Torino Film Festival 2015
Dal 20 al 28 Novembre si
è rinnovato il rito della trasferta torinese per il festival del
cinema, amatissimo e estremamente partecipato - quest'anno,
nonostante il ritorno delle tre sale del Lux, le code hanno spesso
lasciato fuori una parte del pubblico. Il programma può essere ben
sintetizzato dalla retrospettiva Cose che verranno, dove si
esplorava il futuro visto dal passato
(attraverso i classici della sci-fi più o meno distopica),
perché in effetti sappiamo bene che al festival è cara la
tradizione del cinema, ma senza che questo faccia mai venir meno lo
sguardo verso le nuove tendenze – e infatti, in un magnifico gioco
di paradossi, la retrospettiva resta uno spazio “protetto” ma
meno centrale che in passato.
Il segreto della
fortunata ricetta torinese, in fondo, sta proprio in questo: non
cambiare mai nell'impostazione generale, ma senza negarsi al contempo il piacere della
novità. I percorsi si sono perciò articolati fra il classico
Concorso (dove ha vinto Keeper, di Guillame Senez); la
macro-sezione Festa Mobile, trasversale alla proposta dei nuovi
titoli di autori consolidati e piccole grandi scoperte; i percorsi
monografici su Orson Welles (per il suo centenario), Julien Temple e
Terence Davies; la sezione più “di genere” e “dark” After
Hours; e infine, ma non ultime, le Onde di Massimo Causo e Roberto
Manassero con il cinema sperimentale e di ricerca.
Torino resta quindi un
faro per il cinema di qualità, senza le tentazioni dell'evento
mondano fine a se stesso, ma è ugualmente capace di attirare le
masse e di produrre il divertimento: lo stesso direttore Emanuela
Martina ha sempre concluso ogni annuncio con un augurale “Buon divertimento”,
diverso dal più classico “buona visione” e la sfumatura non è
da poco. A proposito di divertimento, va segnalata quest'anno la
novità della Notte Horror, maratona della sezione After Hours
proseguita fino all'alba con tanto di distribuzione di cornetti, cola
e caffè per i più irriducibili (il sottoscritto non poteva
naturalmente mancarla!).
Qui di seguito (dopo il salto) brevi
schedine di alcuni fra i titoli più interessanti visti o riscoperti
al festival, nella speranza che siano prima o poi distribuiti
regolarmente in Italia:
February,
di Osgood Perkins (After Hours)
Il figlio del mai
dimenticato Anthony ha alle spalle una rispettabile gavetta come
attore di secondo piano (in Secretary, Alias e Star
Trek): al festival arriva come autore di un suggestivo horror
d'atmosfera, che propone un originale rovesciamento di prospettive
sul tema della possessione demoniaca. Al posto dei soliti cliché del
filone, una struttura narrativa a rompicapo, con il continuo
andirivieni fra tempi e situazioni differenti, che solo alla fine
permetteranno ai vari pezzi di incastrarsi. Nel cast la sempre brava
Emma Roberts.
The Devil's Candy,
di Sean Byrne (After Hours)
Il regista del bellissimo
The Loved Ones
abbandona l'Australia per il suo debutto americano, con una storia
che mescola musica metal, serial killer e case stregate: così
facendo, dimostra come anche il plot più scontato possa trovare una
sua ragione d'essere se è sorretto da uno stile forte e da una
capacità visiva non comune. Un film che stimola i sensi fino al
roboante finale, per un talento da tenere d'occhio.
La guerra dei mondi, di Byron Haskin (e George Pal) (Cose che verranno)
Un classico,
riportato ai furori del grande schermo dal lontano 1953: le
splendide navi marziane e la devastazione che provocano sulla Terra, confermano la
forza di questo kolossal ante-litteram. Da un lato l'esaltazione di un
forte senso della comunità americana, dall'altro la disfatta totale
che nell'amarezza dell'incapacità di fare gruppo è quasi
un'anticipazione delle distopie anni Settanta: come se John Ford
incontrasse George Romero insomma! La partita, non a caso, è chiusa
dall'imprevedibilità di ciò che non si vede, in un film così
straordinariamente visivo (il senso dell'estetica di George Pal fa
letteralmente miracoli)! Unico neo (nostalgico): visto in lingua originale,
si sente la mancanza della voce narrante del grandissimo Vittorio Cramer.
Stand by for Tape
Back-Up, di Ross Sutherland (Onde)
Partendo da una sua
performance teatrale (cui fa riferimento la locandina qui sopra), il regista inglese commenta i filmati impressi
su una vecchia videocassetta appartenuta all'amato nonno ormai
scomparso, sul quale l'uomo aveva registrato più volte. Mentre
scorrono filmati, con porzioni di vecchi film e programmi televisivi,
il nastro viene svolto e riavvolto, le parole di Sutherland creano
connessioni con la memoria e danno forma a un racconto teorico sul
riportare in vita il passato e gli affetti, e sull'esorcizzare il
sempiterno rapporto dei vivi con la morte. Esaltante sperimentazione
linguistica, che è anche un divertito omaggio cinefilo a porzioni di
memoria condivisi dal pubblico di ieri e di oggi.
