"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 20 giugno 2011

Not Quite Hollywood

Not Quite Hollywood

Il regno di Oz esiste per davvero, e non serve cavalcare uragani o superare l'arcobaleno per raggiungerlo. D'altra parte la saga letteraria di Frank L. Baum (così come l'immortale trasposizione cinematografica del 1940) stavolta resta in fuoricampo: l'Oz che ci riguarda, infatti, è un luogo (e un tempo) del nostro mondo, anche se non del nostro emisfero. Mi riferisco alla lontana Australia, che nella contrazione inglese di “aussie” finisce per favorire il neologismo, naturalmente cinefilo, di “Ozploitation”, ovvero l'insieme delle pellicole di genere prodotte nella terra dei canguri nei decenni passati, ma rimaste a lungo poco considerate o ancor più sconosciute e oggi tornate sotto i riflettori della ribalta internazionale.

A riaccendere le luci è stato il documentario Not Quite Hollywood, diretto da Mark Hartley, un giovane ed entusiasta appassionato fattosi le ossa con i videoclip e che dopo un lavoro di ricerca durato ben dieci anni ha dato fondo alla sua ossessione, realizzando 99 minuti al fulmicotone. Viene infatti da chiedersi se lo stesso termine “Ozploitation” nasca soltanto da un accattivante gioco di parole basato sull'assonanza e sulla voglia di essere memorizzato facilmente, oppure se viceversa si sia voluta chiamare in causa la meraviglia che questa industria dimenticata naturalmente suscita all'ignaro spettatore odierno.

Alzi infatti la mano chi riesce a riassumere la produzione australiana al di là dei pochi nomi ormai noti ai più, da Peter Weir a George Miller: per tutti la formula cinefila “aussie” dagli anni Sessanta agli Ottanta era riassumibile soprattutto in questi autori, in particolare Weir, autentico paradigma della nouvelle vague d'Oceania. E poco gioverebbe ricordare alcuni dei titoli giunti in Italia all'epoca, nell'ambito di quella felice stagione in cui il nostro mercato si dimostrava decisamente aperto alle novità d'oltreconfine: il meno che si possa sperare è di suscitare sbiaditi ricordi in chi si è trovato a noleggiare le videocassette di Razorback o Dead End Drive-in in qualche videonoleggio che sicuramente oggi non esisterà più.

L'Ozploitation rappresenta dunque il sommerso di un cinema che, noto attraverso i suoi autori mainstream, al di sotto della superficie pullulava di tutti i segni che determinano la fertilità di un'industria e che era ovviamente capace di respirare lo spirito di un tempo ormai staccato dai diktat della censura (implacabile nei decenni precedenti al periodo in analisi) e di coprire così l'ampia gamma di emozioni e linguaggi che andavano dai grandi successi commerciali ai più beceri esperimenti di serie Z.

Non stupisce pertanto che già dal titolo del suo lavoro, Hartley tiri in ballo l'americana “Mecca del Cinema”, in un gioco di paragoni e differenze che rappresenta in effetti una delle caratteristiche peculiari di questa industria cinematografica d'Oceania: uno degli aspetti più interessanti evidenziati da Not Quite Hollywood è infatti il rapporto identitario che intercorre fra l'Australia, il suo cinema di genere e il resto del mondo, per effetto del quale l'Ozploitation era percepita in patria come una bieca rimasticatura di tematiche dei film spettacolari americani, mentre all'estero risultava più evidente la matrice autoctona di un cinema che esprimeva in fondo la “doppia natura” degli australiani stessi, figli di un paese nato dalla colonizzazione britannica e che da sempre intrattiene un rapporto controverso con la realtà del cosiddetto “outback”, ovvero l'entroterra (con cui solo nel 2008 il governo centrale avrebbe iniziato a scendere a patti scusandosi per le discriminazioni perpetrate ai danni dei nativi).

Il tema del “doppio” serpeggia dunque attraverso i tre macrogeneri raccontai da Hartley: la ocker comedy, ovvero il filone comico-demenziale e scollacciato che, in alcuni casi, ironizza proprio sul rapporto fra gli australiani e il resto del mondo (in una dinamica che è stata capace di anticipare quella del più celebre Borat); l'horror, forse quello più celebre anche ai meno avvezzi, grazie ai successi internazionali di Patrick e del già citato Razorback; e infine l'action movie, dove giganteggia il celebre Mad Max, ma che vede altre pellicole annesse alla causa e capaci di codificare un'estetica del road movie d'azione che pone il veicolo come creatura fulcro di un universo fatto di grandi spazi aperti. Potente ma spesso mostruoso, attraversato da lame, tubi, lamiere, il camion o l'auto di turno dona sostanza a un filone cyberpunk alternativo, capace cioè di spostare il connubio carne/metallo degli umani al metallo/metallo delle auto, in un circuito auto-pilota-auto che diventa profondamente originale rispetto ai modelli codificati. Fantascienza, ma prima di tutto velocità ed energia sulla strada: un lavoro che non può non avere influenzato – fra gli altri - anche il Quentin Tarantino di A prova di morte (il regista americano, non a caso, è intervistato a lungo nel documentario).

