The House of the Devil
1980. La studentessa
Samantha Hughes deve traslocare dal dormitorio universitario a un nuovo appartamento, ma le manca il denaro per pagare il primo mese. Così
risponde a un annuncio da parte degli Ulman, un'anziana coppia che ha
bisogno di una babysitter. In realtà, appena giunta alla casa,
Samantha si rende conto che dovrà badare alla madre del signor Ulman, che
riposa al piano di sopra: le condizioni economiche però sono troppo
vantaggiose per rifiutare e in fondo l'anziana donna è comunque
autosufficiente. La sua presenza in casa serve solo per fare fronte a
eventuali (ancorché improbabili) imprevisti. Samantha trascorre così
la sua serata nell'enorme casa degli Ulman, ne esplora le stanze,
lentamente inizia a innervosirsi per la strana atmosfera del luogo e
i rumori che sente nel buio. Che i segreti della magione vadano ben
oltre quello che le è stato detto?
È il più celebre film
di Ti West, regista che con questo lavoro è assurto alla ribalta dei
nomi più importanti del cinema horror contemporaneo. Strana ironia
per un'opera che però si rifà in tutto e per tutto all'iconografia
e allo stile del cinema dei Settanta, attraverso una maniacale opera
di ricostruzione dell'impianto visivo dominante in opere come Quando chiama uno sconosciuto o Changeling, solo per citarne un
paio. Tutto è costruito in funzione di una perfetta riproducibilità
di quegli stilemi, dal colore della fotografia, ai movimenti di
macchina, al look dei personaggi, in modo talmente preciso da
restituire davvero l'impressione di una pellicola d'epoca. Non che la
cosa in sé possa stupire chi magari aveva visto il primo film
dell'autore, il gradevole The Roost, che riprendeva le
atmosfere dei B-movies anni Cinquanta, con tanto di narratore alla
Zio Tibia (l'ottimo Tom Noonan, che ritroviamo anche qui nelle vesti
del signor Ulman, l'uomo che assolda la giovane Samantha).
Se però ci fermassimo a
questo, rientreremmo nell'ovvio ambito del mero calligrafismo: un
esercizio di stile ben fatto e in grado di esaurire la propria spinta
nella sola riproposizione del già fatto – ipotesi che si affaccia
alla mente soprattutto nella prima parte, con qualche lungaggine di
troppo prima di arrivare al cuore della vicenda. Ma quando poi i
presupposti lasciano spazio alla vicenda più concreta, emerge il
senso dell'operazione di West: sfruttare il particolare equilibro di
un'epoca capace di stare allo stesso tempo nel reale e nell'assurdo.
The House of the Devil racconta infatti quella particolare
temperie di un periodo storico e di un cinema dove l'elemento
soprannaturale si innestava direttamente nel tessuto della società
più vera. La massiccia casa di legno degli Ulman diventa il simbolo
di questa particolare dinamica duale e, sotto l'occhio vigile della
macchina da presa, si trasforma in un set tentacolare e insidioso, tanto un
“covo” per pratiche sataniche, quanto una propaggine di un male
perpetrato nella più assoluta normalità da una coppia di anziani
folli, senza nemmeno trascurare l'ipotesi che tutto possa essere frutto semplicemente di stress e allucinazioni (almeno fino a un certo punto).
Se si ripensa a titoli
come L'esorcista o Rosemary's Baby, si può comprendere
la particolare oscillazione che interessa a West, quella pulsione
demoniaca che però ha il suo setting in un contesto reale,
fatto di necessità economiche (il reperire i soldi per pagare l'affitto del nuovo appartamento) e battaglie con i piccoli problemi quotidiani:
Samantha è una studentessa, e sembra patire non poco la vita nel
dormitorio, tanto da sognare l'approdo alla nuova abitazione come un
affrancamento, una liberazione che rende quindi la sua esplorazione
di casa Ulman un rito di passaggio. In fondo, sin dalle prime battute
che scambia con la rappresentante immobiliare che le dovrà affidare l'appartamento, Samantha è collocata in una sfera di subalternità al
mondo adulto (la donna infatti vede in lei sua figlia). Lei è per
antonomasia ragazza, studentessa, figlia e badante al servizio di un
mondo dove solo la capacità di approfittarsi del prossimo domina –
dinamica che vale a doppio senso: Samantha accetta di adempiere al
suo compito di badante dopo essere riuscita a estorcere una notevole
somma di denaro al signor Ulman, approfittando dunque della sua
necessità di avere qualcuno che badi alla madre anziana; ma, all'opposto, il
prosieguo della serata si rivelerà una trappola ai suoi danni, con
cui gli Ulman vorranno avere ragione di lei.
Questo particolare
equilibrio di realismi e scivolate progressive nell'ignoto e nel
maligno, è reso con un lavoro straordinario sui tempi e sulla
concretezza materiale degli spazi, via via resi sempre più
impalpabili e ritagliati in zone d'ombra di matrice espressionista –
straordinaria, a tal proposito, la fotografia di Eliot Rockett. Anche
in questo caso, West rinnova il gioco dei contrasti: da un lato,
infatti, la fisicità degli ambienti e delle figure si stempera in un
balletto di ombre che tiene alta la tensione; dall'altro, il corpo
trova una sua centralità in un finale sanguinoso che apre il film a
una cifra più delirante ed eccessiva, con azioni frenetiche, carni
squarciate e piacere per un'estetica fatta di maschere spaventose e ambienti da incubo - fatti i debiti distinguo può venire in mente anche il Polanski di Repulsion.
Diventa così notevolissimo anche il continuo lavoro di ridefinizione
compiuto sulla protagonista Jocelyn Donahue, inizialmente tenera e
capace di essere sempre centrale nell'inquadratura, salvo poi
diventare quasi sfuggente man mano che la sua discesa agli inferi si
palesa, fino a riacquistare in modo violento la sua concretezza nel
finale, con il corpo ricoperto dal sangue. West insomma modula
abilmente la visualità vintage a una dinamica più
contemporanea, basata cioè sulla commistione di stili e toni. In
questo modo riesce a evitare la trappola del passatismo per regalarci
al contrario un racconto d'epoca per ambientazioni e stile, ma
moderno e vitale per sviluppo.
I temi del satanismo e
della realtà che si trasfigura in una cifra sempre più allucinata
dove emerge la
sopraffazione, saranno poi
alla base anche del più recente (e meno riuscito) The Sacrament,
film dallo stile “Point-Of-View” che continua a testimoniare la
continuità di uno sguardo capace di giocare con i linguaggi, ma
sempre coerente nei temi.
Sfortunatamente, allo
stato attuale, The House of the Devil è ancora inedito in
Italia.
The House of the Devil
Regia e sceneggiatura:
Ti West
Origine: Usa, 2009
Durata: 95'
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