Love & Peace,
di Sion Sono (After Hours)
Tre i film del prolifico
autore giapponese mostrati a Torino (su un totale di cinque diretti
nel corso dell'anno), anche molto diversi tra loro. Love & Peace
è il migliore, e racconta la parabola di un imbranato impiegato che
diventa una rockstar, ma non riesce a dimenticare l'amata tartaruga
Pikadon che ha abbandonato prima del successo e che è approdata in
una comunità di balocchi perduti assumendo via via dimensioni
gigantesche, fino a un finale da kaiju-eiga! Una divertente sarabanda
di situazioni che è anche una profonda riflessione sull'identità
nella società spettacolo.
Di questo film è
leggibile la mia recensione più approfondita su Orizzonti di gloria.
La Terra
silenziosa, di Geoff Murphy (Cose che verranno)
Fra i classici più noti
della retrospettiva spuntano alcune scelte curiose, che permettono di
riscoprire titoli altrimenti dimenticati, come questa fantascienza
distopica neozelandese, su un ultimo abitante della Terra dopo un
esperimento che ha cancellato l'umanità: scenari desolati e un senso
precario di un'umanità agli sgoccioli, con un fondo di amarezza non
riscattato dall'incontro con altri due superstiti. Visivamente soffre
di una certa rigidità anni Ottanta, ma nell'impianto generale resta
un titolo suggestivo.
West and Soda,
di Bruno Bozzetto (Festa Mobile)
In occasione dei
cinquant'anni dall'uscita, il capolavoro animato di Bruno Bozzetto è
stato riproposto in versione restaurata, in un evento alla presenza dell'autore, con una nutrita rappresentanza dei realizzatori.
Un'opera straordinaria, che nel mettere alla berlina i cliché del
genere si dimostra straordinariamente addentro ai codici del nascente
western italiano, con protagonisti senza morale, tempi dilatati e una
tensione di morte stemperata da un umorismo nero controcorrente.
Phantom Boy,
di Jean-Lupo Felicioli e Alain Gagnol (Festa Mobile)
Gli autori francesi di Un
gatto a Parigi tornano con una storia “americana” che mescola il genere noir con una pulsione quasi supereroica: c'è un folle che minaccia
di provocare il black out totale e gli unici che possono fermarlo
sono un poliziotto bloccato in ospedale da una gamba ingessata e un
bambino malato che ha la facoltà di far “uscire” la sua anima
dal corpo: non può agire direttamente ma può riferire quello che
vede. L'avventura diventa così una intelligente epopea, dove la
forza espressiva del disegno si sublima nel potere della parola.
Anche di questo film è possibile leggere una mia recensione completa
su Orizzonti di gloria.
The Assassin,
di Hou-Hsiao-Hsien (Festa Mobile)
Il capolavoro del
festival: il regista taiwanese affronta il genere wuxiapian con la
storia di un'assassina che, nella Cina del IX secolo viene incaricata
di eliminare un oppositore del potere. E lo fa rispettando tutti i
codici espressivi del genere (le coreografie dei combattimenti sono
splendide), ma allo stesso tempo rinnegandoli in una narrazione
sospesa, che sublima ogni particolare nella bellezza espressiva del
gesto, degli spazi e del tempo. Un'opera potente e lirica,
rappresentata benissimo dalla sua protagonista: una guerriera
infallibile, divisa però fra le ragioni del canone e il diniego
delle stesse. Pura poesia per immagini.
Evolution,
di Lucile Hadzihalilovic (After Hours)
Il cinema francese più
oscuro e che non ti aspetti, in grado di traslare la forza espressiva
dell'horror in una pulsione eterea degna della fiaba: il piccolo
protagonista è infatti rinchiuso in uno strano ospedale dove si
compiono esperimenti di inseminazione artificiale da parte di una
razza di misteriose infermiere-mostro che mirano a perpetuare la loro
specie. La regista lascia molto spazio al non detto e lavora sulla
forza perturbante delle atmosfere, fra raggelata sessualità e una
visualità tagliente, in grado di creare uno stile asfissiante e
affascinante allo stesso tempo. Idealmente da accostare a Les
revenants, in opposizione a tanto horror francese più fisico e
barocco.
Balikbayan #1 –
Memories of Overdevelopment (Redux III), di Kidlat Tahimik
(Onde)
I grandi eventi della
Storia che si mescolano alle storie meno note: il regista filippino
racconta, in questo emozionante video-diario, il suo viaggio sulle
tracce di Enrique, lo schiavo che aveva compiuto (e completato) la
circumnavigazione del globo terrestre insieme a Ferdinando Magellano,
nel XVI secolo. Attraverso una struttura fluviale, che comprende il
resoconto della ricerca, gli spezzoni di un vecchio sceneggiato che
romanza la vita di Enrique, e l'incontro con l'attore che aveva
interpretato il ruolo, il regista ci immerge in un caleidoscopio di
suggestioni che esaltano la ricerca di un'identità e il recupero del
rimosso, con alcune note critiche rispetto alla versione veicolata
dalla Storia ufficiale. Un documentario che piacerebbe a Werner
Herzog (a quanto pare effettivamente grande estimatore di Tahimik).