Si scopre così come, alla predilezione per gli eccessi, tipica di questo cinema, spesso si accompagni una cura formale che nell'uso del grandangolo sembra riflettere già a livello visivo la distanza/vicinanza dei “due mondi” compresi nel continente oceanico, e che nell'energia vitalistica espressa attraverso l'azione o il nudo, tenta di dare forma a un'idea di cinema che sia contemporaneamente personale ma anche universale, attraverso cooperazioni con realtà altre e l'innesto di divi americani quali Dennis Hopper, Stacy Keach, Olivia Hussey, Jamie Lee Curtis, George Lazenby, fino al cinese Jimmy Wang Yu.

Hartley è consapevole dell'equivoco da sempre connesso all'exploitation, al suo suscitare interesse soprattutto secondo una deriva trash del “così brutto da risultare bello”, ma il suo interesse è un altro. E' quello di chi intende dare dignità a un cinema che – seppur non abbia effettivamente disegnato incursioni nel brutto puramente inteso – in molti esempi è stato valido codificatore di estetiche, linguaggi, tendenze e perciò può insegnare molto agli appassionati e annettere alle loro wishlist i nomi di molti autori interessanti. La formula narrativa prediletta è dunque quella del “rockumentary”, in cui alla spiegazione di cosa era l'Ozploitation e all'immancabile aneddotica, si accompagna il tentativo di restituire le sensazioni di un cinema variegato, sicuramente folle nei suoi eccessi, ma in ultima analisi energico e creativo, capace perciò di suscitare entusiasmi.

Il ritmo pertanto risulta veloce e straordinariamente capace di riverberare la forza dei modelli, tanto da lasciare lo spettatore in uno stato di continua euforia: sebbene Hartley sia abbastanza onesto nel suo approccio, tanto da cercare di dare spazio a tutte le voci, alle contraddizioni e ai limiti della formula cinematografica australiana, è abbastanza evidente come il suo modus operandi sia quello di un appassionato che intende trascinare lo spettatore nella sua folle corsa alla scoperta di Oz, e per questo il film finisce inevitabilmente per diventare esso stesso uno scampolo di quella subcultura da Drive-in che unisce l'exploitation di tutto il mondo.

La riscoperta di Oz può dunque iniziare da qui, in un viaggio che porterà lo spettatore a conoscere o riscoprire registi come Richard Franklin e Brian Trenchard Smith, e titoli quali Roadgames, Turkey Shoot, The Adventures of Barry McKenzie, Long Weekend, The Man from Hong Kong, Felicity, Mad og Morgan, Next ok Kin e altri, in larga parte inediti in Italia (così come lo stesso documentario).

Per chi volesse approfondire l'argomento si raccomanda, insieme alla visione del documentario, disponibile in ricche edizioni DVD import, anche il dossier curato dalla rivista Nocturno (numero 84, luglio/agosto 2009), e i cofanetti antologici Ozploitation distribuiti dall'australiana Umbrella.


Not Quite Hollywood: The Wild, Untold Story of Ozploitation
Regia e sceneggiatura: Mark Hartley
Origine: Australia/Usa, 2008
Durata: 99'

1 commento:

Tamcra ha detto...

Un post molto interessante, anche perché qui del cinema australiano si sa molto poco, a part quei due-tre nomi e alcuni "casi" internazionali (come Priscilla, Queen of The Desert .)Volevo segnalare un film del '66, They're a Weird Mob , sulle avventure di un giornalista italiano (Walter Chiari) a Sydney. Il film era diretto nientemeno che da Michael Powell, ebbe un enorme successo in patria, da noi si chiamò Sono strana gente e non lo vide nessuno. Eco un link a un articolo del Corriere: http://cinema-tv.corriere.it/film/sono-strana-gente/02_33_34.shtml
Questo è un link a una clip del film:http://www.youtube.com/watch?v=9IF92uEctBc&feature=grec_index