"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

venerdì 24 aprile 2009

For a Moment, Freedom

For a Moment, Freedom
 
Tre gruppi di curdi iraniani fuggono dal loro paese ed entrano clandestinamente in Turchia, con l’obiettivo di ottenere dall’UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) il visto per un paese dove possano rifarsi una vita. Il primo gruppo è formato dai giovani Ali e Merdad, insieme ai piccoli Azy e Kian, che sperano di poter raggiungere i genitori in Austria; il secondo è formato da Hassan, sua moglie Lale e il figlio Arman; infine c’è l’anziano Abbas, che condivide la sua esperienza con il simpatico iracheno Manu. Mentre aspettano ognuno la propria occasione, tutti assaporano l’inedita libertà cercando di non farsi scoprire. Le loro vicende umane si intrecciano e portano a differenti destini: c’è chi riuscirà a ricongiungersi ai parenti lontani, chi rimarrà per inseguire un amore, e chi verrà invece arrestato e condannato a morte.

Per un momento, la libertà. Titolo apparentemente semplice quando penetrante, non per ciò che enuncia, ma per il modo in cui lo fa, inducendo nel lettore/spettatore quel senso di precarietà dato dal segno di interpunzione: è come se la libertà evocata e tanto cercata sia in questo modo allontanata ed emergesse soprattutto l’illusorietà dell’unico momento da afferrare per realizzare il proprio sogno.

Il tutto si ritrova poi nella capacità con cui viene modulato il racconto, in modo tale da evitare il facile manicheismo tra l’oppressione perpetrata dal regime della Repubblica Islamica e la libertà offerta dal paese più secolarizzato nel quale i protagonisti si ritrovano dopo la loro fuga. In questo senso, se il racconto è metaforicamente sospeso tra le due esecuzioni capitali su cui la pellicola si apre e si chiude, la libertà tanto agognata è appesa alla precaria necessità di rimediare il visto dell’ONU necessario a conseguire lo status di rifugiati: documento che peraltro non assicura affatto il ricongiungimento con i familiari presenti in altri stati poiché la ricollocazione dei protagonisti è subordinata al complesso sistema di quote di stranieri che ogni paese può legalmente accogliere. In questo senso, fra i tanti spazi delimitati che il film pone in essere, il principale è sicuramente quello descritto da due differenti concezioni della legge, quella che abbraccia una idea di stato oppressivo per le libertà dei singoli e quella che invece dà forma a strutture che, nel tentativo di aiutare i bisognosi, si dimostrano loro malgrado inefficaci. Il film non tace la prima realtà e non nasconde la seconda, attraverso il disperato tentativo di Hassan di ottenere un visto che gli viene rifiutato e che lo porterà a gesti estremi: un momento nel quale si fa più evidente l’aspirazione al modello fornito dal neorealismo e in particolare dal Vittorio De Sica di Ladri di biciclette, rivisitato in un’ottica ancora più cupa e adeguata alla posta in gioco. La scena anticipa peraltro una delle svolte più forti del film, dove la moglie Lale si renderà protagonista di una scelta di grande carattere, utile a ribadire come, in un mondo dove “è necessaria una carta per poter stare con i propri genitori” (come ribadito con tristezza dalla piccola Azy) la posta in gioco è la dignità dei singoli, non barattabile sul piano della burocrazia. Lo scarto, quindi, da legale diventa squisitamente umano e investe in profondità i sentimenti dei singoli individui, fatto che ribadisce la principale qualità del film, ovvero quella di restituire ai personaggi quel senso strappato dalla contrapposizione dei differenti mondi.

Il parallelo con il neorealismo è calzante soprattutto per la volontà palese di dare forma a un racconto popolare che sappia coinvolgere emotivamente lo spettatore attraverso una serie di eventi incrociati che dicono delle caratteristiche primarie dell’uomo e dei suoi bisogni: a quelli più facilmente intuibili (la fame, il freddo) si sommano ovviamente altri più complessi come la necessità di formare un legame affettivo, la rivalità fra Ali e Merdad che si contendono la stessa ragazza, la necessità infine di salvare chi viene sequestrato dai servizi segreti iraniani e torturato. La struttura messa in piedi dal regista Arash T. Riash è variegata non solo perché passa da momenti ironici ad altri più drammatici, ma anche perché sa intervenire sulle singole situazioni: la disperata ricerca di cibo dà quindi vita alla surreale e divertente sequenza in cui lo stralunato Manu (fra i personaggi più memorabili del film) tenta di catturare il cigno di un parco pubblico salvo poi vedersi inseguito dallo stesso, evidentemente molto contrariato dal dover ricoprire il ruolo di preda. Lo stesso animale, o meglio una sua piuma, lascia poi scaturire una scena dallo splendido sapore thriller, quando le autorità penetrano in casa dei due disperati, in cerca del cadavere dell’animale e l’unico segno della sua presenza (la piuma appunto) si sposta nell’aria, passando tra i piedi dei poliziotti senza che gli stessi se ne avvedano. E’ proprio la capacità di evocare scenari e situazioni altre (viene in mente la piuma di Forrest Gump) a colpire in questo racconto che, senza darlo a vedere, è pregno di sentimenti e di amore per il cinema ed estrinseca questa qualità stando addosso ai suoi protagonisti, amandoli e seguendone i destini. 

D’altronde il film non nasconde di muoversi anche sulla linea sottile che separa il cinema di finzione dalla rappresentazione storica: gli eventi sono infatti ispirati a fatti realmente occorsi al regista, fuggito dall’Iran insieme ai genitori quando aveva otto anni e che, nell’elaborare la sceneggiatura lungo quasi un decennio, ha attinto anche alle esperienze di amici comuni. Lo stesso cast è in larga parte composto da attori non professionisti (altro segnale che rimanda al neorealismo) e da autentici rifugiati, che permettono l’amplificazione della qualità umana sopraccitata e che aiutano lo spettatore ad appassionarsi alle vicende, a scoprire come anche nelle situazioni più difficili emergano aspetti precipui del carattere dei singoli (il senso di sfida, quello di solidarietà) e spesso sia il caso a definire le imprevedibili svolte del destino. Tutto questo senza considerare, ovviamente, la possibilità offerta da un film che è un vero e proprio controcampo cinematografico su una realtà spesso celata o poco considerata dal pubblico occidentale. In questo senso il messaggio universale e umano voluto dal regista raggiunge sicuramente il suo scopo regalando una sincera commozione.

Premio Speciale della Giuria al Festival del Cinema Europeo di Lecce 2009.


For a Moment, Freedom
(Ein Augenblick Freiheit)
Regia e sceneggiatura: Arash T. Rihai
Origine: Austria/Francia, 2008
Durata: 110’

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