John From,
di Joao Nicolau (Concorso)
La quindicenne Rita si
innamora del vicino di casa, un fotografo che ha visitato la
Melanesia e sta allestendo una mostra con i suoi scatti. Con
delicatezza assistiamo alle giornate di questa esuberante adolescente
e alla progressiva “melanesizzazione” del suo mondo, che
estrinseca i sentimenti permeando la realtà, attraverso una
dimensione soggettiva che si fa oggettiva e permette così alla tenerezza
di un sentimento di colorare il mondo come fosse una grande fiaba.
Un racconto poetico e irresistibile, a ritmo di Lambada (ascoltare
per credere), fra i migliori visti al festival.
The Ecstasy of
Wilko Johnson, di Julian Temple
Guest Director
dell'edizione 2015 del TFF, Julian Temple ha portato a Torino due
lavori finemente collegati e dedicati al gruppo pub rock dei Dr.
Feelgood: Oil City Confidential, del 2009, ne racconta i successi,
seguendo le formule da biopic musicale già note agli estimatori del
regista. Dove la forza espressiva trova il suo picco, però, è
nell'ultimo The Ecstasy of Wilko Johnson, che racconta l'incredibile
caduta e rinascita del chitarrista della band, cui era stato
diagnosticato un tumore incurabile e che decide perciò di vivere i
suoi ultimi giorni con l'intensità dei migliori, fino a un miracolo
finale. Un'opera intensa e commovente, che è un continuo dialogo con
la morte, trasfigurato nel migliore e potente inno alla vita che si
possa immaginare, a suon di grande musica. All'interno del
documentario sono anche citati alcuni classici (Il settimo
sigillo, La bella e la bestia di Cocteau, Scala al
Paradiso e Sayat Nova di Padadjanov), pure riproposti al
festival, nell'ambito del percorso tematico curato dall'autore.
Terrore nello
spazio, di Mario Bava (Festa Mobile)
Altro restauro di lusso,
per il classico fanta-horror di Bava: la particolarità, oltre alla
possibilità di una nuova visione in una copia 4K che esalta al
meglio i cromatismi prediletti dall'autore, è stata la presentazione d'eccezione: da un lato due figuranti con le tute originali indossate nel film, dall'altro il produttore Fulvio Lucisano e il mitico Nicolas Winding Refn, grande estimatore del film e dei
suoi particolari contrasti.
Heterophobia,
di Goyo Anchou (Onde)
Mariano è un giovane gay
di Buenos Aires, che racconta la sua ricerca dell'amore in un mondo
fondato sulle logiche patriarcali, che condannano l'omosessualità come una colpa da nascondere. Al di là dell'ovvia
militanza del presupposto, colpisce il lavoro di elaborazione visiva,
che crea un'opera in grado di mescolare pratiche alte e basse, dove
le metafore vengono esplicitate in suggestioni horror e il tono si fa
lisergico. Un'opera da vivere con i sensi, immergendosi nel flusso
delle immagini, prima ancora che nelle logiche della mera narrazione.
Faire la parole,
di Eugène Green (Onde)
Ormai un affezionato del
Festival, Green stavolta realizza un documentario sulla lingua basca,
sul suo rapporto conflittuale con le istituzioni spagnole che hanno
sempre cercato di osteggiarne l'uso, osservando alcuni personaggi e
il loro lavoro di educazione all'identità nei confronti delle
giovani generazioni. Da un regista apolide (nato in America ha poi
rinnegato completamente i suoi legami con la madrepatria) la ricerca
diventa un viaggio in una cultura che è anche un'esperienza
introspettiva sul filo della parola e del canto, in grado di
risultare molto affascinante.
Blade Runner –
Final Cut, di Ridley Scott (Cose che verranno)
Altro titolo che non ha
bisogno di presentazioni e che non poteva essere mancato, nella forza
della visione su grande schermo: la distinzione tra Final e Original
Cut è ininfluente, erano infatti presentate entrambe le versioni e
ho scelto questa perché non l'avevo mai vista. Resta sorprendente la
natura ormai “istituzionale” di un'estetica che ha di fatto
modellato tutta la percezione del futuro dal 1982 in poi. E,
soprattutto, un'ancor poco considerata cifra “manniana”, che nel
rapporto con lo spazio metropolitano fatto di ombre noir, nel
rincorrersi di visioni e fantasmi, anticipa il lavoro poi portato
avanti dal grande regista di Heat. Chissà se effettivamente
c'è stata un'influenza diretta, o se è tutto frutto di una temperie
che aleggiava nel tempo e che ha finito, per caduta, per avvicinare i
due artisti. Il film, in ogni caso, resta un capolavoro.
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