Encounters at the end of
the World
Werner Herzog si reca
in Antartide per documentare la vita nella stazione scientifica
McMurdo, situata sull'isola di Ross. Si imbatte così in uomini
animati da grandi ideali, ma anche da persone che hanno scelto di
fuggire da tutto e che magari si sono completamente reinventate
(scienziati che guidano mezzi pesanti per il trasporto, ad esempio) o
hanno finalmente trovato se stessi. Il viaggio comprende
l'esplorazione della base e dello scenario ghiacciato, con punte
sotto la calotta, attraverso le riprese di alcuni sub o entrando
nelle caverne scavate dalle eruzioni sottomarine. L'isola comprende
anche il vulcano Erebus, cui Herzog fa tappa, documentando gli studi
dei vulcanologi, e un'immancabile comunità di pinguini.
Quasi lo speculare de
L'ignoto spazio profondo, il documentario Encounters at the End of
the World nasce effettivamente come tentativo di andare oltre
quel progetto: Herzog, infatti, era rimasto affascinato dalle
sequenze subacquee girate dall'amico Henry Kaiser (qui produttore e
autore delle musiche), ma la sua esplorazione del continente
antartico appare anche stavolta come una ricerca dei limiti, di vite
che hanno compiuto scelte estreme, di sguardi nuovi su realtà
complesse. Su tutto, però, domina nuovamente quel doppio sguardo che
da un lato sogna ipotesi futuribili, in grado di farci affacciare su
possibili scenari a venire dell'umanità; e dall'altro riflette sul
senso del nostro stare al mondo di fronte a una natura ostile, spesso
vittima delle nostre azioni, ma che pure si staglia con tutta la sua
forza, in modo tale da risultare incredibilmente affascinante.
La specularità con
L'ignoto spazio profondo si ritrova dunque nella scelta di uno
stile documentaristico tradizionale (con tanto di voce narrante dello
stesso Herzog che commenta i fatti, a volte anche con tono
demistificatorio) che però non riesce a far venir meno l'idea di
trovarsi di fronte a una sorta di bizzarra opera fantascientifica,
per le implicazioni tirate in ballo dagli scienziati e per lo
scenario assolutamente alieno di un'Antartide che si rivela però
pregna di una vita altrimenti indefinibile: mostruose creature che
vivono sotto la calotta polare, enormi distese di ghiaccio che –
gli scienziati lo spiegano bene – sono da considerarsi quasi esseri
viventi per il dinamismo cui sono sottoposte dalle forze che regolano
la fisica terrestre. E poi il magnetismo che rende impossibile
l'orientamento e che trasforma il gusto per la scoperta in
un'esplorazione avveniristica, pari a quella dei viaggiatori dello
spazio. Non a caso, la base di McMurdo viene vista dallo stesso
regista come un territorio proteiforme: in parte avamposto
tecnologico, in parte sorta di enorme cantiere che evoca scenari più
da miniera che da stazione scientifica, in parte enorme città/parco
giochi da cui fuggire per il più “serio” orizzonte ghiacciato.
Penso che una buona
parte della popolazione, qui, sia composta da persone che sono
contemporaneamente viaggiatori a tempo pieno e lavoratori part-time.
Quindi, sì, loro sono dei sognatori professionisti, sognano per
tutto il tempo. E penso che, attraverso loro, i grandi sogni cosmici
entrano in circolo, perché l'universo sogna per i nostri sogni.
Penso ci siano molti modi diversi per la realtà di andare avanti e
il sogno è assolutamente uno di questi.
