Fog
La cittadina costiera
di Antonio Bay sta per festeggiare il centesimo anniversario della
sua fondazione: quello che le cronache non raccontano, e che è
tramandato solo attraverso i racconti attorno al fuoco, è che l'oro
usato per dare vita alla città fu sottratto con l'inganno a una nave
di lebbrosi, la Elizabeth Dane, fatta schiantare scientemente contro
gli scogli. Ora, i fantasmi di quei marinai, guidati da Blake, stanno
tornando per consumare la loro vendetta, e pretendono le vite di sei
cittadini, tanti quanti furono i cospiratori che li portarono alla
morte. Annunciati da una spettrale nebbia, si muovono lungo le strade
di Antonio Bay mentre si consumano i festeggiamenti. Pochi capiscono
realmente cosa sta succedendo: c'è Nick Castle, operaio del luogo, rimasto coinvolto nella vicenda insieme all'autostoppista Elizabeth Solley; c'è Padre Malone, il
prete che ha trovato il diario di Blake riportando alla luce tutta la
vicenda; e c'è infine Stevie Wayne, ragazza madre e proprietaria del
faro di Antonio Bay da cui gestisce la stazione radio KAB: i suoi
microfoni rappresentano l'unica guida per i cittadini alle prese con
la terribile nebbia...
C'è qualcosa di magico e
misterioso che a tanti anni di distanza continua ad avvolgere un film
come Fog: è la sua capacità di essere al contempo così
straordinariamente materico eppure altrettanto fortemente volatile,
libero. D'altra parte, che si sia di fronte a un film perfettamente
incanalato su direttrici sempre doppie è cosa facile a dimostrarsi:
stringato nei ritmi eppure dilatato nei tempi; film di corpi
attoriali eppure veicolato dalla “voce al telefono” di Stevie
Wayne; corale nella struttura ma allo stesso tempo isolato in tante
microstorie senza passato, da parte di personaggi pennellati con
pochi tratti; e, infine, condensato nel prologo che riconduce la
maledizione a ludico racconto intorno al fuoco, salvo poi dipanarsi
attraverso drammi profondamente umani (l'alcolismo di Padre Malone,
la solitudine da madre assente di Stevie) e in una visione tutta
politica dell'America quale luogo di sopraffazione ai danni
dei più deboli e in nome dell'accumulo del capitale.
Tanta carne al fuoco,
insomma, ma che in questo caso riesce a trarre la sua qualità
proprio dalla quantità degli elementi e dal loro accostamento:
perché crea traiettorie tutte da scoprire e snocciolare in una
struttura tutto sommato compatta, che raggiunge in tal modo l'estremo
paradosso. Quello di un film aperto alla sperimentazione, ma poi
(seguendo diligentemente le regole dell'horror) diretto con mano
sicura e indirizzato verso un finale univoco. Di qui l'idea di
lavorare sulle variazioni cromatiche (il blu della notte e gli
interni spesso virati in tonalità rossastre), sulle impennate
improvvise del suono, che si stagliano come improvvise “sporcature”
in una partitura musicale per il resto insinuante e soffusa, mentre
la nebbia invade progressivamente l'inquadratura, muovendosi come un
organismo vivo. E poi c'è il citazionismo cinefilo, evidente sia
nelle filiazioni dirette (la “solita” Cosa da un altro mondo,
i templari ciechi di Amando De Ossorio de La nave maledetta, la nebbia che annuncia il Male, ripresa da I mostri delle rocce atomiche),
quanto nei nomi che strizzano l'occhio a colleghi e amici dello
stesso Carpenter (i personaggi si chiamano Nick Castle e Dan O'
Bannon), fino al cameo dello stesso regista che porta la radio,
“aprendo” di fatto il fronte narrativo.
Una volta qualcuno ebbe
l'ardire di chiedere al Maestro se quella sua apparizione, così
strategica nell'economia narrativa, avesse proprio l'intento di dare
un segnale autoriale fonte, di imprimere una direzione ben precisa
alla storia, ma lui accolse questa possibile lettura con un sorriso:
il cameo era un gioco, all'interno di un film nato proprio con
intenti ludici sul genere. Come Mario Bava quando rispondeva ai
francesi sulla targa che oscilla all'inizio di Sei donne per
l'assassino. E guarda caso, sempre nei minuti iniziali, mentre
scorrono ipnotici gli interminabili titoli di testa, troviamo proprio
una targa che oscilla, anche qui: il mistero di Fog alla fine
è questo, è un enorme gioco con cui un autore si diverte, anche se
poi è talmente bravo che le sue immagini si stagliano potenti sullo
schermo e raccontano una storia molto precisa nelle parti, capace
perciò di essere allo stesso tempo evanescente eppure così concreta
rispetto al genere messo in campo e alla realtà che dalla nebbia
emerge nel suo cuore più nero.
(recensione pubblicata
originariamente su Sentieri Selvaggi)
Fog
(The Fog)
Regia: John Carpenter
Sceneggiatura: John
Carpenter e Debra Hill
Origine: Usa, 1980
Durata: 89'
1 commento:
Ti dirò, per me non è tra i migliori del maestro, certo è un bel film, ma preferisco altri titoli della filmografia di John, ma ovviamente è un film che ogni fan dell'horror non si deve perdere ;-)
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