: Peter Weir
Sceneggiatura: Peter Weir, Tony Morphett, Petru Popescu
Origine: Australia, 1977
Durata: 101'

1 commento:

poison ha detto...

film davvero angosciante.