"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 17 dicembre 2010

Blake Edwards forever!

Blake Edwards forever!

Siamo impreparati a salutare artisti come Blake Edwards. Non è tanto questione che li crediamo immortali, ma che semplicemente non accettiamo l’idea che possano andarsene. E se non girano da tempo (l’ultimo film, Il figlio della pantera rosa, è del 1993) siamo sempre lì ad aspettare che tornino. Perché alla fine i grandi tornano sempre, vedi Coppola, Malick, Carpenter…

Invece Edwards, come Billy Wilder o Robert Wise, non era tornato e, diversamente dal secondo, non era nemmeno diventato uno di quei registi-ambasciatori di cinema, che restano comunque sempre sulla breccia e si godono i tributi di questa o quella retrospettiva. Persino il suo ricevere l’Oscar alla carriera nel 2004 era sembrato quasi un suo gesto di cortesia nei nostri confronti. Chissà, forse era consapevole di quanto il suo cinema ci mancasse. Di quanto in fondo lo spettatore sia sempre un po’ egoista nel suo costringere gli artisti a un continuo ritorno dietro la macchina da presa.

E quindi oggi coltiviamo questo egoismo, semplicemente non accettando il fatto che Edwards non ci sia più. Un vecchio adagio cinefilo afferma che in fondo degli artisti non si parla mai al passato, perché le loro opere restano eterne, ma in questo caso il discorso è un po’ più sottile, perché in fondo Edwards il passato non lo ha mai veramente vissuto, lui era già avanti. Era in quella linea di confine fra classico e moderno, soprattutto considerando come i suoi stessi film galleggiassero in quel limbo sottile che divide la commedia dal comico e fossero capaci di coprire una gamma espressiva che va dall’ironia alla risata grassa. Grande narratore e abile creatore di maschere, Edwards subisce insomma quel particolare transfert che lo porta a identificarsi con il mitico Ispettore Clouseau (per ammissione modellato su se stesso), ma che nella nostra mente è invece sostituito dal Sir Charles di David Niven ne La pantera rosa: ironico, elegante, gran furbacchione e capace di trarre divertimento dal reale.

In effetti, se poi andiamo a ripercorre la sua filmografia, ci rendiamo conto che in fondo i personaggi di Edwards sono così: la loro percezione è diversa dalla loro reale sostanza, basti pensare anche alla Julie Andrews di Victor Victoria o alla Ellen Barkin di Nei panni di una bionda. Uno iato che delinea una ricerca stilistica continua, ma anche una critica netta alla follia che muove il mondo. Quella che a volte esplode con virulenza drammatica, come accade nel poco visto I giorni del vino e delle rose, uno dei capolavori che da tempo merita di essere recuperato. Speriamo che almeno questa sia l’occasione giusta.
 

2 commenti:

Tamcra ha detto...

Ciao Davide!
Leggo sempre i tuoi post, ma stavolta hai superato te stesso. Volevo scrivere anch'io qualcosa su Edwards, dato che secondo me non è stato commemorato nel modo giusto (è "il-regista-di- Colazione-da-Tiffany", solo perché Audrey Hepburn è diventata un'icona su borsette e magliette come Marilyn). Vorrei ricordare l'intro de La Pantera Rosa sfida l'ispettore Clouseau , con Peter Sellers attaccato dal servitore Cato, oppure l'uso del sonoro in Hollywood Party . E la scena de I giorni del vino e delle rose in cui Jack Lemmon sfascia tutta la serra per trovare la bottiglia di whisky è una delle più strazianti e cinematograficamente efficaci che io abbia mai visto sulla rovina che danno le dipendenze.
Tanti carissimi auguri di buone feste!

Unknown ha detto...

Grazie Tamara, le tue parole mi fanno molto piacere e, ovviamente, considerati arruolata nel club di "quelli che non accettano la scomparsa di Blake Edwards"!

Tantissimi auguri anche a te!