"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 4 dicembre 2015

Torino Film Festival 2015

Torino Film Festival 2015

Dal 20 al 28 Novembre si è rinnovato il rito della trasferta torinese per il festival del cinema, amatissimo e estremamente partecipato - quest'anno, nonostante il ritorno delle tre sale del Lux, le code hanno spesso lasciato fuori una parte del pubblico. Il programma può essere ben sintetizzato dalla retrospettiva Cose che verranno, dove si esplorava il futuro visto dal passato (attraverso i classici della sci-fi più o meno distopica), perché in effetti sappiamo bene che al festival è cara la tradizione del cinema, ma senza che questo faccia mai venir meno lo sguardo verso le nuove tendenze – e infatti, in un magnifico gioco di paradossi, la retrospettiva resta uno spazio “protetto” ma meno centrale che in passato.

Il segreto della fortunata ricetta torinese, in fondo, sta proprio in questo: non cambiare mai nell'impostazione generale, ma senza negarsi al contempo il piacere della novità. I percorsi si sono perciò articolati fra il classico Concorso (dove ha vinto Keeper, di Guillame Senez); la macro-sezione Festa Mobile, trasversale alla proposta dei nuovi titoli di autori consolidati e piccole grandi scoperte; i percorsi monografici su Orson Welles (per il suo centenario), Julien Temple e Terence Davies; la sezione più “di genere” e “dark” After Hours; e infine, ma non ultime, le Onde di Massimo Causo e Roberto Manassero con il cinema sperimentale e di ricerca.

Torino resta quindi un faro per il cinema di qualità, senza le tentazioni dell'evento mondano fine a se stesso, ma è ugualmente capace di attirare le masse e di produrre il divertimento: lo stesso direttore Emanuela Martina ha sempre concluso ogni annuncio con un augurale “Buon divertimento”, diverso dal più classico “buona visione” e la sfumatura non è da poco. A proposito di divertimento, va segnalata quest'anno la novità della Notte Horror, maratona della sezione After Hours proseguita fino all'alba con tanto di distribuzione di cornetti, cola e caffè per i più irriducibili (il sottoscritto non poteva naturalmente mancarla!).

Qui di seguito (dopo il salto) brevi schedine di alcuni fra i titoli più interessanti visti o riscoperti al festival, nella speranza che siano prima o poi distribuiti regolarmente in Italia:



February, di Osgood Perkins (After Hours)


Il figlio del mai dimenticato Anthony ha alle spalle una rispettabile gavetta come attore di secondo piano (in Secretary, Alias e Star Trek): al festival arriva come autore di un suggestivo horror d'atmosfera, che propone un originale rovesciamento di prospettive sul tema della possessione demoniaca. Al posto dei soliti cliché del filone, una struttura narrativa a rompicapo, con il continuo andirivieni fra tempi e situazioni differenti, che solo alla fine permetteranno ai vari pezzi di incastrarsi. Nel cast la sempre brava Emma Roberts.
 

The Devil's Candy, di Sean Byrne (After Hours)


Il regista del bellissimo The Loved Ones abbandona l'Australia per il suo debutto americano, con una storia che mescola musica metal, serial killer e case stregate: così facendo, dimostra come anche il plot più scontato possa trovare una sua ragione d'essere se è sorretto da uno stile forte e da una capacità visiva non comune. Un film che stimola i sensi fino al roboante finale, per un talento da tenere d'occhio.
 

La guerra dei mondi, di Byron Haskin (e George Pal) (Cose che verranno)


Un classico, riportato ai furori del grande schermo dal lontano 1953: le splendide navi marziane e la devastazione che provocano sulla Terra, confermano la forza di questo kolossal ante-litteram. Da un lato l'esaltazione di un forte senso della comunità americana, dall'altro la disfatta totale che nell'amarezza dell'incapacità di fare gruppo è quasi un'anticipazione delle distopie anni Settanta: come se John Ford incontrasse George Romero insomma! La partita, non a caso, è chiusa dall'imprevedibilità di ciò che non si vede, in un film così straordinariamente visivo (il senso dell'estetica di George Pal fa letteralmente miracoli)! Unico neo (nostalgico): visto in lingua originale, si sente la mancanza della voce narrante del grandissimo Vittorio Cramer.
 

Stand by for Tape Back-Up, di Ross Sutherland (Onde)


Partendo da una sua performance teatrale (cui fa riferimento la locandina qui sopra), il regista inglese commenta i filmati impressi su una vecchia videocassetta appartenuta all'amato nonno ormai scomparso, sul quale l'uomo aveva registrato più volte. Mentre scorrono filmati, con porzioni di vecchi film e programmi televisivi, il nastro viene svolto e riavvolto, le parole di Sutherland creano connessioni con la memoria e danno forma a un racconto teorico sul riportare in vita il passato e gli affetti, e sull'esorcizzare il sempiterno rapporto dei vivi con la morte. Esaltante sperimentazione linguistica, che è anche un divertito omaggio cinefilo a porzioni di memoria condivisi dal pubblico di ieri e di oggi.
 

