"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 5 dicembre 2011

Torino 2011: End of Days

Torino 2011: End of Days

Scorrono le cifre alla fine dell'evento e come sempre sono positive, fra incrementi di pubblico e accreditati, ma altrettanto puntualmente questi dati - figli di chi crede che tutto debba avere un peso, una misura, e l'arte si debba sempre e comunque confondere con il consenso e la propaganda - qui risultano poco interessanti. Ciò che conta è il progetto e quello del Torino Film Festival è, oltre che solido, ormai consolidato grazie a un formato capace di essere dinamico ma al contempo strutturato secondo un'organizzazione rigorosa. E' passato ormai un lustro dai controversi fatti che hanno cambiato la squadra di lavoro (con l'avvicendamento di due direttori, Nanni Moretti prima e Gianni Amelio ora) e oggi si può affermare che, pur con le riserve per il modo con cui fu gestita la cosa e le ingerenze dall'alto, il cambiamento ha fatto bene a una manifestazione che ha saputo mantenere la barra, ritrovando la sua tradizione e abbandonando le umoralità modaiole del momento.

Oggi possiamo scriverlo con sincerità: non servono le figure pittoresche alla Ivan Cardoso, né le retrospettive estemporanee con i micro-omaggi alla Hammer o al gotico europeo, realizzate con l'ansia del “buttare dentro” quanta più roba possibile e senza una logica. Servono invece spazi come “Onde” o “Rapporto confidenziale” (in assoluto i più stimolanti) grazie ai quali scoprire e studiare autori come Eugène Green e Sion Sono, perché i loro Le pont des arts e Be Sure to Share sono state fra le folgorazioni del festival. Allo stesso modo è sempre utilissimo il lavoro delle retrospettive: non credo esistano altri festival così grandi e capaci di unire alla dimensione di massa un lavoro così raffinato e completo sulla memoria, fatto non solo della riproposizione dei film, ma di volumi integrativi, convegni, incontri con chi quel cinema lo ha fatto, lo ha vissuto e lo può condividere con il pubblico.

Il Torino Film Festival, insomma, è ancora giovane dentro, ma nel complesso è diventato grande, più maturo, perché fa ricerca e promuove cultura, ed è anche capace di essere “poroso” quel tanto che basta per interessare, stuzzicare e attirare ogni tipo di utenza. Ormai sotto la Mole c'è tutto: il glamour delle serate inaugurali e delle feste finali, le anteprime dei Kaurismaki, Allen, dei film con i divi Brad Pitt e George Clooney e la scoperta dei talenti di Taiwan (l'Hung-i Chen di Honey Pupu) o degli Usa (il Clay Jeter di Jess + Moss), con un concorso che sarà pure opinabile in alcune scelte, ma ha il coraggio di spaziare dal minimalismo del vincitore islandese Either Way, di Hafsteinn Gunnar Sigurdsson (purtroppo non visto e da recuperare) ai toni pop dell'inglese Attack the Block di Joe Cornish.

Il tutto in una struttura con poche pecche: proiezioni sempre puntualissime, variazioni di programma ridotte al minimo, incastri abbastanza agevoli grazie a una buona distribuzione fra le sale (qualcosa va sempre perso, è inevitabile, ma i percorsi possono essere ritagliati con una certa tranquillità), servizio di sbigliettatura funzionale: certo, servirebbero ancora più sale (o sale più grandi), il ripristino del servizio di navette e bisognerebbe tenere conto che non si può proporre un film di Werner Herzog nel minuscolo Greenwich 3 perché è chiaro che a quel punto resterà fuori parecchia gente: ma si tratta più che altro di limature in un sistema che funziona - magari qualcuno ricorderà i giganteschi tabelloni con le variazioni di programma nei decenni precedenti o i ritardi che si accumulavano e le file che non si smaltivano.

Cosa augurare dunque a questo festival? Di proseguire su questa strada senza tentare sciocchi stravolgimenti della formula, perfezionando l'ottimo lavoro di ricerca svolto sinora dallo staff. Se sarà così, il futuro non dovrà mai temere il confronto con il passato (viene ancora in mente quanto racconta il bellissimo Midnight in Paris di Woody Allen) e l'essenza del TFF resterà sempre attuale, seppure profondamente radicata nella tradizione e nell'anticipazione. Un festival moderno, insomma: il resto - le polemiche che impazzano sui quotidiani che non hanno nulla da dire e le attese dei politici che dovrebbero soltanto tacere – è un orpello che ronza come la più fastidiosa delle mosche.

Infine il consueto gioco della memoria relativo alle “immagini” che questo festival ci ha consegnato: su tutte il contrasto fra la forza selvaggia dei film e i gesti eleganti ed essenziali di Sion Sono, che a ogni presentazione salutava il pubblico togliendosi elegantemente il cappello; poi tre volti maschili: quello ironico nella sua malinconica sofferenza di Joseph Gordon Levitt in 50/50 di Jonathan Levine; quello sorpreso e appassionato di Owen Wilson in Midnight in Paris; quello di André Wilms in Miracolo a Le Havre di Kaurismaki, che annuncia imperturbabile al direttore del carcere di essere il fratello albino di un detenuto di colore. E poi tre volti femminili: quello dolente di Natacha Régnier in Le pont des arts, quello tormentato di Chiara Mastroianni in Les bien-aimées di Christophe Honoré e quello sul punto di scoppiare in lacrime di Susan George in Cane di paglia di Sam Peckinpah. Volti che sono storie e emozioni, quelle che è bello ritrovare ogni anno in questo festival.

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