"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

mercoledì 1 luglio 2009

Imprint: Sulle tracce del terrore

Imprint: Sulle tracce del terrore

Christopher, giornalista americano, torna in Giappone per ricongiungersi all’amata Komomo, una prostituta che ha promesso di portare in America. Dopo aver girato il Paese in cerca della donna, che sembra essere svanita nel nulla dopo essere stata venduta, l’uomo arriva in una misteriosa isola. Qui, una ragazza sfregiata assegnatagli per la notte gli racconta il tragico destino di Komomo, sottoposta a incredibili torture per una colpa che non aveva commesso. Ma la verità nasconde molti segreti, che verranno rivelati poco alla volta.

A rimarcarne soltanto l’efferatezza sbandierata in tutte le recensioni si rischia di avallare l’equivoco che sinora lo ha costretto nella nicchia dei cultori come una mera bizzarria d’autore per feticisti dell’estremo. Non che non siano necessari nervi saldi durante la visione, tutt’altro, ma ben più importante è rimarcare che Imprint, tredicesimo e ultimo episodio della prima stagione di Masters of Horror, senza mezzi termini, è un’opera magnifica, un fulgido esempio cinema in grado di sabotare la visione elevandosi al rango di titolo indispensabile.

Takashi Miike riesce nell’intento di compiere un vero miracolo filmico e, senza privarsi di nessuna strategia narrativa tipica dell’horror, confeziona una storia che evoca sensazioni tra loro difformi, usa il genere come un amplificatore di emozioni e costringe lo spettatore a interrogarsi sui fatti cui assiste. Ciò che quindi si offre agli occhi di chi guarda è un caleidoscopio di influenze che rendono Imprint tanto un “puro” horror, quanto, molto più direttamente, un’opera che rifiuta ogni facile catalogazione.

Tutto questo avviene con grande ricercatezza visiva, ma con un’altrettanto evidente naturalezza, evitando sapientemente le trappole del cinema che declama la propria natura teorica: non esistono infatti elementi diretti o artifici linguistici che palesino l’idea della messinscena (l’unica eccezione è data dallo sguardo in macchina della protagonista dopo i titoli di coda), eppure risulta evidente come Miike voglia evocare la sensazione di un proscenio, una tela su cui si agitano delle ombre, attraverso un confronto da kammespiel fra due attori (Christopher/Billy Drago e la donna/Yuki Kudoh) in uno spazio che si reinventa ad ogni inquadratura per lasciare che le storie di volta in volta narrate prendano vita. Quello cui assistiamo è dunque un rincorrersi di visioni che sembrano accennare alla natura affabulatoria e al potere della narrazione propri del cinema, e svelano se stesse attraverso una struttura a spirale dove ogni nuova versione della stessa storia non fa altro che scendere sempre più in profondità nell’abisso di orrori indicibili, dove i tabù vengono infranti con una potenza devastante e, più si affonda, più si respira una sensazione quasi lieve di un dolore che diventa assoluta visione della bellezza.

Ecco, forse l’artificio più grande realizzato da Miike è quello di lasciar coincidere il picco dell’orrore con quello della bellezza: Imprint è un film estremo nel senso più autentico della parola, poiché va oltre la percezione del dolore e, pur mantenendone la sensazione estremamente fisica, materica, della carne violata, fa di ogni gesto sadico una pennellata in un quadro visivo di rara bellezza, che sembra materializzare visioni da tela fiamminga o da crude visionarietà alla Bosch. Corpi vivi e morti e immagini di fantasmi vengono perciò a coincidere, la Komomo seviziata appare come una grottesca trasfigurazione degli spiriti inquieti ritratti in anni di pellicole giapponesi e se l’approccio non è visionario come nelle opere di un Nobuo Nakagawa è perché stavolta i fantasmi appaiono drammaticamente reali.

Gli estremi quindi si uniscono narrativamente e tematicamente creando un turbamento profondo, tipico di chi vede i metodi tradizionali d’approccio al reale sconvolti e danno la misura di una storia semplice eppure estremamente complessa, dove lo spettatore, insieme al protagonista maschile (un giornalista, dunque un narratore della verità) è atterrito, ma diversamente da lui è anche affascinato dagli ossimori creati da Miike. La crudeltà dell’aborto si sposa quindi con il gesto delicato di chi colloca una girandola nel terreno a suggello della vita che non è germogliata, la gentilezza di chi condivide il cibo è ripagata con l’accusa di un reato non commesso, mentre visi e corpi si deformano nella coesistenza di bellezza e mostruosità.

L’impressione che si ricava è quella di un racconto orientato su un disvelamento progressivo della realtà che si rivela essere una presa di coscienza della caducità dell’idea stessa di verità, non dissimile da quella che animava il celeberrimo Rashomon di Akira Kurosawa (segnalo a questo proposito il bel saggio di William Leung fra i link), dove i termini con cui normalmente ci si rapporta alla vita sono rovesciati implacabilmente e a dominare è la morte e una sorta di dannazione perenne per tutti i personaggi coinvolti. Se il mondo di Imprint è tutto lì è un mondo corrotto, che nella sua trasfigurazione in immagine cinematografica riflette una sorta di ideale bellezza del Male (la stessa che permea il disegno dell’inferno che la protagonista vede su una tela arrotolata e la stessa che rende l’arte così succube al fascino della perversione) e condanna senza appello chi resta coinvolto nelle sue spire. Capolavoro assoluto.

Masters of Horror: Sulle tracce del terrore
(Masters of Horror: Imprint)
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Daisuke Tengan (tratto dal racconto Bokke, kyote di Shimako Iwai)
Origine: Usa, 2005
Durata: 61’

Trailer di Imprint
Sito ufficiale giapponese di Imprint
Saggio comparativo tra Rashomon e Imprint (in inglese)

Collegati:
Masters of Horror
Pro-Life: Il seme del Male
Deer Woman: Leggenda assassina

4 commenti:

Sciamano ha detto...

ammazza...bellissimo sicuramente, però dopo questa rece dovrei rivederlo, io di "Imprint" ho (molto)apprezzato più che altro l'aspetto visivo.

Andrea Marinelli ha detto...

Di Miike finora ho visto solo Audition che considero un piccolo capolavoro. Sicuramente i suoi film non son "per tutti" in quanto decisamente "forti" ma si tratta senza dubbio di un regista dalle grandi capacità

Unknown ha detto...

Sicuramente anche "Audition" è un film bellissimo e capace di trovare una efficace sintesi tra orrore e bellezza. Chissà che proprio questo non sia il punto nodale che unisce i tanti titoli della filmografia di Miike, tutta da scoprire!

Anonimo ha detto...

Come non essere d'accordo caro davide... al di là dell'aspetto puramente visivo (e da questo punto di vista Imprint è veramente una mazzata con pochi eguali), ciò che appare ormai disarmante è proprio la semplicità con la quale Miike mette in scena la sua (anti)etica del mondo e dell'essere umano.

Una naturalezza d'intenti che può riuscire solo ai grandi. E Miike lo è, eccome.