Love & Peace, di Sion Sono (After Hours)


Tre i film del prolifico autore giapponese mostrati a Torino (su un totale di cinque diretti nel corso dell'anno), anche molto diversi tra loro. Love & Peace è il migliore, e racconta la parabola di un imbranato impiegato che diventa una rockstar, ma non riesce a dimenticare l'amata tartaruga Pikadon che ha abbandonato prima del successo e che è approdata in una comunità di balocchi perduti assumendo via via dimensioni gigantesche, fino a un finale da kaiju-eiga! Una divertente sarabanda di situazioni che è anche una profonda riflessione sull'identità nella società spettacolo.
Di questo film è leggibile la mia recensione più approfondita su Orizzonti di gloria.
 

La Terra silenziosa, di Geoff Murphy (Cose che verranno)


Fra i classici più noti della retrospettiva spuntano alcune scelte curiose, che permettono di riscoprire titoli altrimenti dimenticati, come questa fantascienza distopica neozelandese, su un ultimo abitante della Terra dopo un esperimento che ha cancellato l'umanità: scenari desolati e un senso precario di un'umanità agli sgoccioli, con un fondo di amarezza non riscattato dall'incontro con altri due superstiti. Visivamente soffre di una certa rigidità anni Ottanta, ma nell'impianto generale resta un titolo suggestivo.
 

West and Soda, di Bruno Bozzetto (Festa Mobile)


In occasione dei cinquant'anni dall'uscita, il capolavoro animato di Bruno Bozzetto è stato riproposto in versione restaurata, in un evento alla presenza dell'autore, con una nutrita rappresentanza dei realizzatori. Un'opera straordinaria, che nel mettere alla berlina i cliché del genere si dimostra straordinariamente addentro ai codici del nascente western italiano, con protagonisti senza morale, tempi dilatati e una tensione di morte stemperata da un umorismo nero controcorrente.
 

Phantom Boy, di Jean-Lupo Felicioli e Alain Gagnol (Festa Mobile)


Gli autori francesi di Un gatto a Parigi tornano con una storia “americana” che mescola il genere noir con una pulsione quasi supereroica: c'è un folle che minaccia di provocare il black out totale e gli unici che possono fermarlo sono un poliziotto bloccato in ospedale da una gamba ingessata e un bambino malato che ha la facoltà di far “uscire” la sua anima dal corpo: non può agire direttamente ma può riferire quello che vede. L'avventura diventa così una intelligente epopea, dove la forza espressiva del disegno si sublima nel potere della parola. Anche di questo film è possibile leggere una mia recensione completa su Orizzonti di gloria.
 

The Assassin, di Hou-Hsiao-Hsien (Festa Mobile)


Il capolavoro del festival: il regista taiwanese affronta il genere wuxiapian con la storia di un'assassina che, nella Cina del IX secolo viene incaricata di eliminare un oppositore del potere. E lo fa rispettando tutti i codici espressivi del genere (le coreografie dei combattimenti sono splendide), ma allo stesso tempo rinnegandoli in una narrazione sospesa, che sublima ogni particolare nella bellezza espressiva del gesto, degli spazi e del tempo. Un'opera potente e lirica, rappresentata benissimo dalla sua protagonista: una guerriera infallibile, divisa però fra le ragioni del canone e il diniego delle stesse. Pura poesia per immagini.
 

Evolution, di Lucile Hadzihalilovic (After Hours)


Il cinema francese più oscuro e che non ti aspetti, in grado di traslare la forza espressiva dell'horror in una pulsione eterea degna della fiaba: il piccolo protagonista è infatti rinchiuso in uno strano ospedale dove si compiono esperimenti di inseminazione artificiale da parte di una razza di misteriose infermiere-mostro che mirano a perpetuare la loro specie. La regista lascia molto spazio al non detto e lavora sulla forza perturbante delle atmosfere, fra raggelata sessualità e una visualità tagliente, in grado di creare uno stile asfissiante e affascinante allo stesso tempo. Idealmente da accostare a Les revenants, in opposizione a tanto horror francese più fisico e barocco.
 

Balikbayan #1 – Memories of Overdevelopment (Redux III), di Kidlat Tahimik (Onde)


I grandi eventi della Storia che si mescolano alle storie meno note: il regista filippino racconta, in questo emozionante video-diario, il suo viaggio sulle tracce di Enrique, lo schiavo che aveva compiuto (e completato) la circumnavigazione del globo terrestre insieme a Ferdinando Magellano, nel XVI secolo. Attraverso una struttura fluviale, che comprende il resoconto della ricerca, gli spezzoni di un vecchio sceneggiato che romanza la vita di Enrique, e l'incontro con l'attore che aveva interpretato il ruolo, il regista ci immerge in un caleidoscopio di suggestioni che esaltano la ricerca di un'identità e il recupero del rimosso, con alcune note critiche rispetto alla versione veicolata dalla Storia ufficiale. Un documentario che piacerebbe a Werner Herzog (a quanto pare effettivamente grande estimatore di Tahimik).
 