(Stefan Pashov –
filosofo e operaio ai carrelli elevatori)
Herzog esalta il valore
del sogno, tornando anche alle origini dell'esplorazione antartica di
Henry Shackleton, Robert Scott e Roald Amundsen, e spiega come è
cambiato il rapporto dell'umanità con il continente: da terra ostile
e imprendibile a sorta di nuovo orizzonte delle opportunità. In tal
modo il film sembra muovere ancora una volta una critica a un mondo
“di fuori” che i personaggi intervistati sembrano rifuggire,
chiamando anche esplicitamente in causa l'apocalisse (lo scienziato
che visiona film di fantascienza anni Cinquanta) o i metodi di vita
alternativa (l'appassionato di filosofia new age che coltiva
pomodori). Lo sguardo è curioso, goloso, attento a riprodurre la
varietà degli spunti che la materia offre, ma allo stesso tempo
anche esistenzialista:
diventa emblematico, in tal senso, il ruolo dei pinguini. Il regista
spiega chiaramente all'inizio come non si sia recato in Antartide per
filmare i pinguini, animali che, peraltro – e sarebbe interessante
capire il perché – in tempi recenti hanno goduto di un'esposizione
filmica notevole, tanto da diventare anche personaggi cult in opere
animate come Madagascar
o Surf's Up.
Herzog rifugge da queste caratterizzazioni, ma evita anche il facile anticonformismo di riportare i pinguini stessi alla loro condizione animale attraverso un approccio documentaristico classico. Al contrario, evoca ironicamente le dinamiche della loro sessualità, ma soprattutto ci colpisce con l'immagine altamente evocativa di uno di loro che si stacca dal gruppo e, come in preda a una folle frenesia, si dirige verso gli spazi aperti, condannandosi in tal modo a una fuga che è anche una inconsapevole ricerca di morte. Un pezzo di cinema incredibile e altissimo, una scheggia di irrazionalità che si incista nel reale con tale naturalezza da erodere ancora una volta il confine tra la documentazione asettica del mondo e la tensione fantastica che il regista sembra perseguire in un misto di abilità nel “catturare” l'ignoto e sensibilità nel cogliere “l'umanità” (da intendersi come mera umoralità) iscritta nei recessi della natura.
Herzog rifugge da queste caratterizzazioni, ma evita anche il facile anticonformismo di riportare i pinguini stessi alla loro condizione animale attraverso un approccio documentaristico classico. Al contrario, evoca ironicamente le dinamiche della loro sessualità, ma soprattutto ci colpisce con l'immagine altamente evocativa di uno di loro che si stacca dal gruppo e, come in preda a una folle frenesia, si dirige verso gli spazi aperti, condannandosi in tal modo a una fuga che è anche una inconsapevole ricerca di morte. Un pezzo di cinema incredibile e altissimo, una scheggia di irrazionalità che si incista nel reale con tale naturalezza da erodere ancora una volta il confine tra la documentazione asettica del mondo e la tensione fantastica che il regista sembra perseguire in un misto di abilità nel “catturare” l'ignoto e sensibilità nel cogliere “l'umanità” (da intendersi come mera umoralità) iscritta nei recessi della natura.
E'
l'emblema perfetto dei limiti che la ricerca chiama in causa, di
grandi possibilità che diventano anche una strada verso la
perdizione. La vita e la morte, insomma, in uno scenario ostile ma
anche di grande fascino visivo, esplorato con una buona dose di
lirismo, non dissimile da quella già vista nelle ultime prove
documentaristiche dell'autore: a metterle insieme verrebbe fuori una
mappa abbastanza omogenea di un percorso che il cineasta tedesco –
pur senza rinunciare al faceto – sta compiendo. Una sorta di
ricerca delle origini dell'uomo e, va ribadito, del suo stare al
mondo, ma anche della fine o del possibile reinizio. Non a caso una
delle ultime immagini riguarda il lancio di una mongolfiera, che
sembra quasi rappresentare un collegamento e un'ideale chiusura del
cerchio con il poco distante (e precedente) Il diamante
bianco.
Il
documentario, realizzato nel 2007, è tuttora inedito per la
distribuzione italiana.
Encounters
at the End of the World
Regia
e sceneggiatura: Werner Herzog
Origine:
Usa, 2007
Durata:
97
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