Mulberry St
New York, un giorno
come tanti: nella zona di Mulberry Street, a Manhattan, si incrociano
le storie di alcuni abitanti di un condominio. C'è il roccioso ex
boxeur Clutch, capofila della varia umanità del posto; sua figlia
Casey, soldatessa in viaggio verso casa dopo essere rimasta sfregiata
in Iraq; c'è Coco, drag queen locale, che porta un po' di leggerezza
al contesto con la sua vivacità; l'anziano Frank, ammalato di
cancro, cui bada Charlie, il tuttofare della palazzina; e poi c'è
Kay, che gestisce il bar in strada e vive con il figlio Otto. Tutti
restano coinvolti in una misteriosa epidemia, veicolata dai ratti del
quartiere, che trasforma ogni vittima del loro morso in una belva, un
ibrido uomo-ratto assetato di sangue. Le autorità dichiarano presto
lo stato di emergenza e New York diventa un campo di battaglia,
mentre i nostri protagonisti, guidati da Clutch, cercano di
sopravvivere.
Il nome di Jim Mickle sta
iniziando a ritagliarsi uno spazio importante all'interno del più
recente cinema di genere americano, soprattutto in virtù della
trasposizione da Freddo a Luglio di Joe Lansdale, che ha
segnato per certi aspetti l'approdo a un cinema narrativamente più
strutturato, sebbene sempre da considerarsi all'interno di una sfera
indipendente. Mulberry St è la pellicola dell'esordio, un
efficace zombie-movie riletto attraverso l'idea degli
uomini-ratto e un'estetica da sottoproletariato urbano americano che
ben si sposa all'impostazione da guerrilla filmmaking che
caratterizza l'intera operazione.
La regia oscilla infatti
tra una tensione documentarista, evidente nell'uso dei corpi
attoriali privi di qualsiasi aura cool e nel modo in cui si
getta a capofitto fra le atmosfere, i suoni e le pulsioni del mondo
raffigurato; e poi una tendenza alla sgangheratezza da B-movie che si
accompagna alla deriva più pulp della seconda parte della
storia, quando emerge con più chiarezza l'idea del contagio e della
proliferazione dei mostri assassini. Una natura ibrida che
ritroveremo anche nelle altre opere del regista, compreso il già
citato Freddo a Luglio, ma che qui più che altrove si sposa
bene al desiderio di dare forma a un cinema di genere fiero di
esserlo, e capace perciò di sguazzare tanto nelle pratiche più
basse, quanto nell'ambizione di dare forma a un ritratto sociale che
sia cartina di tornasole di un particolare momento storico.
Ciò che sembra
interessare a Mickle è infatti il racconto di un tempo che scivola
fra le dita e forgia in tal modo delle esistenze precarie, impegnate
in una sopravvivenza continua che diventa specchio di un mondo
condannato alla rovina. Il contagio che affligge New York diventa
così nient'altro che la più evidente risultante di un'incapacità
di tenere insieme le proprie vite tipica degli abitanti di Mulberry
Street. I vari protagonisti sono infatti afflitti da una malinconia
evidente, che il film elegge a linea guida restringendo sempre più
il campo visivo addosso a ogni figura umana, amplificando in maniera
progressiva e implacabile una situazione di assedio e di oppressione.
Il vissuto stesso dei personaggi è rivelatorio: ci sono reduci di
guerra, militari che recano le sofferenze sul corpo, ex atleti non
realizzati e ragazze madri che si muovono in un contesto chiaramente
influenzato dal clima di sfiducia post 11 Settembre, chiamato in
causa non per gli eventi diretti delle Torri Gemelle, quanto per il
clima di perenne tele/radiocronaca data dai costanti bollettini
lanciati dai telegiornali o dalle trasmissioni che fanno il punto
sull'emergenza (una mossa che, narrativamente, stabilisce anche un
ponte con il capostipite La notte dei morti viventi).
La debolezza di certe
raffigurazioni al limite dell'amatoriale si accompagna a tagli di
inquadratura spesso sorprendenti nella loro raffinatezza, che
riescono a riplasmare lentamente il mondo secondo una qualità
espressionista. Gli spazi si reinventano, il fatiscente condominio
diventa una trappola e i personaggi vengono immersi nei temi
dominanti del verde e del rosso: la notte di fuga dai mostri diventa
così un viaggio in una realtà psichedelica, illustrata con ritmi
incalzanti, scanditi da un montaggio molto serrato (curato dallo
stesso Mickle) e da un uso esasperato del grandangolo che genera la
giusta tensione e rivela un'idea di cinema molto più definita di
quanto le prime battute non facciano pensare.
Il divertimento si
stempera poi nell'amarezza, mentre le varie microstorie convergono
verso destini amari e privi di speranza. Un bell'esempio di quel pulp
capace di oscillare fra emozioni e esiti anche diametralmente
opposti, riverberando la vitalità di un genere altrove ormai troppo
autoreferenziale e inerte. Anche solo vedendo questo film, si capirà
bene perché Lansdale si sia affidato a Mickle per il suo lavoro.
Inedito in Italia,
Mulberry St è stato proiettato al Torino Film Festival 2014
nell'ambito di un omaggio tributato al regista.
Mulberry St
Regia: Jim Mickle
Sceneggiatura: Nick
Damici, Jim Mickle
Origine: Usa, 2006
Durata: 84'
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