"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 27 marzo 2015

Mulberry St

Mulberry St

New York, un giorno come tanti: nella zona di Mulberry Street, a Manhattan, si incrociano le storie di alcuni abitanti di un condominio. C'è il roccioso ex boxeur Clutch, capofila della varia umanità del posto; sua figlia Casey, soldatessa in viaggio verso casa dopo essere rimasta sfregiata in Iraq; c'è Coco, drag queen locale, che porta un po' di leggerezza al contesto con la sua vivacità; l'anziano Frank, ammalato di cancro, cui bada Charlie, il tuttofare della palazzina; e poi c'è Kay, che gestisce il bar in strada e vive con il figlio Otto. Tutti restano coinvolti in una misteriosa epidemia, veicolata dai ratti del quartiere, che trasforma ogni vittima del loro morso in una belva, un ibrido uomo-ratto assetato di sangue. Le autorità dichiarano presto lo stato di emergenza e New York diventa un campo di battaglia, mentre i nostri protagonisti, guidati da Clutch, cercano di sopravvivere.


Il nome di Jim Mickle sta iniziando a ritagliarsi uno spazio importante all'interno del più recente cinema di genere americano, soprattutto in virtù della trasposizione da Freddo a Luglio di Joe Lansdale, che ha segnato per certi aspetti l'approdo a un cinema narrativamente più strutturato, sebbene sempre da considerarsi all'interno di una sfera indipendente. Mulberry St è la pellicola dell'esordio, un efficace zombie-movie riletto attraverso l'idea degli uomini-ratto e un'estetica da sottoproletariato urbano americano che ben si sposa all'impostazione da guerrilla filmmaking che caratterizza l'intera operazione.

La regia oscilla infatti tra una tensione documentarista, evidente nell'uso dei corpi attoriali privi di qualsiasi aura cool e nel modo in cui si getta a capofitto fra le atmosfere, i suoni e le pulsioni del mondo raffigurato; e poi una tendenza alla sgangheratezza da B-movie che si accompagna alla deriva più pulp della seconda parte della storia, quando emerge con più chiarezza l'idea del contagio e della proliferazione dei mostri assassini. Una natura ibrida che ritroveremo anche nelle altre opere del regista, compreso il già citato Freddo a Luglio, ma che qui più che altrove si sposa bene al desiderio di dare forma a un cinema di genere fiero di esserlo, e capace perciò di sguazzare tanto nelle pratiche più basse, quanto nell'ambizione di dare forma a un ritratto sociale che sia cartina di tornasole di un particolare momento storico.

Ciò che sembra interessare a Mickle è infatti il racconto di un tempo che scivola fra le dita e forgia in tal modo delle esistenze precarie, impegnate in una sopravvivenza continua che diventa specchio di un mondo condannato alla rovina. Il contagio che affligge New York diventa così nient'altro che la più evidente risultante di un'incapacità di tenere insieme le proprie vite tipica degli abitanti di Mulberry Street. I vari protagonisti sono infatti afflitti da una malinconia evidente, che il film elegge a linea guida restringendo sempre più il campo visivo addosso a ogni figura umana, amplificando in maniera progressiva e implacabile una situazione di assedio e di oppressione. Il vissuto stesso dei personaggi è rivelatorio: ci sono reduci di guerra, militari che recano le sofferenze sul corpo, ex atleti non realizzati e ragazze madri che si muovono in un contesto chiaramente influenzato dal clima di sfiducia post 11 Settembre, chiamato in causa non per gli eventi diretti delle Torri Gemelle, quanto per il clima di perenne tele/radiocronaca data dai costanti bollettini lanciati dai telegiornali o dalle trasmissioni che fanno il punto sull'emergenza (una mossa che, narrativamente, stabilisce anche un ponte con il capostipite La notte dei morti viventi).

La debolezza di certe raffigurazioni al limite dell'amatoriale si accompagna a tagli di inquadratura spesso sorprendenti nella loro raffinatezza, che riescono a riplasmare lentamente il mondo secondo una qualità espressionista. Gli spazi si reinventano, il fatiscente condominio diventa una trappola e i personaggi vengono immersi nei temi dominanti del verde e del rosso: la notte di fuga dai mostri diventa così un viaggio in una realtà psichedelica, illustrata con ritmi incalzanti, scanditi da un montaggio molto serrato (curato dallo stesso Mickle) e da un uso esasperato del grandangolo che genera la giusta tensione e rivela un'idea di cinema molto più definita di quanto le prime battute non facciano pensare.

Il divertimento si stempera poi nell'amarezza, mentre le varie microstorie convergono verso destini amari e privi di speranza. Un bell'esempio di quel pulp capace di oscillare fra emozioni e esiti anche diametralmente opposti, riverberando la vitalità di un genere altrove ormai troppo autoreferenziale e inerte. Anche solo vedendo questo film, si capirà bene perché Lansdale si sia affidato a Mickle per il suo lavoro.

Inedito in Italia, Mulberry St è stato proiettato al Torino Film Festival 2014 nell'ambito di un omaggio tributato al regista.


Mulberry St
Regia: Jim Mickle
Sceneggiatura: Nick Damici, Jim Mickle
Origine: Usa, 2006
Durata: 84'


Nessun commento: