"C'è chi crede in dio o nel denaro. Io credo nel cinema, nel suo potere. L'ho scoperto da ragazzino, mi ha aiutato a fuggire da una realtà in cui ero infelice. È una delle forme d'arte più alte che l'uomo ha concepito. Credo nel suo futuro."
(John Carpenter)

lunedì 1 dicembre 2008

Torino Film Festival: The Day After

Torino Film Festival: The Day After

Nel 1996, in occasione della scomparsa di Lucio Fulci, lo sceneggiatore Dardano Sacchetti ricordava una domanda che, a suo dire, il regista de L’aldilà gli sottoponeva alla presentazione di ogni progetto: “dov’è il Lepre?”. Il Lepre era quello che manzonianamente si potrebbe definire “il sugo della storia”, quell’essenza più intima che tiene insieme un progetto, lo plasma e gli dà un senso e una forma. Mi è capitato più volte in questi giorni trascorsi tra le 11 sale cittadine che hanno ospitato l’edizione 26 del Torino Film Festival di ripensare a questa domanda: dov’è il Lepre? Qual è il senso che questo festival profondamente rinnovato vuole esprimere?

I numeri, si sa, sono sempre quelli che dettano legge e quindi di fronte agli ottimi incassi e al coro unanime di consensi che ha accompagnato in questi due anni l’opera del direttore Nanni Moretti risulta facile mettere da parte le singole perplessità e accettare l’idea rilanciata dalla grancassa mediatica che il festival si sia rinnovato nella continuità con il passato, modernizzandosi senza cambiare pelle. Ma in realtà quello che dovrebbe risultate evidente è che il festival, così come è ora, non riflette più una particolare identità, non è cinefilo come la Mostra di Venezia (era Muller) o glamour come la Festa di Roma (era Veltroni) e il suo perseguire un’idea di rigore sa di immobilismo. Un’opera di moralizzazione cinefila che sa di pura e semplice “morettizzazione”, all’inseguimento del cinema serio che inevitabilmente vuol dire serioso, di un programma che non produce scossoni e si preoccupa principalmente di contingentare gli spazi in percorsi ben definiti e impermeabili a se stessi, ironicamente in contrasto con l’atteggiamento informale e il look “spettinato” del Direttore.

Ecco dunque che le retrospettive non favoriscono una dialettica con il presente (anche perché viene a mancare il controcampo fornito un tempo da sezioni come “Americana”), ma sono corpi immobili in una visione da cineteca, museificatrice, oltre a risultare chiaramente in numero eccessivo - perché usare l’interessante tema della “British Renaissance” come “cuscinetto” fra le due personali quando sarebbe stato molto più interessante rinviarla a una futura edizione in una forma più elaborata?

Lo stesso in larga misura accade anche con le sezioni principali, fautrici di un cinema ben fatto e “corretto”, ma senza particolari scossoni, che non a caso vede diminuire drasticamente la presenza del pubblico giovane per lasciare spazio a un’utenza mediamente più matura, non classicamente festivaliera e per questo poco entusiasta, che dona nuovo senso alla classica espressione “strappare l’applauso”, tanto restìa è la sua risposta alla fine delle pellicole (di ieri e di oggi). Come è possibile continuare a selezionare opere come Non-Dit di Fien Troch quando il tema dell’affetto filiale negato dalla privazione di un figlio viene negli stessi giorni completamente riplasmato dall’immenso Clint Eastwood di Changeling che ne fa un’opera intensissima sulla persistenza del dolore e la necessità di un confronto sullo stesso, senza inutili e forzate patine autorialistiche?

Manca insomma quel piccolo scarto che permetta lo speedball nell’imprevisto, mancano gli eventi, ché tale non si può certo definire l’anteprima di un progetto già fallimentare in partenza come il W. di Oliver Stone. Il che non significa banalmente che manchi lo strumento da gossip (del quale se ne fa anzi volentieri a meno), ma che manca una varietà, un elemento di leggerezza che arrivi a confondere le carte e a dare il giusto legame di continuità fra gli spazi tra loro più diversi.

Non è un caso che le uniche sezioni davvero degne di nota risultino essere, per concezione e per risultati, “La Zona” e la piccola rivelazione “L’amore degli inizi”: la prima infatti è l’unico spazio coerente con il suo tema e capace di mostrare un panorama variegato che nella serietà dei propositi e nella necessità di ricerca si preoccupa anche di disequilibrare i margini per offrire spazio a operazioni tra loro differenti e destinate a pubblici, sicuramente ristretti, ma comunque trasversali. Si vedano in questo senso il sorprendente corto animato Chainsaw di Dennis Tupicoff, lo splendido affresco metropolitano Plot Point di Nicolas Provost, il fluviale Historias Extraordinarias di Mariano Llinás e la bellissima personale dedicata a Kohei Oguri.

Gli esordi del cinema italiano, correlati da dibattiti (molto ben fatti e interessanti) che hanno visto insieme lo stesso Direttore e registi quali Marco Tullio Giordana, Claudio Caligari, Salvatore Piscicelli descrivono invece uno spazio coerente con il ruolo critico che Moretti si è voluto (e potuto) ritagliare da sempre all’interno del panorama italiano e anche una intelligente risposta alle “lezioni di cinema” romane, rilette ovviamente alla luce del taglio rigoroso e storicistico prediletto dalla “piazza” torinese. Un momento per parlare del passato prolungando lo sguardo fino al presente, attraverso i confronti del caso e le parole di chi il cinema di ieri lo ha fatto e continua ancora oggi a confrontarsi con la contemporaneità. E anche un’occasione per vedere all’opera piccoli squarci di vita, di pensieri per immagini che si fanno sostanza di emozioni.

Che è poi ciò che manca ormai all’ombra della Mole, dove quello che è diventato nel tempo uno dei principali poli produttivi e culturali del nuovo cinema italiano ha avuto bisogno dell’autore esterno per fare coagulare le varie anime interne al panorama locale: la Storia in fondo insegna, alla fine il Signore giunge da lontano per sedare i contrasti all’interno del Comune, nella convinzione che tutto continuerà a scorrere come prima, anche se poi, sotto la calma apparenza garantita dalla superficie, c’è una sostanza che viene plasmata nel profondo.

Cosa auspicare dunque per questo festival in deficit di anima? Di aprirsi maggiormente al mondo mettendo però in discussione il successo fin qui così clamorosamente conquistato? Ognuno evidentemente faccia le scelte che ritiene più opportune, e alla fine parlino i risultati: l’affluenza generica dei molti e lo scontento motivato dei pochi, ricordando però che il parallelo è da intendersi anche come la differenza che passa tra un festival di successo e uno realmente indispensabile. Che non sempre sono la stessa cosa.

Galleria fotografica del Torino Film Festival 2008

1 commento:

Anonimo ha detto...

Indovina?
Non sono per nulla d'accordo con ciò che hai scritto.
Io ho visto un festival vivo, interessante, vario, profondamente cinefilo, appassionante per il pubblico e gustoso per la critica.
E' vero, il pubblico giovane è diminuito a vantaggio di una platea più adulta, la retrospettiva British Renaissance è stata sacrificata e tenuta in disparte...e gli horror mancano tanto anche a me.

Ma, aldilà della mia innata simpatia morettiana, io ho apprezzato un festival ricco di visioni che hanno dato adito a stimoli di riflessioni non banali (ti assicuro che di film in concorso ben fatti e intriganti ce n'erano più di uno).

Non capisco poi cosa significhi quella frase su "Non-Dit", film che io ho apprezzato. Solo perchè Clint ha fatto The Changeling allora bisogna ora eliminare tutti i film che parlano di tematiche similari?? Allora eliminiamo anche tutti i film sportivi (million dollar baby), tutti i thriller metropolitani (mystic river), ecc ecc, e ci limitiamo a guardare i cartoni animati.

In totale disaccordo, con stima.
Alessio