"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

sabato 5 dicembre 2009

Nemico pubblico

Nemico pubblico

Vita, fortune e caduta di John Dillinger, gangster ai tempi della Grande Depressione: diventato il più ricercato criminale d’America, Dillinger di fatto costringe J. Edgar Hoover del Bureau of Investigation a incaricare l’agente Melvin Purvis di mettere in piedi una squadra speciale, primo nucleo di quello che diventerà l’FBI. Nel frattempo il gangster continua la sua corsa, rapinando banche a tempo di record, conquistando il cuore della guardarobiera Billie Frechette e attirando le simpatie del popolo, affascinato dai suoi modi da gentiluomo.

Fa bene il titolo a rimarcare immediatamente la natura “pubblica” del personaggio Dillinger. Perché, sebbene i costumi e la matrice storica possano far pensare diversamente, questo è un film sulla contemporaneità, stilisticamente (per l’uso ancora una volta congruo dell’HD) e filosoficamente: d’altronde il cinema di Michael Mann è così, mette in scena elementi apparentemente netti, per poi lavorare sui piccoli scarti che aprono voragini (e vertigini) di senso. Il biopic diventa quindi altro da sé, esattamente come accaduto in passato, con Alì, e il personaggio di Dillinger diventa icona, ma anche uomo. Non che poi ci sia chissà quale differenza fra le due dimensioni, quella personale e quella pubblica, in un gangster che pensa per sé, cerca il successo, lo “prende” con la stessa ruvidezza con cui costringe l’amata Billie a lasciare il suo lavoro, ma allo stesso tempo è consapevole del favore che riscuote sempre più presso la gente, quella cui riconsegna i soldi durante le rapine, comportandosi scaltramente come tardo archetipo del bandito gentiluomo. Ecco, in questo senso, Dillinger è tanto uomo quanto attore di un copione preordinato e che, in uno straordinario cortocircuito fra verità e finzione vede la sua vicenda reale concludere il film con la morte fuori dal cinema, dopo la visione/rispecchiamento in una pellicola di gangster.

Michael Mann in questo è bravo a mantenere il racconto in equilibrio fra dimensioni diverse e spesso contrapposte, riuscendo a elaborare il concetto di dicotomia come forse pochi registi erano riusciti sino ad oggi a fare: pubblico e privato, guardia e ladro, uomo e personaggio… il film è costruito su uno schema quasi geometrico per tutte le contrapposizioni che mette in campo, ma queste alla fin fine sono unicamente strumentali all’esplorazione della zona intermedia che divide gli opposti e che regala gli slanci più lirici e sorprendenti del film. Ad esempio in quella sequenza stupendamente e puramente cinematografica in cui Dillinger visita il centro nevralgico delle indagini, quell’ufficio dei Federali dove nessuno lo riconosce e che Mann esplora con lui, in una sospensione onirica di rara forza espressiva.

D’altronde è lo stesso momento, nel film, in cui si ha quasi la sensazione che la storia possa deviare dal suo percorso scritto e che Johnny possa realmente risorgere dalle sue ceneri, dopo l’arresto e la consapevolezza di essere ormai inviso a un sistema criminale contiguo a quello legale: un nuovo colpo è in programma, l’unione con Billie è ancora salda, forse non tutto è perduto, l’icona pubblica ha ancora una sua incorporeità che è quella dell’uomo comune, che non riconosci per la strada o nei luoghi pubblici dove pure è l’unico a non voltare la testa, godendosi il suo essere contemporaneamente il fulcro della scena, ma anche l’elemento di sfondo, praticamente invisibile.

La dicotomia classica fra la guardia e il ladro diventa così residuale, sebbene veicolo di potenza espressiva grazie all’attenta calibratura degli elementi, fra una banda di “nemici” che, eccezion fatta per lo stesso Dillinger ovviamente, contempla elementi non troppo carismatici, preoccupati di mascherarsi da rappresentanti di calzature e di passare inosservati; e un gruppo di poliziotti ruvidi e alla bisogna violenti, ma che trovano nell’incedere inquieto e inquietante di un Christian Bale al massimo delle sue capacità espressive il loro fulcro. Anche qui Mann lavora di increspature, mostrando un altro personaggio pubblico, il cui lavoro deve legittimare la nascita dell’FBI e perciò non ammette errori, ma è pure viziato dall’inesperienza.

A fronte di un Dillinger eroe e dannato, perciò, Melvin Purvis è un personaggio meno trasparente, è il Dottor Jekyll che rivela le sue incoerenze davanti a Mister Hyde: non è un caso se, diversamente da Johnny, avrà bisogno di ricorrere all’inganno e al tradimento per fermare il nemico. Purvis dimostra così una contiguità con quel perverso ingranaggio di potere e illeciti che domina tanto l’apparato statale quanto quello criminale.

Si realizza in questo modo un particolare rovesciamento dei presupposti canonici del genere, che si pone al contempo in continuità e in disaccordo con il ritratto sociale veicolato dal precedente Miami Vice: i criminali glamour che si recano a Cuba per un drink e conducono una vita di lussi sono più vicini al desueto gangster romantico o al cinico poliziotto, pronto a tutto pur di vincere la sua battaglia e regalare in tal modo prestigio al Bureau? Mann apre la voragine, ma poi si ritrae per stare accanto ai personaggi, secondo un’ottica del suggerimento che è straordinariamente classica, sebbene iscritta in un film modernissimo. Resta dunque soltanto il piacere del lasciarsi andare al piacere della visione, lungo un racconto denso ed elegante, che trova il suo picco visivo nell’incredibile sequenza di caccia all’uomo condotta nei boschi, dove Mann mette in scena la più alta delle sue (non) dicotomie: una serrata sequenza di spari, dove l’enfasi è affidata unicamente all’impasto di luci che, come flash improvvisi, rompono il buio della notte. Non c’è musica, i dialoghi sono all’osso, i movimenti di macchina sono convulsi, sembra quasi di essere di fronte a un horror, magari a un Real-Movie stile Cloverfield o Blair Witch Project. Ma siamo “soltanto” di fronte a un moderno capolavoro del cinema.

Nemico pubblico
(Public Enemies)
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Ronan Bennett, Michael Mann e Ann Biderman (dal libro di Bryan Burrough)
Origine: Usa, 2009
Durata: 140’

Intervista a Michael Mann
Sito ufficiale italiano
Sito ufficiale americano
Sito ufficiale di John Dillinger (in inglese)
John Dillinger su Wikipedia
I trailer del film

1 commento:

Anonimo ha detto...

Tutte le sequenze che hai citato sono veramente straordinarie. Ma è tutto il film ad esserlo secondo me. Modernamente classimo, classicamente moderno.

Ale55andra