John From, di Joao Nicolau (Concorso)


La quindicenne Rita si innamora del vicino di casa, un fotografo che ha visitato la Melanesia e sta allestendo una mostra con i suoi scatti. Con delicatezza assistiamo alle giornate di questa esuberante adolescente e alla progressiva “melanesizzazione” del suo mondo, che estrinseca i sentimenti permeando la realtà, attraverso una dimensione soggettiva che si fa oggettiva e permette così alla tenerezza di un sentimento di colorare il mondo come fosse una grande fiaba. Un racconto poetico e irresistibile, a ritmo di Lambada (ascoltare per credere), fra i migliori visti al festival.
 

The Ecstasy of Wilko Johnson, di Julian Temple


Guest Director dell'edizione 2015 del TFF, Julian Temple ha portato a Torino due lavori finemente collegati e dedicati al gruppo pub rock dei Dr. Feelgood: Oil City Confidential, del 2009, ne racconta i successi, seguendo le formule da biopic musicale già note agli estimatori del regista. Dove la forza espressiva trova il suo picco, però, è nell'ultimo The Ecstasy of Wilko Johnson, che racconta l'incredibile caduta e rinascita del chitarrista della band, cui era stato diagnosticato un tumore incurabile e che decide perciò di vivere i suoi ultimi giorni con l'intensità dei migliori, fino a un miracolo finale. Un'opera intensa e commovente, che è un continuo dialogo con la morte, trasfigurato nel migliore e potente inno alla vita che si possa immaginare, a suon di grande musica. All'interno del documentario sono anche citati alcuni classici (Il settimo sigillo, La bella e la bestia di Cocteau, Scala al Paradiso e Sayat Nova di Padadjanov), pure riproposti al festival, nell'ambito del percorso tematico curato dall'autore.
 

Terrore nello spazio, di Mario Bava (Festa Mobile)


Altro restauro di lusso, per il classico fanta-horror di Bava: la particolarità, oltre alla possibilità di una nuova visione in una copia 4K che esalta al meglio i cromatismi prediletti dall'autore, è stata la presentazione d'eccezione: da un lato due figuranti con le tute originali indossate nel film, dall'altro il produttore Fulvio Lucisano e il mitico Nicolas Winding Refn, grande estimatore del film e dei suoi particolari contrasti.
 

Heterophobia, di Goyo Anchou (Onde)


Mariano è un giovane gay di Buenos Aires, che racconta la sua ricerca dell'amore in un mondo fondato sulle logiche patriarcali, che condannano l'omosessualità come una colpa da nascondere. Al di là dell'ovvia militanza del presupposto, colpisce il lavoro di elaborazione visiva, che crea un'opera in grado di mescolare pratiche alte e basse, dove le metafore vengono esplicitate in suggestioni horror e il tono si fa lisergico. Un'opera da vivere con i sensi, immergendosi nel flusso delle immagini, prima ancora che nelle logiche della mera narrazione.
 

Faire la parole, di Eugène Green (Onde)


Ormai un affezionato del Festival, Green stavolta realizza un documentario sulla lingua basca, sul suo rapporto conflittuale con le istituzioni spagnole che hanno sempre cercato di osteggiarne l'uso, osservando alcuni personaggi e il loro lavoro di educazione all'identità nei confronti delle giovani generazioni. Da un regista apolide (nato in America ha poi rinnegato completamente i suoi legami con la madrepatria) la ricerca diventa un viaggio in una cultura che è anche un'esperienza introspettiva sul filo della parola e del canto, in grado di risultare molto affascinante.
 

Blade Runner – Final Cut, di Ridley Scott (Cose che verranno)



Altro titolo che non ha bisogno di presentazioni e che non poteva essere mancato, nella forza della visione su grande schermo: la distinzione tra Final e Original Cut è ininfluente, erano infatti presentate entrambe le versioni e ho scelto questa perché non l'avevo mai vista. Resta sorprendente la natura ormai “istituzionale” di un'estetica che ha di fatto modellato tutta la percezione del futuro dal 1982 in poi. E, soprattutto, un'ancor poco considerata cifra “manniana”, che nel rapporto con lo spazio metropolitano fatto di ombre noir, nel rincorrersi di visioni e fantasmi, anticipa il lavoro poi portato avanti dal grande regista di Heat. Chissà se effettivamente c'è stata un'influenza diretta, o se è tutto frutto di una temperie che aleggiava nel tempo e che ha finito, per caduta, per avvicinare i due artisti. Il film, in ogni caso, resta un capolavoro.

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