"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 12 ottobre 2012

Magic Mike

Magic Mike

Tampa, Florida. Mike Lane ha l'ambizione di aprire un'attività per conto suo, ma intanto si divide fra vari lavori. In un cantiere conosce il giovane Adam (detto “Kid”) e lo introduce nel mondo dello spogliarellismo maschile: Mike è infatti la stella di prima grandezza dell'Xquisite, gestito dall'altrettanto ambizioso Dallas, che sogna di ingrandirsi e trasferire l'attività a Miami. Sulle prime Adam è impacciato, si ritrova sul palco più per caso che per scelta, ma impara in fretta e inizia a commettere sciocchezze come perdere la “roba” che doveva vendere per un pusher. Nel frattempo, Mike diventa amico di Brooke, la sorella di Adam, che guarda con scetticismo al mondo dei locali notturni.


C'è un momento, nel film, in cui Adam viene invitato da un collega a “provare” le grazie di sua moglie. Il ragazzo esegue, e allo stesso tempo i due uomini si scambiano attestazioni verbali di affetto. In quel breve scambio di battute, che poi il montaggio tronca quasi bruscamente, è come se Steven Soderbergh scoprisse le carte ed esplicitasse in maniera molto più diretta che nel resto del film lo scopo del progetto: raccontare lo slittamento di senso della nostra realtà e della nostra società.

In effetti, così come il ragazzo “ama” il collega per l'intercessione del corpo di sua moglie, così Magic Mike racconta la fragilità del mondo contemporaneo e i disastri portati dai nuovi modelli economici attraverso l'esibizione in odore (apparente) di exploitation dello spogliarellismo maschile. La differenza che passa fra Magic Mike e un qualsiasi film pensato soltanto per solleticare i bassi istinti del pubblico specializzato, infatti, sta proprio nell'elaborata consapevolezza con cui il regista oppone la perfezione esteriore del corpo maschile come strumento spettacolare ai drammi interiori di persone in cerca dell'occasione e del successo.

Pertanto, il protagonista Mike assume i contorni di una figura disallineata, anche tragica se vogliamo. Certo, nessuno ascoltando la sua fluente parlantina e osservando i suoi modi simpatici penserebbe mai a un protagonista in difficoltà. Il dramma, se vogliamo usare questa espressione, sta nella sua doppia natura e nel conflitto irrisolto fra persona e personaggio che solo l'amica Brooke riesce a vedere e che, ad altri livelli, è incarnato anche da Adam. Mike, infatti, è il re del night, ma non si sente parte stabile della compagnia, in quanto è sempre orientato verso il sogno di un'attività in proprio, negatagli dalle contingenti regole economiche e dalla crisi del sistema finanziario (la banca gli nega il prestito, pur davanti alla grossa somma di denaro che lui è pronto a depositare in contanti). Mike vive, insomma, in uno stato di precarietà interiore che viene suo malgrado oggettivizzato quando le regole per codificare la realtà diventano quelle contraddittorie dell'economia.

Come già in altre opere del regista, il tono è sempre a metà fra l'empatia verso personaggi ben delineati e una tendenza all'astrazione che si ritrova in una forza visiva capace di esaltare il valore della messinscena: abbiamo così numeri musicali quasi sempre frontali rispetto allo spettatore (come a riprodurre la teatralità della scena e dei balletti), un ritmo contemplativo rispetto ai momenti di vita quotidiana e una qualità molto alta dei dialoghi, dove si tirano in ballo una grande quantità di concetti. Soderbergh conosce la macchina cinema come pochi e ne sfrutta sapientemente a suo vantaggio i codici: sarà anche troppo teorico, come qualcuno insinua, ma è di una fattura talmente lucida e coerente nella sua indipendenza da non lasciare indifferenti.

Pertanto, il regista non è interessato soltanto alla dinamica di genere, ma a un ritratto più allargato che comprenda le fragilità e i punti critici della società contemporanea. In questo senso Magic Mike diventa un film politico, che racconta il fallimento di un modello sociale attraverso una classica parabola da “american dream” che sembra quasi una parafrasi di Flashdance, ma ne è invece una sua versione rovesciata. Prova ne sia il fatto che la potenziale storia d'amore, stavolta, non si risolve con l'affermazione professionale, come avveniva nel classico di Adrian Lyne, ma al contrario con la rinuncia del protagonista al trasferimento nella capitale della Florida. Lavoro e realizzazione umana, dunque, non vanno più di pari passo, ma devono essere sfalsati perché il protagonista risolva il suo conflitto.

Sembra quasi che il Sogno Americano sia diventato l'Incubo Americano, insomma, per come sacrifica l'umanità dei personaggi. In questo senso, come già accennato, è Adam a costituire l'altro importante fulcro della storia: il suo percorso, infatti, è esattamente quello codificato dalla tradizione delle storie di successo, fatto che lo rende quasi una figura “negativa”. Da perdigiorno che viene sorpreso sul posto di lavoro (precario) a sottrarre una lattina di bevanda in più, a idolo delle folle che si inebria del suo carisma e arriva anche a procurare guai ai colleghi, ma senza curarsene troppo. Soderbergh evita comunque il manicheismo e non fa mai esplodere del tutto la conflittualità fra i due protagonisti, ma l'asimmetria dei rispettivi percorsi è comunque capace di fornire linfa e complessità al discorso che più gli interessa.


Magic Mike
(id.)
Regia: Steven Soderbergh
Sceneggiatura: Reid Carolin
Origine: Usa, 2012
Durata: 110'


Collegati:

1 commento:

Death ha detto...

Effettivamente c'è qualcosa di più che i culi depilati dei protagonisti. Io l'ho trovato un po' incerto ma comunque interessante. McConaughey poi è davvero istrionico!